Mario Bava. Il maestro del cinema horror italiano

Mario Bava (1914 – 1980) può considerarsi a ragione il padre dell’horror italiano. Non vi fate ingannare se trovate i nomi di John Foam, Marie Foam o John M.Old. Si tratta sempre di Mario Bava sotto pseudonimo anglofono, come usavano fare negli anni Sessanta molti registi e scrittori horror. Il figlio Lamberto, per una sorta di omaggio al padre, ha utilizzato spesso il nome di John M.Old jr

Bava
inventa gran parte dei trucchi cinematografici e delle trasformazioni
visive tutt’ora in uso e prima di essere un artigiano della
regia
è un formidabile maestro della fotografia. La definizione
di artigiano viene coniata dallo stesso Bava durante
un’intervista rilasciata a Luigi Cozzi nel 1971 per la
rivista Horror. Il cinema italiano di quel periodo dispone di
budget limitati e Bava è un grande economizzatore, un
artigiano capace di costruire film validi con poca spesa.

Gli
esordi nel cinema vedono Bava in sodalizio con l’amico
Riccardo Freda, prima ne I Vampiri (1957) e poi in
Caltiki, il mostro immortale (1959). In Caltiki – per
esigenze di produzione diventa John Foam – Bava gira gran parte delle
sequenze mostruose ponendo un marchio indelebile sull’opera. Lo
stesso Freda attribuisce il film a Bava, perché fa
parte del suo modo di fare cinema. L’ameba gorgogliante che
sommerge e divora esseri viventi è sicuramente un’idea di Bava che
la realizza usando budella di animali.

Il
suo primo lavoro da regista è La maschera del demonio (1960),
ancora oggi uno dei più celebrati. Si tratta di un film sulle
streghe girato in bianco e nero ma dotato di una stupenda fotografia,
elemento basilare per la buona riuscita di un horror. La protagonista
è Barbara Steele che interpreta il doppio ruolo di vergine e
strega. La storia è tratta molto liberamente da Il Vij di
Gogol e sceneggiata da Ennio De Concini. Il film ha un
successo incredibile in America e in Francia, meno apprezzato in
Italia, dove l’horror stenta ad affrancarsi dall’etichetta di
cinema di serie B. In Inghilterra passa dei guai con la censura per
alcune scene di violenza ed erotismo. Bava rende esplicita sin
dalla prima opera la scelta di seguire i canoni del fantastico
letterario e anche nei lavori successivi cerca l’aiuto di
sceneggiatori come Alberto Bevilacqua per trasporre capolavori
di Gogol, Maupassant e Merimée. Bava ambienta
quasi tutti i primi film in periodi storici che vanno dal 1500 al
1800, rispettando una moda lanciata dalla casa inglese Hammer e dalle
case produttrici d’oltre oceano. L’horror anni sessanta segue
criteri precisi di ambientazione e soltanto con Dario Argento
vedremo su grande schermo orrori contemporanei. La maschera del
demonio
fa venire a mente la strega che non muore tra le fiamme
ma torna in vita e seduce dalla tomba nascosta nella foresta. È un
film impregnato di sadismo, necrofilia, erotismo e sensualità. Per
dirla con Teo Mora è il trionfo del fantastico
dell’erotismo
. In ogni caso la pellicola saluta la nascita di
un maestro del genere. Bava sperimenta altri settori come il
western, il mitologico-fiabesco, il fantascientifico e persino il
sexy prima maniera, ma dimostra di trovarsi a suo agio con le
creazioni fantastiche. Inutile dire che i critici italiani stroncano
il film e che l’intera produzione di Bava (come per Totò)
è stata rivalutata dopo la morte del regista.

La
ragazza che sapeva troppo
(1962) è un thriller alla Hitchcock,
non solo perché nel titolo ricorda L’uomo che sapeva troppo
del maestro inglese, ma soprattutto per la tensione e le divagazioni
umoristiche inserite ad arte per stemperare i momenti topici della
narrazione. Dario Argento lo prende come modello per L’uccello
dalle piume di cristallo
.

