Le nuvole sopra il kibbutz erano una spruzzata di porpora nel crepuscolo marziano. Fiumi di sabbia scorrevano nell’aria gelida dell’altopiano. All’interno del rifugio, il controllo climatico manteneva la temperatura in un intervallo costante attorno ai ventidue gradi Celsius. Sebbene non fosse Massawa nel mese di agosto, Kafir si sentiva un bagno di sudore. Trattenendo i brividi, abbassò lo sguardo al display del terminale da polso. Erano da poco passate le ventitré, tempo standard di Redline Station. Manca poco, pensò Kafir, facendosi cupo. Poi tornò a guardare fuori, oltre il perspex polarizzato che rifletteva il monitor del laptop dietro di lui, uno spettro elettrico tra le immense distese scarlatte e immobili del panorama alieno.
Da qualche parte là fuori, ormai sepolto dalla sabbia granulosa, si trovava il rover di superficie Biyouma con cui era fuggito dall’avamposto di Marsport. L’uragano che imperversava sull’altopiano aveva ormai cancellato le sue tracce. Ma l’Inseguitore, Kafir ne era più che certo, avrebbe trovato il modo per arrivare fino a lui.
Un sospiro rassegnato allentò la tensione dei suoi muscoli. Kafir rivolse uno sguardo di apprensione al fucile d’assalto akm appoggiato contro il muro. I suoi pensieri, in quel frangente, gli apparivano come fossili stratificati sotto tonnellate di roccia. Si sentiva lento, pesante, spossato e, cosa ancora peggiore, pronto ad accettare il suo arrivo come l’unica conclusione necessaria e quindi accettabile di quella lunga, inutile fuga.
La sua sorte era segnata come quella dei suoi compagni, non serviva l’istinto dell’oungan per capirlo.

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