Dieci minuti a notte (lo strano caso del rag. S.G) di Donato Altomare

Aprì gli occhi di colpo.
7.10.
Eppure la sveglia aveva suonato, ne era sicuro, lo vedeva dal lampeggiare della lucetta rossa.
Ma lui non l’aveva sentita.
Borbottò qualcosa all’indirizzo della vita stressante e si alzò da letto. Dieci minuti non erano poi tanti, avrebbe fatto tutto più in fretta del solito.
Difatti giunse in ufficio in perfetto orario.

Aprì gli occhi di colpo.
7.20
– Ma che cazzo!
Balzò giù dal letto e sollevò l’orologio sveglia. Il led rosso lampeggiava a indicare che la sveglia aveva compiuto il suo dovere.
– Questo lo vedremo stasera. – Fece tutto in fretta e giunse sul posto di lavoro con un solo minuto in ritardo. Nessuno gli fece caso.

Aprì gli occhi di colpo.
7.30
– Non è possibile! – Il led lampeggiava, ma anche la sveglia manuale che aveva affiancato alla radio-sveglia era scarica. E questo significava inequivocabilmente che aveva suonato per tutta la sua carica.
Cominciò a preoccuparsi. Non aveva un sonno pesante e sino a un paio di giorni prima la sveglia l’aveva gettato giù dal letto senza pietà. Doveva essere accaduto qualcosa che l’aveva reso refrattario al suono della maledetta. Forse l’oggetto aveva una sua anima e si stava vendicando per tutte le volte che l’aveva mandata al diavolo. Telefonò in ufficio e disse di non sentirsi bene e che avrebbe portato l’indomani il certificato medico. Non aveva invocato la solita scusa, perché la sua intenzione era proprio quello di andare dal medico di base.
Era un giorno di ricevimento, 10-12 dei giorni dispari. Si vestì con calma e alle 10 in punto era seduto nella saletta antistante lo studio medico. Era il settimo. Si mise in paziente attesa.
Quando uscì dall’ambulatorio era più confuso che mai.
Non aveva problemi di udito, né disturbi d’altro genere. Il medico, un brav’uomo che lo conosceva sin da bambino, gli disse di non drammatizzare la cosa. Tre eventi apparentemente inspiegabili non potevano essere considerati un caso, per cui gli consigliò di prendersi una settimana di ferie, di tornare a casa e registrare manualmente tutto, quando andava a letto, presumibilmente quando si addormentava, quando si svegliava. Senza però mettere la sveglia, lasciando fare alla sua natura.
E così fece. Non fu difficile farsi dare una settimana di ferie, erano tre anni che non ne prendeva. Non ne aveva mai avuto bisogno.
Annotò la cena con le pietanze e la loro quantità, scrisse che non beveva vino, anche se era superfluo, gustò della frutta secca che adorava e andò a letto alla solita ora, dopo essersi sufficientemente stordito con la TV. L’unica cosa che non riuscì a annotare e quando si era addormentato.

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22/11/’63 di Stephen King

Scrivere una recensione di questo romanzo non basta, se ne dovrebbero scrivere molte di più. Romanzo politico, d’avventure, d’amore, filosofico, 22 11 63 è l’opera più complessa di King, solo IT può essergli pari. E appartiene alla categoria dei libri di King più riusciti, quelli che raccontano un dramma individuale. Quello del professor Jack Epping che trovata una piega temporale, torna indietro nel passato per impedire l’assassinio di John Kennedy. Fallito negli affetti e nella vita, Jack vuol migliorare il mondo, dimenticando la storia del ‘900 che insegna che chi vuol creare il paradiso in terra, di solito crea l’inferno. La premessa drammaturgica dell’intero libro lungo 700 pagine, è semplice: il passato è inflessibile, non vuol essere cambiato. Epping troverà mille ostacoli alla sua missione, i denti aguzzi della ruota del tempo, il grande ingranaggio, lo metteranno a dura prova. Ma Jack troverà qualcos’altro: Sadie, una delle più belle e affascinanti figure di donna create da King. Salvare il mondo è un’ottima idea, ma è noto di cosa sia lastricata la via dell’inferno e il futuro che Jack determinerà salvando John Kennedy, sarà un incubo terrorizzante. Per riparare all’errore, Jack dovrà sacrificare quello a cui tiene davvero e i denti aguzzi del tempo sono indifferenti all’amore… Se Jack l’avesse compreso prima. Nello struggente finale Jack e Sadie ballano ancora. Insieme, ma divisi dal tempo, diabolica invenzione umana irreversibile che solo nell’armonia dei corpi, dei sentimenti, dell’arte, perde il suo potere di coercizione e lascia il campo all’eternità, nella quale Sadie e Jack danzano, danzano soli…