La
frusta e il corpo
(1963) è un classico film gotico ambientato in
un castello in riva al mare, tetro al punto giusto, fotografato con
attenzione ai toni scuri e sottolineato da un’efficace colonna
sonora. Bava ci trascina in una spirale di suspense e
di orrore a metà strada tra realtà e fantasia. La frusta e il
corpo
è un film gotico alla Roger Corman, anche se
sarebbe più giusto invertire l’ordine, perché l’autore
statunitense spesso si ispira alle atmosfere e alle suggestioni del
regista italiano. Bava analizza una relazione sadomasochistica
in una cornice gotica, inserendo suggestioni erotiche che
diventeranno tipiche della narrativa e della cinematografia horror
italiana. La storia è basata su un solido soggetto e su una
sceneggiatura immune da pecche realizzata da Ernesto Gastaldi, Ugo
Guerra
e Luciano Martino, che si firmano con nomi
anglofoni. Nel 1963 era innovativo e anticonformista girare una scena
sulla spiaggia con un sadico che frusta una masochista e subito dopo
la possiede. Nonostante queste sequenze morbose, siamo di fronte a un
film fantastico, che contamina diversi generi come il giallo,
l’horror, l’erotico, ma è percorso anche dalle suggestioni del
romanzo d’appendice e del thriller. La storia gode di un’ottima
ambientazione gotica e la dimensione macabra del racconto resta
confinata in una dimensione onirica, negli incubi della protagonista
suggestionata da un amore malato. Bava conduce il film sul
doppio binario del thriller e del fantastico, fino alla scena madre,
vista dagli occhi della moglie e secondo la prospettiva del marito.
Resta il doppio finale che può far credere sia a una storia frutto
della follia di Nevenka, che ai delitti di un terribile spettro. La
frusta e il corpo
pare che sia considerato un cult-movie
da Martin Scorsese, in realtà dovrebbe esserlo per chiunque
ami il buon cinema realizzato con cura, fotografato con eleganza e
girato con maestria. Il ritmo è lento e ossessivo, le morti
misteriose soltanto due, ma la suspense è notevole per tutta
la pellicola, che non presenta cadute di tono. I dialoghi risultano
in parte datati, ma tutto il resto del film è ancora godibile e non
risente minimamente del tempo passato. Un capolavoro del gotico
italiano, capace di fondere erotismo morboso e tensione narrativa da
giallo classico.

Un
capolavoro di Bava che ha lasciato il segno è I tre volti
della paura
(1963), un film a episodi che porta sullo schermo tre
diversi modi di affrontare la paura. Bava avverte che i
racconti sono di Cechov, Aleksej Tolstoj e
Maupassant
ma non tutti concordano sulla veridicità delle fonti.
Per Renato Venturelli, si tratterebbe soltanto di
un’esibizione letteraria, ma il film sarebbe costruito su una
storia di Snyder e una di Maupassant molto adattate.

Boris
Karloff
introduce la pellicola e ci accompagna sino alla fine con
la sua presenza da voce e immagine fuori campo. Il telefono è
il primo episodio, definito da Fabio Giovannini come un
piccolo capolavoro del brivido a base di coltellate e strangolamenti
in una stanza da letto claustrofobica
. Non siamo così entusiasti
e lo riteniamo il più debole dell’intera opera, ma la tensione è
ben espressa e si affrontano temi nuovi per il cinema italiano
(l’amore lesbico tra le protagoniste). I wurdalak vede Boris
Karloff nelle vesti del vampiro-zombie della tradizione slava e la
sua interpretazione fa dimenticare alcuni dialoghi che risentono del
tempo passato (le scene d’amore tra Sdenka e Wladimir su tutte).
L’atmosfera di terrore è notevole e i colori cupi della fotografia
contribuiscono a rendere realistica una storia fantastica. La
goccia d’acqua
è davvero un piccolo capolavoro. Il padre di
Bava, Eugenio, scolpisce la maschera della morta, vera
protagonista dell’episodio che tormenta l’autrice di un furto
sacrilego. Il terrore quotidiano è reso molto bene e l’intervento
del soprannaturale si innesta soltanto alla fine in una storia ben
congegnata per tensione e ritmo. I protagonisti dei tre episodi si
trovano in un luogo chiuso alle prese con le loro paure. Sorprendente
il finale con Boris Karloff a cavallo di un manichino che
svela agli spettatori i trucchi di scena, quasi per tranquillizzare.
I tre volti della paura ha successo negli Stati Uniti, dove
esce come Black Sabbath, e ancora oggi gode dello status di
cult movie.

