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Partendo dalle tue radici in provincia di Torino, come il tuo ambiente di provenienza ha influenzato l’approccio alla scrittura nel genere dell’horror e del weird?

Il mio territorio di provenienza, insieme alla fortuna di essere nato in una famiglia in cui si bazzicava il genere attraverso libri e film, è stato di fondamentale importanza per la mia scrittura. Sono cresciuto in un paesino della Bassa piemontese spesso avvolto dalla nebbia, circondato da campagne a perdita d’occhio punteggiate da antichi casali diroccati e pioppeti. Quand’ero bambino, nelle sere d’inverno ci si ritrovava spesso nella grande casa dei nonni materni dove si sprecavano i racconti dedicati ad avvenimenti inconsueti, che spesso gravitavano intorno alle streghe del folclore popolare, le masche. L’atmosfera di questi luoghi in qualche modo lugubri, isolati, sfuggiti, le suggestioni delle strane storie raccontate dalle zie in quella cucina invasa dai fumi del tabacco e del vino, hanno senza dubbio influenzato il mio immaginario; i miei primi esperimenti letterari erano già ambientati nelle aree che frequentavo da ragazzino, e col passare degli anni ho plasmato un Piemonte alternativo fatto di suggestioni folcloristiche e orrorifiche, che è quasi sempre il mondo in cui si muovono i miei personaggi.

Soprattutto nella tua prima produzione emergeva una predilezione per il folklore italiano nei tuoi racconti. Quali sono gli elementi del folclore che trovi più affascinanti e che ritornano spesso nelle tue storie? Per scrivere i due volumi Oscure regioni hai svolto un lavoro di documentazione approfondito?

Mi affascina il modo in cui le credenze popolari riescono a sopravvivere nonostante il trascorrere del tempo e la morte degli uomini, mi intriga la capacità che hanno di trasformarsi e filtrare nella modernità adattandosi a essa, con la loro carica inquietante, affascinante, mistica, quasi fossero entità dotate di vita propria.

Queste antiche storie sono come virus che mutano per continuare a vivere, che si tramandano per generazioni, che resistono a dispetto di tutto e hanno persino invaso i nuovi mezzi di comunicazioni trasformandosi in creepy-pasta, leggende urbane, video virali che infestano i social.

Quando ho iniziato a scrivere Oscure Regioni mi stuzzicava l’idea di contribuire a questa mutazione e trasmissione utilizzando le storie del folclore regionale come base per costruire dei racconti horror. Partendo dal Piemonte ho percorso tutto lo Stivale, esplorando e documentandomi, e spero di essere riuscito almeno in parte nel mio intento, che era scrivere delle buone storie del terrore ambientate ai giorni nostri riesumando miti folcloristici particolari, poco conosciuti.

Hai avuto l’opportunità di tradurre opere di autori noti nel genere dell’horror, come Brian Keene e Lisa Mannetti. Ma in passato avevi anche tradotto Carl Jacobi per la Dagon Press. Si tratta di un’esperienza che ti ha stimolato e ti ha fatto crescere?

Indubbiamente. Prima che a scrivere ho cominciato a tradurre, per puro diletto. Da ragazzino, dopo aver letto buona parte dell’horror che passava in Italia, cominciai a leggere in inglese per ampliare i miei orizzonti, per scoprire autori che da noi non erano ancora arrivati, e com’è ovvio mi si spalancò un universo di suggestioni. Leggevo queste storie incredibili e mi dicevo: “Ma perché nessuno le traduce in italiano?” Mi pareva quasi un delitto, e così mi mettevo lì, nella mia cameretta, a tradurre i racconti che più mi colpivano, pensando che magari un giorno sarei riuscito a piazzarli, a far conoscere nel nostro paese un autore secondo me meritevole e poco o mai esplorato dalle CE nostrane. Esattamente quello che è successo con Jacobi, di cui avevo tradotto alcune storie, poi inviate al mitico Pietro Guarriello della Dagon Press per un parere, insieme al quale nacque l’idea di due volumi dedicati all’autore di Minneapolis (ormai introvabili).

