L’occhio sinistro di Horus 6° episodio di Gloria Barberi

Era stato proprio Petrie a profetizzarlo, anni prima. Un giorno la mia impulsività mi avrebbe fatto finire nei guai, e la sua predizione si era appena avverata in quel giorno del gennaio 1905.
Ma era andata davvero come con il fellah che aveva distrutto il pavimento ad Amarna? Intendevo davvero fare del male, ferire… uccidere? Avevo puntato il fucile deliberatamente, questo era vero; ma avevo altrettanto deliberatamente tirato il grilletto? No, non ricordavo di averlo fatto, il colpo era partito per sbaglio. Ma ricordavo forse di avere aggredito quell’uomo ad Amarna?
L’eco della fucilata mi rimbombava ancora nel cranio, sfumando e modulandosi in curiose tonalità che sembravano quasi formare delle parole. “Bentornato tra noi”. La voce di Crowley. Bentornato… Perché? Avrebbe dovuto dire “benvenuto”… Hemseth… Merinisut… Lubhyami. Chi ero? Chi ero davvero?
Sdraiato sul letto fissavo il soffitto e continuavo a vedere il sole che esplodeva in frantumi. Indossavo ancora la camicia macchiata di sangue.
La porta si aprì senza che nessuno avesse bussato.
“Howard…”
Eccola; con i suoi riflessivi occhi grigi da bambina saggia. Non mi voltai. Pensavo che non avrei più potuto guardarla in faccia.
“Sono venuta a vedere se hai bisogno di qualcosa.”
Feci cenno di no con la testa.
“Oh, Howard!” La voce di Janet era tesa ma non c’era traccia di rimprovero, e le fui grato per questo. “Ho parlato con Petrie. Lui testimonierà che s’è trattato di un incidente. Tu non ne hai colpa, è stata una disgrazia.”
Janet sedette sul letto accanto a me e mi toccò leggermente su una spalla, come per risvegliare un dormiente.
“Se non ti va di parlare non importa, ma lasciami restare un po’ con te.”
Mandarla via era invece la cosa più giusta da fare, ma non ne avevo la forza né il coraggio, ero completamente inerte. Lei prese ad accarezzarmi i capelli: un subdolo espediente a cui le donne ricorrono per penetrarti dentro l’anima, un’astuzia appresa fin da bambine, con le bambole, e perfezionata da adulte con amanti e figli.
“Potevo ucciderlo” bisbigliai. “Volevo ucciderlo.”
“Non dire sciocchezze.” Dolce, ma anche molto decisa. “Piuttosto, dovresti cambiarti questa camicia.”
“Lasciami in pace” mormorai stancamente. “Vattene.”
La sua mano mi sfiorò la guancia.
“Lo vuoi davvero?”
“No.”
Ero come il suicida resoluto ad annegarsi, che all’ultimo momento si aggrappa alla mano che cerca di tirarlo fuori dall’acqua; cosciente volontà d’abbandono e cieco istinto di sopravvivenza.
“Lo sapevo” disse lei, e mi baciò.
Da bambino, dopo qualche furioso temporale, mi piaceva correre tra l’erba che si piegava appesantita dalla pioggia. Ogni singolo stelo sembrava più tenero, carnoso, di un verde quasi abbagliante. “L’erba ha bevuto fino a scoppiare” dicevo, e nessuno capiva. Come non capivano quando mi buttavo a pancia sotto in quel verde umido e soffice, cercando contro il viso e le mani la solleticante carezza degli steli umidi, respirando l’odore pungente e asettico di alte quote che le gocce di pioggia ancora trattenevano nel loro fulcro iridescente. Ero felice d’inzaccherarmi, entrare in contatto con i profondi misteri della terra attraverso la serica cedevolezza del fango, senza curarmi dei rimproveri che ne sarebbero seguiti.
Così era con Janet adesso: un lento affondare in pulita sofficità, il conforto di elementi primitivi ed essenziali, i tormenti della ragione annullati negli istinti più semplici e antichi. Senza curarmi di rimproveri e punizioni.
E ricordavo, dopo un temporale particolarmente furioso… il tiglio che per un oscuro disegno del fato era nato là, esattamente là, in quel preciso punto dove cinquant’anni più tardi un certo fulmine in una certa notte di pioggia doveva abbattersi… ricordavo il tronco bizzarramente spaccato in due per il lungo, come da una gigantesca accetta, la ferita dai bordi carbonizzati, lucente di linfa. E mi domandavo: si è forse sentito colpevole, il fulmine?
*
“Avrei dovuto immaginarlo” bisbigliai.
“Che ero vergine?” La voce di Janet aveva un tono compiaciuto, faceva pensare a una gatta che si lecca i baffi sporchi di crema di latte.
“Non me lo meritavo.”
“Stupido.”
Il mondo notturno aveva sinuosità tiepide e morbide nella penombra striata di luna. Sembrava che la vita stessa giacesse raggomitolata e serena accanto a me, come un bambino addormentato. E la vita si chiamava Janet. Percepivo ogni linea del suo corpo contro il mio, l’insospettato vigore dei muscoli sottili che, di giorno, i lini inamidati dei suoi abiti dissimulavano. La calma pensosa dei suoi occhi ingannava, lasciando immaginare commoventi delicatezze e ritrosie, mentre il corpo dalle linee ancora adolescenti nascondeva la tensione e la duttilità di un piccolo strumento fatto per l’amore in tutte le sue note più carnali.
“Sai…” Il suo respiro mi scaldava una guancia. “Ho provato spesso a immaginarmelo. Con tutti i ragazzi e gli uomini che ho conosciuto.” Rise piano, ma senza imbarazzo. “Sì, persino con Petrie. Cercavo di capire cosa avrei dovuto fare e dire, se il desiderio sarebbe stato più forte della paura, il piacere più intenso del dolore… Che idiozia! È successo tutto così, senza premeditazione, che non ho avuto neppure il tempo di pensare. Ma è stato semplice. E bello. Sono felice.”
Lo ero anch’io. Ma per me non era altrettanto semplice.
“Janet… Io non posso sposarti.”

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