Fra i maggiori autori italiani che incarnano il Fantastico puro – la narrazione consacrata alle sfumature del bizzarro, del magico, del malinconico, del terrifico, del meraviglioso – di certo è doveroso indicare, ai massimi livelli, Lapo Ferrarese.
Scrittore di racconti, in primis, e quindi implicitamente in linea col pensiero di Edgar Allan Poe secondo cui è la forma-racconto a rappresentare (in contrasto col romanzo) l’apice dell’arte della narrazione: il racconto, secondo Poe, è intrinsecamente dotato di quella immediatezza temporale che conduce sapientemente e senza dispersione di concentrazione all’esito finale – che sia questo di ordine psicologico, viscerale, o persino metafisico.
Personalmente – e con molta umiltà, sebbene con altrettanta convinzione − aggiungerei che il racconto è meritevole anche e soprattutto per l’opportunità di profondere a piene mani uno spessore stilistico che nel romanzo, tranne le dovute eccezioni, tende a non ‘durare,’ a non reggere, a stemperarsi a favore della quantità (spesso anonima e indifferente) a discapito della qualità. Non è una regola, beninteso, ma una attitudine che, eccezioni a parte, è ben facile da rilevare se si è muniti di onestà intellettuale.
Ed è innanzitutto in questa ottica di ricerca di stile che mi piacerebbe inquadrare la scrittura di Ferrarese.
Distante anni luce dal sensazionalismo e dalle scelte ‘di moda,’ la scrittura dell’Autore è pulita e soppesata, meritevole di plauso per la sua accuratezza, per l’eleganza strutturale che, sebbene mirata a una fruizione moderna, non dimentica il gusto per la forma, per la raffinatezza estetica (desunta probabilmente dal rigore dei classici ma trasfigurata in chiave contemporanea).

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