Talmente
cult che ha dato il nome al famoso gruppo rock inglese anni
settanta, antesignani del metal, in particolare del doom metal.

Sei
donne per l’assassino
(1964) è di pochi mesi dopo e segna il
ritorno al giallo anticipando tematiche tipiche di Dario Argento.
La fotografia dai colori brillanti e violenti è il dato
caratteristico di una pellicola che possiamo definire un thriller
orrorifico. Per uccidere si cominciano a usare normali oggetti del
quotidiano come coltelli e rasoi, il killer si aggira con un
impermeabile nero e viene rappresentato come un signore del male con
cui è impossibile lottare. Dario Argento si ispira a questa
pellicola per realizzare Profondo Rosso.

Terrore
nello spazio
(1966) rappresenta un’incursione nel
fantascientifico che si avvale della sceneggiatura di Alberto
Bevilacqua, Callisto Cosulich
e Antonio Romano. Gli
effetti speciali sono tipici del cinema fanta-horror e il colpo di
scena finale vale da solo l’intero film. La pellicola viene girata
in grande economia, utilizzando rocce di plastica, zampironi
fumogeni e scenografie di fortuna. Il risultato raggiunto rappresenta
un vero miracolo e il film ricorda Alien, anticipando un
prodotto statunitense.

Operazione
paura
(1966) segna il ritorno di Bava all’horror puro.
La storia è una raffinata vicenda gotica calata in un’atmosfera
fantastica e resa in una credibile ambientazione settecentesca. Bava
lo ritiene il suo film migliore, in un’intervista Luigi Cozzi
si rammarica per un presunto plagio perpetrato da Federico Fellini.
Il regista romano riprende per il suo Toby Dammitt l’idea
della bambina fantasma che gioca a palla, ma a noi fa piacere pensare
che si sia trattato non tanto di un plagio ma di una sorta di
omaggio. Operazione paura è il classico horror anni Sessanta
a base di cripte, notti ventose, castelli maledetti e donne vampiro.
Un film girato in economia nel quale solo la maestria di Bava
rende realistici scenari realizzati in studio.

Accade
anche in Diabolik (1968), dove la produzione De Laurentiis
obbliga il regista a realizzare il film con duecento milioni. Era il
periodo del boom dei fumetti neri e l’operazione doveva essere
soprattutto commerciale… Bava ricorda l’esperienza di
Diabolik come uno degli episodi più allucinanti della sua
carriera. Deve girare un film ricorrendo a modellini e fotografie
ritagliate al momento e utilizzate per ovviare allo squallore della
scenografia. Tant’è vero che rifiuta con decisione di lavorare
alla seconda parte del film, quel Diabolik alla riscossa che
la produzione gli propone subito, dopo il successo di Diabolik.
Mario Bava sa far rendere al massimo il poco che i produttori
gli mettono a disposizione, da grande artigiano del cinema, ma a
causa della sua fama tutti pretendono miracoli.

In
tema di cinema fantastico non dobbiamo dimenticare che, tra il 1968 e
il 1969, Bava cura lo stupendo episodio di Polifemo per
la riduzione televisiva dell’Odissea. Lo sceneggiato fa furore e
contribuisce a divulgare la conoscenza del poema epico nelle case di
milioni di italiani. Polifemo è un eroe tragico, muove a sentimenti
di compassione e pena, ma il regista lo realizza con una maschera
terrificante. Per il trucco Bava è davvero un maestro.

