L’occhio sinistro di Horus 10° episodio di Gloria Barberi

“Tutto bene?” La voce di Carnarvon mi giunse soffocata attraverso la breccia.
“Sì. Venite a vedere.” Ma quelle parole le bisbigliai appena, stordito.
Eve e suo padre mi raggiunsero in fretta, ma Callender dovette rinunciare perché il passaggio era troppo stretto per la sua imponente figura. Tuttavia, allargarlo ancora non sarebbe stato prudente. Già non sapevo come avremmo potuto richiuderlo senza che nessuno se ne accorgesse, ma al momento quella era comunque l’ultima delle mie preoccupazioni.
Tra il tabernacolo aureo e il muro c’era spazio sufficiente appena per insinuarsi. Procedendo a sinistra, lungo il lato più ampio, aggirai il tabernacolo. E trovai la porta. La vista del chiavistello d’ebano privo di sigilli mi comunicò una nuova scossa di panico. In quell’altalena di esaltazione e timore, l’unica forza che ancora mi muoveva era la determinazione di sapere.
“È lì dentro, vero?” bisbigliò Evelyn.
Le porsi la mia torcia elettrica e mi inginocchiai per rimuovere il chiavistello; scivolò via con una facilità estrema, come se il tabernacolo fosse stato chiuso appena il giorno avanti. Provai allora a spingere le ante dorate, ma queste opposero resistenza. Per un istante pensai che stavo agendo né più né meno come un violatore di tombe, e che Tutankhamon non mi avrebbe mai perdonato quell’intrusione. Mi sembrò che qualcosa di troppo teso si spezzasse dentro di me con uno schiocco secco, e incominciai a tremare. Le mani di Carnarvon si posarono con decisione sulle mie.
“Coraggio, Carter! Tirate forte!”
Un cigolio simile a un lamento umano. Le ante cedettero di colpo sui cardini. Dopo tremila anni.
Il tabernacolo era pieno di nebbia dorata e stelle; questa fu la mia prima impressione alla luce delle torce elettriche. Poi la nebbia si rivelò un sudario di lino così sottile da sembrare quasi impalpabile, decorato di minuscole rosette d’oro. Allungai una mano per scostare il velo e una delle rosette mi scivolò sul palmo, come un premio. Non sapevo che fare e me la ficcai in tasca, quasi senza pensarci. Dietro il sudario di lino c’era un’altra porta, protetta dall’incantesimo di colonne di geroglifici. Una spessa corda scura era avvolta attorno ai catenacci con perizia e attenzione, fermata dai sigilli della necropoli: intatti.
“Mi hai aspettato, dunque. Sei ancora qui.”
Dopo tremila anni.

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