Non sono un autore “tecnico”, nel senso che non ho mai frequentato corsi di scrittura e i tecnicismi narrativi mi interessano (e li conosco) fino a un certo punto, penso la mia scrittura si basi più sull’istinto, la passione e la conoscenza del genere in cui mi muovo, ma probabilmente i lavori di traduzione svolti in passato mi hanno permesso di immergermi nei testi di autori stimati e amati, assorbendo più o meno consciamente certe finezze ritmiche, strutturali e tecniche per costruire, spero, delle storie dell’orrore originali e funzionanti.

Il tuo romanzo Eredità di Carne è stato pubblicato nel 2019. Qual è stata la tua fonte principale di ispirazione per questa storia? Hai trovato difficoltà a passare dalla forma del racconto a quella del romanzo? In futuro leggeremo ancora un tuo romanzo?

L’idea di scrivere un romanzo ambientato nelle “mie” valli mi frullava in testa da tempo, perché adoro la montagna e penso sia un ambiente fertile per narrazioni horror e fantastiche. Borghi abbandonati, rovine di fortificazioni militari, graffiti, incisioni rupestri, coppelle votive, luoghi con nomi bizzarri e suggestivi (Lago Nero, Lago della Sibilla, Colle Arcano, Sentiero delle Streghe…), foreste sterminate, grotte, antiche leggende… Cosa chiedere di più?

In particolare desideravo scrivere qualcosa situato in una delle vallate piemontesi che frequento maggiormente, la Val Chisone. Questa zona ospita un antico sanatorio dove sin dagli inizi del ‘900 venivano trattati i malati di tubercolosi, una struttura che è stata in piena attività per decenni per poi essere convertita in colonia estiva, e infine abbandonata.

È un edificio affascinante e imponente, che per collocazione e dimensioni può ricordare l’Overlook Hotel di kinghiana memoria, il setting ideale per una storia dell’orrore. E pur trovandosi in una zona incantevole, che si affaccia su creste innevate e vette che spiccano oltre i 3000 mt, il sanatorio Pracatinat è stato un luogo di sofferenza e malattia, e nei dintorni si sono combattute alcune sanguinose battaglie della guerra dei nove anni.

Aggiungiamo a questa ambientazione il folclore locale legato alle masche (ancora loro!), una scalcagnata osteria di paese, gli orrori delle guerre, due balordi di mezza età che non hanno nulla da perdere, una tormenta di neve, il tarlo che mi rodeva da tempo di imbastire una storia il cui motore principale fosse una fame atavica e inesauribile… ed ecco, tutti questi elementi si sono mescolati per dar vita al mio primo romanzo.

Non ho trovato particolare difficoltà nel passaggio dal racconto alla forma lunga, la storia di Famenera necessitava di più ampio respiro rispetto a quelle scritte in precedenza. Certo un romanzo richiede maggior tempo e dedizione di un racconto, ma la storia era già piuttosto vivida e delineata nella mia testa, e metterla su carta è stato un viaggio piacevole.

E sì, presto potrete leggere un mio nuovo romanzo breve.

La tua novella Pupille è stata pubblicata nel 2020. Puoi parlarci dei temi e delle atmosfere che hai cercato di esplorare in questa opera? Personalmente ho amato questo racconto che ho trovato molto inquietante e che mi sembra un punto di svolta nella tua narrativa.

Pupille ha cominciato a prendere forma durante il lockdown, e in buona sostanza narra di un’epidemia “raccolta” che colpisce la piccola comunità di Idrasca, con effetti nefasti (o forse no) sui bambini, e di conseguenza sugli adulti.

Un essere millenario che si è rifugiato nella scuola elementare del paese, l’Uomo di Polvere, è il personaggio che scatena questa infestazione che permette ai più piccoli di lanciare uno sguardo verso il futuro, verso il crollo della civiltà e la fine dell’essere umano.

Pupille è una fiaba oscura che si ispira prepotentemente al pifferaio di Hamelin, una novella che ruota intorno a una domanda tanto semplice quanto, a mio avviso, terrificante: “Che mondo stiamo lasciando alle generazioni future?”

Penso tu abbia ragione quando dici che Pupille costituisce una svolta nella mia narrativa. Ho dedicato molta attenzione allo stile cercando di dare al testo un afflato favolesco, sospeso, e i temi legati all’orrore rurale in questa novella sono soltanto accennati, o comunque utilizzati per una visione meno locale e più ampia dell’orrore: Pupille racconta di quel regno spaventoso fatto di ipotesi e interrogativi che è il futuro, per quanto mi riguarda uno dei temi portanti della narrativa horror, una delle sue impalcature più solide.