Il
rosso segno della follia
(1969), che il regista definisce la
storia del solito pazzo,
è uno dei suoi film più studiati e
meglio riusciti. Anticipa i futuri thriller di Dario Argento e
approfondisce la psicologia contorta dell’omicida. Il protagonista
è un assassino dalla sessualità repressa e deviata. Cinque
bambole per la luna d’agosto
(1969) è la rilettura di Dieci
piccoli indiani
di Agata Christie, un film da dimenticare,
girato in fretta e poco ispirato. Lo stesso Bava lo ritiene il
suo lavoro peggiore, fatto solo per motivi alimentari.

Reazione
a catena
(1971), noto anche come Ecologia del delitto e
Antefatto, è di grande importanza perché rappresenta
un’incursione nello splatter violento e un’anticipazione
di quello che sarà Venerdì 13 di Sean Cunningham. I
delitti sono centrali alla storia e quasi la sostituiscono, quel che
conta è come morirà la prossima vittima. Siamo in pieno cinema
macelleria: i morti si susseguono a colpi di coltelli, asce e
affilate lame d’acciaio. Nel cast c’è pure un’affascinante
Edvige Fenech, che non fa una bella fine.

Gli
orrori del castello di Norimberga
(1972) è un altro film gotico
vecchio stile, una favola paurosa. Una sorta di omaggio al cinema
fantastico degli anni cinquanta e sessanta, girato con cura e
attenzione ai particolari.

La
casa dell’esorcista
(1975) giunge in pieno boom da Esorcista,
quando i peggiori mestieranti si cimentano in squallide copie del
film di William Friedkin. La pellicola di Bava dovrebbe
intitolarsi Lisa e il diavolo, avere una struttura originale,
colta e raffinata, tant’è vero che viene presentata al Festival di
Cannes nel 1973. Nessuno vuole produrla perché ritenuta inadatta al
pubblico italiano. Per metterla sul mercato si procede al massacro
sistematico: il titolo viene cambiato, molte scene modificate e altre
inserite ex novo. Bava si rifiuta di stare al gioco e ripudia
il film che esce nelle sale, del tutto diverso dall’idea originale.

Cani
arrabbiati
(1976) è tratto da un romanzo di Ellery Queen ed è
un buon film riscoperto da pochi anni in Italia. Si tratta della
storia di quattro banditi mascherati che rapinano un portavalori,
ammazzano due guardie, ma nella fuga uno di loro rimane ucciso. I tre
rimasti catturano due donne in un garage, una finisce sgozzata,
l’altra continua a servire per proteggere la fuga. Durante la fuga
prendono un uomo come ostaggio e accadono diversi colpi di scena che
rendono il film interessante fino alla parola fine. Un thriller sui
sequestri di persona duro e inquietante, molto esplicito e diretto
come contenuti e scene di sangue. Non ha mai trovato un distributore
ed è stato messo in circolazione in Italia nel 1995, dopo la morte
del regista, con il titolo Semaforo rosso.

Shock
(1977) è l’ultimo film di Bava. Un vero e proprio
omaggio a Dario Argento, il suo allievo più geniale che aveva
riempito le sale con Profondo Rosso. Shock rappresenta
il simbolico passaggio di consegne e la fine di un modo di fare
horror tipico del decennio precedente. Protagonista è Daria
Nicolodi
, regina dell’horror italiano anni Settanta, attrice
prediletta di Dario Argento e sceneggiatrice di molti film.
Shock è un capolavoro di tensione, un racconto angoscioso
girato quasi tutto in interni, una raffinata storia di fantasmi che
ricorda il vecchio La frusta e il corpo. Ha un gran successo
in Giappone, mentre in Italia passa inosservato.