L’AUTORE
Stephen Edwin King, il re della letteratura horror, è nato il 21 settembre 1947 a Scarborough, nel Maine. Suo padre era un militare impegnato nella Seconda Guerra Mondiale come capitano nella Marina Mercantile mentre la madre era una donna di origini modeste. La famiglia di King subisce un brutto trauma quando Stephen è ancora piccolo. Il padre, uscito di casa per fare una passeggiata, si dileguerà nel nulla senza più fornire alcuna notizia di sé.
La famiglia inizia così un lungo girovagare negli Stati Uniti, in cerca di un lavoro per la madre che accetta ogni occupazione anche dura e malpagata. Stephen e suo fratello non vengono lasciati però del tutto soli. La donna li guida all’ascolto della buona musica e alla lettura dei classici della letteratura. Stephen King già a quattro anni dimostra di essere affascinato dall’insolito. A sette anni scrive il suo primo racconto e scopre il terrore nel 1957, a dieci anni, durante la visione del film La terra contro i dischi volanti, che lo traumatizza. Due anni dopo scopre nella soffitta della zia i libri del padre, appassionato di Edgar Allan PoeLovecraft e Matheson. Trova anche racconti della rivista Weird Tales, di Frank Belknap Long e di Zelia Bishop. Scopre così che il padre era un aspirante scrittore, affascinato dalla fantascienza e dall’horror. Nel 1962 King inizia a frequentare la Lisbon High School, a Lisbon Falls, nei pressi di Durham. Qui nasce probabilmente il sogno di divenire scrittore. Inizia a spedire i suoi racconti a vari editori di riviste, senza però alcun successo concreto. Entra all’Università del Maine ad Orono. Nel 1967 Stephen King termina il racconto breve The Glass Floor, che gli frutta 35 dollari a cui fa seguito, qualche mese dopo, il romanzo La lunga marcia.Nel febbraio del 1969 conosce Tabitha Jane Spruce, poetessa e laureanda in storia, sua futura moglie. Nel 1970 si diploma all’università, ottenendo il Bachelor of Science in English e, date le difficoltà per trovare un posto di insegnante, inizia a lavorare presso un distributore di benzina. Nel 1971, dopo una serie di esperienze lavorative umili, inizia ad insegnare inglese alla Hampden Academy. Nasce la primogenita della famiglia King: Naomi Rachel. La famiglia si trasferisce a Hermon, vicino a Bangor nel Maine. Lo scrittore inizia a lavorare a L’uomo in fuga. Nel 1972 arriva il secondo figlio, Joseph Hillstrom (il terzo sarà Owen Phillip) ed il bilancio della famiglia comincia a farsi problematico. Stephen King pensa che il suo sogno di diventare scrittore sia un’utopia. Non può pagare tutte le bollette e decide di sacrificare prima il telefono, poi l’automobile. Inizia a bere e inevitabilmente la situazione precipita. Nel 1973 le cose migliorano improvvisamente. Pubblica Carrie per la Doubleday. che gli mette in mano un assegno di 2500 dollari come anticipo per la pubblicazione del romanzo. A maggio arriva la notizia che la Doubleday ha venduto i diritti dell’opera alla New American Library per 400.000 dollari, metà dei quali spettano di diritto al giovane autore. I problemi economici sono risolti e King, a ventisei anni, lascia l’insegnamento per dedicarsi alla professione di scrittore. L’anno dopo la famiglia trasloca a Boulder, nel Colorado. Qui inizia la stesura di Shining, un’opera con chiari riferimenti autobiografici. Inoltre vende i diritti di Le notti di Salem, per 500.000 dollari. La famiglia ritorna nel Maine occidentale e qui l’autore finisce la stesura de L’ombra dello scorpione. Di lì a poco arriva anche il primo grande successo cinematografico, grazie a Carrie, lo sguardo di Satana, diretto dal già famoso Brian De Palma. Poi è un susseguirsi ininterrotto di successi quando le sue storie vengono trasposte in film. Ormai ricco, nel 1980 si trasferisce con la famiglia a Bangor, dove acquista una villa vittoriana con ventotto camere, ma continua ad usare la casa di Center Lovell come residenza estiva. Vengono pubblicati L’incendiaria e il saggio Danse Macabre. Inizia la stesura di It mentre al cinema esce il film-capolavoro di Kubrick basato sulla storia di The Shining. In questo periodo Stephen King è il primo scrittore di sempre ad avere ben tre libri nella classifica dei best-seller nazionali. Un record che batterà lui stesso qualche anno dopo. Nel 1994 esce Insomnia. Il racconto The Man in the Black Suit vince due premi ed esce il film Le ali della libertà diretto da Frank Darabont e tratto dal racconto Rita Hayworthe la redenzione di Shank. Vince un Bram Stoker Award per la Migliore Novella per Colazione al Gotham Café. Escono nelle sale cinematografiche numerosi film tratti dai suoi romanzi. Nel 1997 dopo sei anni di attesa il quarto volume della saga La Torre Nera con La sfera del buio. Dopo venti anni King saluta l’editrice Viking Penguin e passa alla Simon Schuster. Alla firma del contratto percepisce la bellezza di 2 milioni di dollari come anticipo per soli tre libri, ma guadagna anche royalty sulle copie vendute che vanno dal 35 al 50%. Nello stesso anno un fatto drammatico irrompe nella vita fortunata dello scrittore. Durante una passeggiata nei pressi di casa, viene travolto da un furgone: è in fin di vita. Viene operato ben tre volte in pochi giorni. Il 7 luglio lascia l’ospedale, ma per la sua completa guarigione occorreranno ben nove mesi. Nel 2000 pubblicherà il saggio On writing: autobiografia di un mestiere, un resoconto della sua vita di scrittore e una serie di riflessioni su come nasca la scrittura. Stephen King ha venduto complessivamente nell’arco della sua lunga carriera oltre 500 milioni di copie. Dai suoi romanzi sono stati tratti circa quaranta tra film e miniserie televisive, di fortuna alterna e diretti da registi di varia abilità (sé stesso compreso).