Il tuo libro più recente, Un buio diverso – Voci dai Necromilieus, sembra affrontare tematiche profonde e oscure e si nota anche una maggiore cura allo stile letterario. Cosa puoi dirci riguardo alle tue ispirazioni per questo lavoro e cosa intendi per “Necromilieus”? Ho trovato il connubio con le illustrazione di David Fragale molto evocativo ed efficace.

I racconti di Un buio diverso sono stati scritti nell’arco di un paio d’anni e tutti ruotano intorno a un Vuoto, a un’Assenza. A una zona priva di luce, peculiare, ma in cui ognuno di noi potrebbe cadere facendo un falso passo o per puro caso. In questa raccolta l’orrore e il buio vengono generati da mancanze, sparizioni, lutti. Da scelte sbagliate. O dalle imperscrutabili macchinazioni del caos.

In Come cani, il racconto che apre la raccolta, è l’assenza d’amore a generare una vicenda di follia e degenerazione; nel testo che dà il titolo al volume la scomparsa di una bambina spalanca un abisso senza fondo in un palazzo di periferia, un’anomalia che è al contempo maledizione e consolazione per i protagonisti; ne La foresta, i bivi è il deterioramento di una relazione di coppia a dare il là a una vicenda ambientata in Romania, un incubo di foreste labirintiche e scelte errate; ne L’ultima scatola, racconto scelto da Ellen Datlow per la pubblicazione nel quindicesimo volume The Best Horror of the Year, la tragica morte di una trapezista innesca una macabra e impossibile ricerca da parte del marito contorsionista.

L’altro filo conduttore che lega le storie è appunto il concetto di Necromilieus, particolari zone “ai confini della realtà” in cui il manifestarsi di eventi inconsueti e terribili, a causa di particolari condizioni storiche e spazio-temporali, sarebbe più probabile, teoria elaborata dallo scrittore torinese Enrico Bedolis nel suo bizzarro saggio “Scienza dei Necromilieus”.

Per quanto riguarda David Fragale, ci siamo conosciuti grazie ad alcune bellissime illustrazioni che aveva pubblicato sulla sua pagina FB dedicate a Eredità di Carne e a Bialere – Storie da Idrasca, il mio primo libro. Dopo questo primo contatto è nato un fitto scambio di messaggi sulla comune passione per l’horror e il fantastico, e poi l’idea di collaborare per le illustrazioni interne e la copertina del Buio, come ci piace chiamarlo. Ha fatto un lavoro incredibile, cogliendo alla perfezione lo spirito cupo delle mie storie, e credo che anche la copertina sia perfetta, che spinga a chiedersi: “Cosa si nasconde dietro quel Velo?”

Spero di poter tornare a lavorare con lui molto presto.

La tua raccolta A different darkness and other abominations è stata pubblicata negli Stati Uniti, con una nomination ai World Fantasy Awards. Come è stata l’accoglienza di questo volume negli Stati Uniti?

La pubblicazione negli Stati Uniti è stata un’esperienza positiva sotto ogni punto di vista; durante la fase di preparazione del volume ho potuto toccare con mano la professionalità della Valancourt Books, la loro cura dedicata alla traduzione, all’editing, alla creazione della copertina, alla promozione. Con James Jenkins, che ha curato e tradotto il volume, si è instaurata una bellissima collaborazione basata sulla comune passione per il fantastico, e durante i mesi precedenti la pubblicazione c’è stato un continuo scambio di feedback, suggerimenti, idee, abbiamo selezionato insieme i racconti, abbiamo coinvolto Brian Evenson che ci ha dato la sua disponibilità a leggere le mie storie e scrivere un’introduzione al volume, e penso che, lavorando in questo modo, il libro ne abbia giovato sotto ogni aspetto…

Quando A Different Darkness è finalmente uscito, i riscontri sono stati positivi, ma certo non mi aspettavo raggiungesse la finale del World Fantasy Awards o che Ellen Datlow selezionasse un mio racconto per il suo ciclo di antologie The Best Horror of the Year.

Nel tuo percorso di scrittore, quali sono state le sfide più significative che hai affrontato e come le hai superate?