La
carriera di Mario Bava si conclude nel 1978 con il telefilm
del mistero La Venere d’Ille, girato in collaborazione con
il figlio Lamberto. Protagonista è ancora Daria Nicolodi,
ma il risultato finale non è dei migliori. Come eredità fantastica
di Bava preferiamo ricordare Shock, un film che
influenza l’opera successiva di Dario Argento e dei migliori
autori horror.

Mario
Bava
è l’unico regista italiano ad aver lavorato con le
principali star del cinema horror inglese e americano, attori del
calibro di: Christopher Lee, Boris Karloff, Vincent Price, Barbara
Steele
(lanciata come dama nera del gotico anni sessanta) e
Joseph Cotten. Non solo, ci sono attori scoperti da Bava
e consacrati a futuri ruoli nel cinema horror italiano. Basti per
tutti l’esempio di Nicoletta Elmi ne Gli orrori del
castello di Norimberga
che ritroviamo in Profondo Rosso di
Dario Argento e in Dèmoni di Lamberto Bava come demoniaca
bigliettaia.

La
stampa contemporanea affibbiano a Mario Bava l’epiteto di
Hitchcock di Cinecittà, prendendo spunto da titoli di film come La
ragazza che sapeva troppo
. In realtà Bava ha un suo stile e con
il grande maestro del giallo ha soltanto debiti di ispirazione. Bava
eredita dal padre scultore la passione per i colori e per le
immagini, vorrebbe fare il pittore ma approda al cinema, un mezzo
artistico che utilizza in modo originale.

Concludo
riportando una valutazione di Pascal Martinet.

Bava
crea un’estetica della morte e del crimine. Al diavolo la logica.
Importa solo la descrizione grafica della violenza. Carni torturate,
graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della macchina da
presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino
colpisce. Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione e la
cui assenza di fisionomia rimanda ai nobili incubi archetipici.
Aggiungiamo noi (con Fabio
Giovannini
) che Bava
riesce a rendere il paesaggio mediterraneo credibile per ambientare
storie horror. È uno dei primi a farlo, insieme al Pupi
Avati
di capolavori come
La casa delle finestre che ridono.
Il gusto per il terrore è un’altra sua caratteristica ed è ben
rappresentato dall’utilizzo frequente di coltelli e pugnali per gli
omicidi, particolare che Dario
Argento
spinge
all’eccesso. La lama è cinematografica,
dice lo stesso Bava.

Bava
si cimenta in quasi tutti i generi cinematografici in voga a
Cinecittà negli anni Sessanta – Settanta, seguendo i grandi successi
che venivano dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti, ma spesso
anticipando idee future. Nella presente trattazione non abbiamo
citato i film di argomento mitologico, fantascientifico, favolistico,
western e sexy. Per completezza ci limitiamo a elencarli.
L’appassionato di Mario Bava troverà un’esauriente
catalogo dell’opera del regista. Le fatiche di Ercole
(1957), Ercole e la regina di Lidia (1958), La battaglia di
Maratona
(1959), Ercole al centro della terra (1961), Gli
invasori
(1961), Le meraviglie di Aladino (1961), La
strada di Fort Alamo
(1965), I coltelli del vendicatore
(1966), Le spie vengono dal semifreddo (1966), Raycolt e
Winchester Jack
(1969) e il censuratissimo Quante volte…
quella notte
(1969 – 73).

Riferimenti
bibliografici:

Fabio
Giovannini
“Serial Killer-i grandi assassini del cinema”,
Macabro Show e-book 2002

Antonio
Tentori
“Lo schermo insanguinato” – Solfanelli, 1990

Renato
Venturelli
“Horror in cento film” – Le Mani, 1997

Intervista
a Mario Bava, a cura di Luigi Cozzi, in Horror 13 – Sansoni
1971

Pascal
Martinet
“Mario Bava” Film n.6 – Ediling Paris, 1984

Luigi Cozzi – Mario Bava, i mille volti della paura – Profondo Rosso, 2001




La Parabola della Matriarca di Simone Marcelli Pitzalis

Questa
è la Parabola della Matriarca, la storia

di
Tzia Zara. Ascoltatela e custoditela nel cammino,

perché
noi siamo la soglia ma lei è la via.”