Voodoo, un fenomeno religioso

Vodou, vodu, voudou, vodoun, voodoo e hoodoo: questo fenomeno religioso ha molte designazioni, alcune delle quali sono linguisticamente equivalenti, mentre altre non sono corrette e gli studiosi contemporanei consigliano di evitarle. I non haitiani ad esempio usano i termini voodoo, hoodoo e vodun in senso peggiorativo e denigratorio per categorie altrettanto generiche come magia, stregoneria, incantesimo o altro che si riferisca al “lato oscuro” della religiosità africana.
Il termine voodoo ad esempio si preferisce oggi sostituirlo, come concordano sia gli accademici sia gli haitiani, con una più storicamente e foneticamente corretta forma vodou.
L’erudito francese Mederic Louis Elie Moreau de St.-Mery, vissuto a Santo Domingo tra il 1780 e il 1790, riporta di una religione “Vaudoux” le cui origini sarebbero riconducibili al “culto del serpente” presso i Dahomey.
Il termine era in realtà già comparso per la prima volta nel 1658 nella Doctrina Christiana, riportato dall’ambasciatore del re di Allada alla corte di Filippo IV di Spagna. Il testo, redatto in spagnolo e in ayizo traduce vodu come “dio”, sacra, riportando il termine in varie forme per un totale di circa 60 occorrenze. Questa testimonianza è importante perché colloca le origini del vodou nella famiglia linguistica a cui appartengono anche il fon, l’aya, il mahi e altri gruppi simili
Altri invece hanno ritenuto di poter individuare l’origine del termine in una particolare radice; secondo Bruno Gilli antropologo e missionario comboniano la cui ricerca si è focalizzata nell’area Ouatchi in Togo, la parola deriverebbe dalla radice vo di lingua ouatchi, che significa buco, apertura, fosso, cavità. “Gettare il vo” significa allontanare ogni pensiero triste e ogni presagio negativo; il vo si configura essere quindi un qualcosa di nascosto e di non detto, un segreto coperto dal più rispettoso riserbo, perché non chiaramente definibile, che ci turba senza un apparente motivo e ci fa stare in quello stato d’animo di inquietudine in cui sentiamo che qualcosa sta per accadere.
Il vo, inteso come potenza impersonale, non ha connotazione negativa, però bisogna saperlo padroneggiare: «è per questo che si procede ad abluzioni purificatorie con l’acqua contenuta nelle giare poste nei luoghi di culto o nei cortili delle case»