Penso che la sfida più importante per ogni scrittore sia quella di riuscire a trovare la propria voce. Capire cosa si vuole raccontare e come raccontarlo. Resiste ancora quest’idea romantica dello scrittore come di qualcuno infuso di talento che si siede al tavolo per sfornare racconti e romanzi con facilità. Ovviamente non è così, ci può essere una componente di attitudine e talento, certo, ma prima di raggiungere qualche risultato apprezzabile ci vogliono anni di tentativi, fatica, sacrifici, pratica, costanza, esercizio. Ed è un processo che non termina mai, sempre in divenire… E poi ci vuole tempo. E il tempo spesso manca, sfugge, si curva, e per chi scrive penso sia di fondamentale importanza riuscire a ritagliarsi una bolla sicura in cui poter perseguire questa passione.

La collana Caronte di Zona 42, da te curata, si propone di esplorare il lato più oscuro della narrativa fantastica, accompagnando i lettori in un viaggio nell’ignoto attraverso i grandi titoli dell’horror contemporaneo. Quali altri titoli (oltre a Il pescatore di John Langan e al più recente Siamo qui per farci male di Paula D. Ashe) possiamo aspettarci in futuro?

Quando Giorgio Raffaelli di Zona42 mi ha proposto di diventare curatore di una nuova collana horror – proposta che ho accolto con entusiasmo – abbiamo discusso sull’impronta da dare a Caronte, giungendo alla conclusione di non metterci troppi paletti, di esplorare le innumerevoli declinazioni della narrativa del Perturbante contemporanea ponendo l’attenzione sulla qualità stilistica e l’originalità dei testi, su voci potenti, autoriali, possibilmente uniche.

Vogliamo storie che siano attuali, che esplorino la realtà che ci circonda da un punto di vista inconsueto, che raccontino i tempi terribili che stiamo vivendo, che parlino dell’animo umano ma anche del mondo in cui gli esseri umani si muovono, un mondo punteggiato di abissi, contraddizioni, traumi.

Penso che l’horror, che spesso viene tacciato di frivolezza e superficialità, sia in realtà il genere principe sia per esplorare zone di noi che non vogliamo esplorare sia per sondare il contemporaneo, ed è spesso cartina di tornasole dei mutamenti della società, delle sue perversioni, delle paure che portano con sé i grandi cambiamenti.

Siamo partiti col botto con Il pescatore di Langan, romanzo che è già un classico e che molti lettori di fantastico attendevano nel nostro paese. Penso sia un libro straordinario, che utilizza l’orrore cosmico e topoi lovecraftiani per raccontarci una storia molto intima di perdita ed elaborazione del lutto, un romanzo con una struttura atipica che alla sua uscita nel 2016 ha ricevuto numerosi riconoscimenti e vinto premi importanti.

Come seconda uscita abbiamo selezionato Siamo qui per farci male di Paula D. Ashe, autrice che al suo debutto con questa raccolta ha creato un piccolo terremoto nella community horror e vinto lo Shirley Jackson Award. Un volume completamente diverso da quello di Langan, in quanto scava nelle ferite personali di personaggi al limite e nel torbido della società americana trascinandoci in un vortice di dolore senza soluzione, in regioni di degrado urbano in cui si muovono serial-killer, donne vittime di violenza, sette che predicano vangeli di afflizione, bizzarre creature che possono ricordare i Cenobiti barkeriani, il tutto sorretto da uno stile unico e poetico, in cui traspare tutto l’orrore della Ashe, ma anche la sua compassione, per la tragica condizione umana.

La Ashe è autrice queer di colore, proveniente dal Midwest, e dalle sue storie penso emergano anche gli orrori del razzismo e del bigottismo negli States, le difficoltà che affliggono i quartieri poveri e le minoranze. Nei suoi racconti la sofferenza genera sofferenza, e chi è stato vittima del male lo eserciterà a sua volta, in un ciclo incubico che forse può essere spezzato soltanto dalla presa di coscienza che tutti noi siamo immersi in questa agonia, che siamo tutti sulla stessa barca.

Per il futuro di Caronte potete aspettarvi varietà, testi inconsueti, autori da noi poco conosciuti ma che meritano attenzione, e anche qualche nome grosso che non è ancora giunto in Italia. Sempre con un occhio di riguardo per la qualità dei testi e la cura delle traduzioni, com’è tipico di Zona42 – ma in Italia non è così scontato, specie quando parliamo di piccola-media editoria e narrativa di genere.