Le
Matrone, riunite intorno al fuoco acceso in un barile
nell’accampamento, raccontano alla nuova arrivata la Parabola della
Matriarca: la storia di Zara, la mitica fondatrice della comunità di
cui loro sono la guida.

In
un paese insulare che si svuota per la spinta migratoria verso le
grandi città del Continente, arriva un giorno una vecchia donna
transgender di nome Zara. Aggredita per la sua diversità, scopre di
possedere quei poteri che le consentiranno di fondare una nuova
comunità.

Nel
solco di romanzi come Streghe, di Brenda Lozano, e di
una mai celata mistica cristiana, Simone Marcelli Pitzalis
prosegue la ricerca cominciata con Questo è il corpo (effequ,
2022) di una personalissima poetica fatta di rabbia, ribellione e
improvvisa bellezza contro la mediocrità normata della nostra
realtà.

L’AUTORE

Simone
Marcelli Pitzalis scrive e milita in versi e in prosa. Tra i suoi
lavori poetici, Archivio privato (Zona, 2018), ha vinto

il
Premio Nazionale Elio Pagliarani, mentre nel 2022 è uscito per i
tipi di effequ Questo è il corpo, il suo primo romanzo.

I
racconti di Simone Marcelli Pitzalis sono usciti in numerose testate
e webzine, e pubblicati, tra gli altri nell’Almanacco

2017
(Quodlibet), nella raccolta La Grande Estinzione del
collettivo TINA (Aguaplano, 2021) e nel volume Prisma

03
(Moscabianca, 2022). Un suo saggio compare in Queer Pandémia
(Tlon, 2023).

La
Parabola della Matriarca

Autore:
Simone Marcelli Pitzalis

Editore:
Zona 42

Pag.
84

Codice
ISBN: ISBN 979-12-80868-50-3

Prezzo: 9,90 €

La parabola della matriarca di Simone Marcelli Pitzalis




Gioco al Caos dei Cambio Radicale

I Cambio Radicale sono una nascente realtà hard rock italiana che sceglie anche di cantare in italiano. Tante sono le influenze che possiamo trovare in questo album, che vanno dall’hard rock statunitense degli anni Ottanta fino al rock “alternativo” italiano degli anni Novanta. Sicuramente i Cambio Radicale sono una band tutta cuore e sentimento, ma questo non incide su un prodotto che mostra gli artigli in più occasioni e dove il lavoro di chitarra si fa notare su tutto, grazie a dei gran bei riff e assoli.

Pezzi facili ma che non sanno troppo di “scopiazzamento”, persino personali a volte, che quindi risultano godibili e con un cantato che cerca sempre il refrain memorizzabile e melodico. Colpisce la sezione ritmica, piuttosto dura e dinamitarda, che chiama in causa quindi l’heavy metal d’annata. Quindi questo album, al di là della voce semplice e non troppo originale, offre comunque divertimento e cattura l’attenzione grazie ad una manciata di pezzi che si elevano sopra la media.

Certo, un disco come questo per tanti potrebbe sembrare leggermente fuori tempo massimo… Il rock odierno italiano si rifà a gente come i Maneskin e quindi serve un approccio più originale per poter essere notati. Ammesso e non concesso che band come Maneskin siano esempi da seguire, rimane il fatto che Gioco al Caos è un buon disco, con buoni testi e ottimamente interpretato e suonato. E per le belle canzoni e i bei dischi non si può e non si deve mai usare la parola “sorpassato”. Qui di nuovo non c’è nulla, ma quello che andava fatto è stato fatto bene, ovvero un gran bel disco di hard rock italiano.

Band: Cambio Radicale
Formazione: Valerio Franchi, Cesare Fioriti, Vito Svi, Paolo Caridi.
Album: Gioco al Caos
Casa discografica: Nadir Music
Anno: 2023




Freaks, l’adattamento a fumetti del film di Tod Browning

La trasposizione fedele, sequenza per sequenza, a cura di Andrea Cavaletto pubblicata da Edizioni NPE.