Il vodou è una presenza
Chi si renda colpevole, anche senza intenzione, di qualche manchevolezza, un’omissione, una dimenticanza, fino alla vera e propria profanazione e all’atto sacrilego, incorre nelle conseguenze del “disordine” che questo incidente ha provocato; il vo, che è insito in tutto ciò che esiste, allora diventa quel “potere” inafferrabile e indefinibile che può punirci o premiarci, secondo una “legge cosmica” alla quale gli uomini non possono sottrarsi, ma solo assecondare.
Il vo, anche nella sua indefinitezza, non è tuttavia qualcosa di distante e trascendente perché, ricorda il missionario antropologo, il significato simbolico e segreto di queste potenze e dei termini che li designano sono «sempre in relazione alla terra e all’uomo».

Il recinto sacro
E nella terra ci riporta l’analisi lessicale da cui si prendono le mosse, tornando al vo e alla sua traduzione in lingua ouatchi del Togo come buco, cavità, una profondità scavata. Ebbene questo significato, in apparenza incoerente o quantomeno troppo vago, assume una maggiore chiarezza se si considerano alcune locuzioni proprie della pratica del vodou come i nomi dei gradi iniziatici, alcuni dei quali sono particolarmente indicativi: “Il vodou è nella cavità”, “La cavità venera il vodou”, “La cavità è divenuta rancore” e così via.

I vodou abitano le profondità
Ancora più fuor di metafora sembra un ulteriore collegamento tra la pratica rituale e la terra scavata: ogni tempietto dedicato a un’entità vodou presenta una cavità di grandi proporzioni, che viene riempita con tutto quello che serve al vodou per “formarsi”; sulla sua sommità, unica parte dell’hudo visibile all’esterno, è posto un altare.
Il vo contiene semanticamente dunque queste due valenze, l’inafferrabile potere che pervade il mondo e un buco nella terra dove trovano dimora fisica e simbolica le entità e i loro devoti. Il termine vodou è però composto da un altro monosillabo, du, anch’esso legato alla pratica divinatoria di Afa, entità preposta alla geomanzia. I du di Afa sono piccoli oggetti che rappresentano simbolicamente ciascuno «una certa categoria del bene o del male, che sta probabilmente perseguendo la persona che si è rivolta al geomante, e che ella non conosce ancora. L’interessato tiene gli afadu nascosti nel pugno, dietro la schiena, uno ad uno, e il geomante, con l’aiuto delle figure, deve scoprirli e indicare quelli che intervengono nel caso in questione».
I du sono gli strumenti attraverso cui Afa si esprime, sono il suo mezzo per rendere noto il volere delle entità in relazione alla richiesta del consultante: il du è sia il messaggio sia il messaggero, nascosto nella cavità, una manifestazione del vo inteso come l’invisibile, il numinoso e tutto ciò che oltrepassa la conoscenza dell’uomo.




La magia di Rambaldi

Carlo Rambaldi, artista di vecchio stampo, un artigiano del set che odiava, su tutti, il computer: « Si è persa la magia, come quando un prestigiatore rivela i suoi trucchi ai presenti. Adesso tutti i ragazzi possono creare i propri effetti speciali con il computer di casa » diceva a chi gli chiedeva del suo lavoro. « Il digitale costa circa otto volte più della meccatronica. E.T. è costato un milione di dollari, l’abbiamo realizzato in tre mesi. Nel film ci sono circa 120 inquadrature. Se noi volessimo realizzare la stessa cosa con il computer ci vorrebbero almeno 200 persone per un minimo di cinque mesi » disse.
Il suo primo Oscar arrivò con King Kong di John Guillermin del 1976, per il quale creò un gorilla robot alto 12 metri. Nel 1979, insieme a Hans Ruedi Giger, collaborò nella realizzazione della creatura aliena protagonista di Alien di Ridley Scott dove si aggiudicò la seconda statuetta. La collaborazione con Steven Spielberg iniziò nel 1977 durante le riprese di Incontri ravvicinati del terzo tipo, mentre nel 1982 arrivò il terzo Oscar con E.T. l’extra-terrestre. Nel 1984 Rambaldi fu chiamato anche da David Lynch per creare i titanici vermi delle sabbie e gli inquietanti Navigatori della Gilda spaziale protagonisti del film Dune.
Negli anni sessanta e settanta iniziò la sua gavetta lavorando per registi italiani quali Mario Monicelli e Marco Ferreri, in La grande abbuffata, Pier Paolo Pasolini e Dario Argento nel 1975 per il suo cult Profondo Rosso.