L’ultima uscita prevista per il 2024 sarà Qui, Altrove, romanzo del canadese Matthieu Simard, autore che non bazzica regolarmente l’horror ma che con questo testo si avventura in territori di delirio, lynchiani, raccontando di una coppia che dalla città si sposta in campagna per dare nuovo slancio a un matrimonio traballante. Non troveranno un nuovo inizio, ma un villaggio ostile e silenzioso, personaggi bizzarri che li trattano con sospetto, una strana antenna che incombe minacciosa sul paese e storie inquietanti sul vecchio proprietario della casa in cui si sono trasferiti…

Infine, come vedi l’evoluzione dell’horror e del weird, sia in Italia che a livello internazionale, e quali sono le tendenze che ti intrigano di più per il futuro della narrativa horror? Credi che il termine weird sia oggi inflazionato?

L’horror è vivo e lotta con noi, e come dicevo sopra è un genere-specchio della nostra società, delle grandi paure, dei mutamenti politici, sociali, culturali.

Oltreoceano stanno prendendo piede narrazioni che trattano di tematiche LGBTQIA+, di violenza di genere e salute mentale, di antropocene, romanzi che esplorano gli orrori del cambiamento climatico, altri che indagano gli scricchiolii del sistema capitalistico, e penso non mancherà molto prima che ci ritroveremo a leggere distopie horror che riflettono sull’avvento e l’espansione dell’Intelligenza Artificiale…

Al contempo vecchi temi vengono riutilizzati e rielaborati (pensiamo al recente revival del folk-horror o dello slasher), adattati ai giorni nostri, e sia nel cinema che in letteratura mi pare ci sia un bel fermento all’interno delle narrazioni oscure. L’horror è un genere protoplasmico che ha le sue radici nella notte dei tempi, e finché esisteremo noi esisterà l’horror con la sua carica sovversiva e indagatrice.

In Italia c’è una scena, cosa che fino a qualche anno fa non esisteva, ci sono autori ormai consolidati all’interno del genere, penso a Besana, Corigliano, Kulesko, Cucinotta, solo per citarne alcuni, ci sono case editrici serie che trattano il fantastico, così come librerie, manifestazioni e fiere… emergono i primi studi accademici dedicati alla narrativa fantastica italiana, e ci sono lettori, soprattutto lettori che si interessano all’horror, anche tra i giovanissimi, che non si limitano all’ultimo libro di King o all’ennesima ristampa di Poe e Lovecraft.

Non so dire se questo movimento continuerà a crescere, la situazione è decisamente migliorata rispetto ai giorni in cui pubblicavo i primi racconti su forum e riviste amatoriali, ormai una quindicina di anni fa… Se devo essere sincero, mi piacerebbe vedere più autori italiani emergere e far bene con costanza, ma ho come l’impressione che al momento ci si trovi un po’ in una situazione di stallo da questo punto di vista, e spero davvero sia solo un’impressione e di essere smentito.

Il termine weird è da qualche anno sulla bocca di molti, e la cosa non può che farmi piacere perché indubbiamente crea interesse intorno alla narrativa fantastica. Forse il “problema” è che weird è un termine così generico che potenzialmente può raccogliere tutto ciò che presenta elementi che esulano dal realismo, e spesso si creano incomprensioni, risulta difficile stabilire cosa sia davvero questo fantomatico weird… Mi sembra che talvolta sia poco più di un tag usato per identificare un’opera anche quando non ce n’è davvero bisogno.

Per qualcuno weird attiene esclusivamente alle narrazioni che gravitavano intorno alle riviste pulp americane (e non) degli anni venti e trenta, altri si rifanno alle definizioni di Mark Fisher, altri ancora appiccicano il termine a qualunque cosa presenti degli elementi bizzarri e inconsueti… Insomma, penso ci sia un po’ di confusione e che il termine assuma significati diversi a seconda di chi lo utilizza.

E giusto per creare ulteriore caos dirò che per me il weird è quel genere che tratta dell’incontro dell’umano con l’incomprensibile, con lo smisurato, con un’assenza o una presenza madornale, e da questo incontro si generano sensazioni di terrore ma anche di meraviglia e sublime.

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