Era il 1932 quando il film Freaks, diretto da Tod Browning, sconvolse il Cinema.
La sua particolarità, nonché il motivo della sua notorietà, è dovuta alla presenza di veri freaks nel cast: a recitare furono infatti attori con gravi deformità fisiche.
All’epoca l’esibizione di persone vistosamente deformi era una forma di intrattenimento molto popolare. E Browing conosceva bene gli ambienti circensi, ne aveva fatto parte sin da bambino.
Scelse quindi di affrontare la loro condizione, quella dei cosiddetti freaks, in modo davvero coraggioso: li mostrò nella loro quotidianità, nelle loro emozioni, che nulla avevano di diverso rispetto agli esseri considerati “normali”. Un’operazione che ai tempi non fu compresa.

Andrea Cavaletto ha trasposto a fumetti questo film cult, riportando su carta ogni sequenza, comprese quelle censurate all’epoca. Le tavole sono realizzate con una tecnica che alterna il photocomposing al disegno tradizionale, con un carboncino che ricrea l’atmosfera di quelle scene tanto discusse e tanto amate.

FREAKS
a cura di Andrea Cavaletto
Nicola Pesce Editore
72 pagine, cartonato, colori
Anno: 2023 – Prezzo: 17,90 €
ISBN: 9788836271795




Veniss Underground di Jeff VanderMeer

L’umanità
è al sicuro, nella città di Veniss: alti bastioni la proteggono
dagli orrori del mondo esterno, inquinato e percorso da creature
geneticamente modificate sfuggite a ogni controllo. Eppure basta
calarsi nelle profondità della città per scoprire un mondo
sotterraneo in cui ogni cosa è distorta, in cui uomini disperati si
dedicano a compiti gravosi ormai inutili.
L’esterno di Veniss
non è meno desolato delle sue profondità: tra le rovine di una
civiltà crollata, si lotta per sopravvivere in un ambiente naturale
ormai quasi privo di risorse. Su tutto si allunga l’ombra della
figura misteriosa e terribile di Quin, artista genetico, manipolatore
di uomini e tessitore di destini, che tira le fila delle vite di
tutti, come un grande burattinaio. Anche Shadrach, che dagli orrori
che si nascondono nel sottosuolo di Veniss era fuggito, rimane
impigliato nella sua tela. E proprio in quell’abisso è costretto a
calarsi di nuovo in cerca della donna che ama disperatamente, come
Orfeo in una nuova discesa negli Inferi dove incontra orrori e
splendori senza nome.

Veniss
Underground
 è il primo romanzo di VanderMeer,
un’opera che gli è valsa la definizione di “alchimista della
parola” e ha ispirato molti autori successivi che si sono dedicati
alle città fantastiche. La prosa suggestiva e visionaria conduce il
lettore nelle profondità dei sottolivelli di Veniss, dove si
annidano creature distorte e magnifiche, fatte di carne, tecnologia e
passioni. 

“Un
viaggio pieno di meraviglia in cui riecheggiano la Divina Commedia di
Dante, il mito di Orfeo e Euridice e i paesaggi di Hieronymus
Bosch”.
– Publisher
Weekly

“La
fantasmagoria in Veniss Underground cresce progressivamente fino a
diventare un quadro di Bosch, una visione d’incubo che rende
evidenti le molte virtù di VanderMeer: la connessione dei personaggi
e dell’intreccio al nucleo mitico che sottende alla storia, le
invenzioni che arrivano direttamente dalla psiche piuttosto che da
una generica ispirazione, lo stile ardito e la vivida forza delle
descrizioni. E uno scioglimento finale tra i più potenti che io
abbia mai letto”.

Michael
Moorcock

Veniss
Underground

Autore:
Jeff Van Deermeer

Editore:
Odoya

Pag.
288

Codice
ISBN: 978-88-8237-512-6

Prezzo: 19 €

Veniss Underground di Jeff Vandermeer