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(Precedentemente uscito su Cronache dell’Armageddon, k_noir, Kipple Officina Libraria, 2020, come omaggio a Sergio Alan D. Altieri)
Sembrava un suono inverso quello che si stava abbattendo sulla sua coscienza. Vigile fino a pochi istanti prima, con la stessa continuità del reale la scena cui stava assistendo aveva improvvisamente mutato quinte: Alan era stato catapultato in una stanza oscura, ma familiare, in cui una parete fittizia occultava una porzione del vano, come se ci fosse un’altra stanza.
Era divenuto notte. Si trovava in compagnia di qualcun altro, ma sapeva che egli stava alle sue spalle; lo conosceva bene però questi non si palesava, e poi per qualche strano motivo Alan aveva preso a raccontargli cosa si celasse in quel piccolo antro, su cui si apriva una finestrella rimovibile formato A3, di compensato come lo era tutta la parete divisoria.
Alan si sporse oltre il leggero materiale compresso e valutò con una smorfia il buio che gravava lì dentro; provava una nota di disagio crescente, annaspò col braccio sinistro oltre la frontiera di legno e non gli riuscì di trovare nulla di ciò che cercava – “Alan, cosa cerchi?”, si domandò tra sé e sé – e solo a quel punto accese la torcia del suo smartphone per far luce sul mistero oltrecortina: non trovò nulla ed ebbe l’idea di illuminare la parte opposta del vano, prendendo il telefono con la mano sinistra. Un braccio inanimato calò sulla sua coscienza, con orrore ne percepì visivamente la mollezza propria di un arto senza vita: sembrava che un cadavere vestito di una giacca chiara, a trama spessa e pesante, mostrasse appena una mano rimasta fissa in una posa da artiglio. Lo sconcerto maggiore però Alan lo ebbe subito dopo, quando convulsamente spostò il fascio di luce dello smartphone verso l’alto, cristallizzando così un abisso di angoscia inenarrabile in cui il resto dell’orribile figura, dal volto nascosto, incombeva su di lui sporto poco oltre la finestrella del vano. Nell’altra mano della figura inanimata c’era una grande moneta, con su scritto qualcosa di talmente eliso da risultare illeggibile.
Codici arcaici e inumani segnarono istantaneamente la coscienza di Alan; interi universi di simboli occulti e di articolate grammatiche semantiche, incomprensibili agli umani, sembrarono raccontargli strani episodi di ciò che poteva accadergli. Si sentì coinvolto in un terribile gorgo di evocazioni orrende, non sapeva fino a che punto sgorgate scientemente dai suoi interessi per le divinazioni magiche. Prima ancora di operare una sola profezia, l’intero sistema occulto di quegli universi gli lanciava dei moniti inequivocabili, come se gli si volesse presentare con la gran potenza dell’insondabile; subvocalizzò nel sonno dei mugugni, echi superficiali di un orrore molto più profondo, mentre le mosse scomposte che assumeva nel letto in cui dormiva completavano l’incubo in cui era precipitato.
Klelia gli era accanto, lo scosse: – Alan, cos’hai, stai bene? – Lui aprì gli occhi, era ancora immerso nell’abisso di raccapriccio in cui ancora si dimenava. – Hmmm – disse, e tentò di sorriderle, ma si sentiva immobile come il cadavere del mago che continuava a penzolargli addosso, nella sua coscienza trascendentale.
– Stai bene? – gli reiterò.
– Solo un brutto sogno; è così difficile riconoscere il reale – le sussurrò, ancora stordito dalle immagini orride e nere che galleggiavano nella sua psiche – Che ore sono? – le chiese poi improvviso, scorgendo la luce solare filtrare dalla serranda.
– Le 8.45! – gli rispose allarmata, doveva essersi svegliata anche lei poc’anzi; preoccupata dai lamenti di Alan, non doveva aver considerato l’orario.
Un banner olografico s’insinuò tra loro, avvolgendoli in spire di caldo citazionismo sintetico: “Alan e Klelia, il momento delle opportunità professionali è in attesa di sviluppo, non lasciamo soffrire ulteriormente le linee di business”. L’appello veniva reiterato ogni quindici secondi; era martellante, ossessivo. “Il business sta soffrendo”, era poi aggiunto in tono neutro, lasciando però filtrare dal messaggio un senso di allarme angoscioso. Il risultato dei richiami alla produttività del mondo iperliberista era opprimente, affliggeva con gli inviti di un Mercato divenuto vivo e in perenne espansione, lontano dal realizzarsi e per questo ancora più pressante nei suoi richiami.
– Gli incubi divengono veri – notò cupo Alan – un po’ troppo spesso.
Guardò la sommità del cielo che intravedeva come uno spicchio tra le impalcature degli ologrammi; riabbassò gli occhi, preso da uno sconforto tremante del sogno ancora vivido in un qualche rivolo quantico del reale. – Siamo pronti per il nuovo salasso? – domandò rassegnato a Klelia; un senso di pesantezza prossimo al no hope li accomunava, “Siamo solo all’inizio della giornata”. Sentì bussare forte alla porta.
– Aprite! Prelievo forzoso!
– La PolBeez? – esclamò sorpreso Alan a bassa voce, col tono proprio del bisbiglio isterico. – Presto, di là, ci stanno per prendere! – concluse verso Klelia. Ma non ebbe tempo di far nulla.
La porta venne giù dai cardini elettronici con uno schianto degno dell’epoca analogica. Subito le guardie private, mandate da sentinelle liberiste disincarnate, irruppero a due a due nell’appartamento; erano autorizzate a far ciò, molto più degli agenti di Polizia statale. La PolBeez era la mano armata militare del Business, i suoi modi erano di chiara ispirazione nazista e la sua giurisdizione era totale, oltrepassava il fatiscente concetto di Stato, considerati dal sistema economico dei vuoti contenitori giuridici da molto tempo assorbiti dal Mercato.
Alan sentì risuonare dentro di sé il riff di NWO, i Ministry di un tempo guidavano la sua ferocia anarchica verso la ribellione a sistemi invasivi di controllo; si ripeté a denti stretti, ribollente di un odio repentino che si risvegliava ogni volta che la costrizione segnava la sua anima:
Io sono innamorato
del nostro potenziale di minaccia
Aprire il fuoco perché
ti amo da morire
Cielo alto,
con un mal di cuore di pietra
Non mi vedrai mai
perché io sono sempre solo
…e fu così che aprì davvero il fuoco, estraendo dai suoi slip una pistola molecolare che portava sempre con sé; la potenza che quell’arma esprimeva era devastante, in grado di disgregare le giunzioni del DNA del malcapitato. O dei malcapitati, come in quel caso.
Gli agenti della PolBeez caddero in serie poco oltre la porta scardinata, senza un lamento, come birilli; – Mi sono innamorato di un intento doloso – canticchiò subito dopo Alan, mentre prendeva Klelia per mano e, vestitisi frettolosamente, passavano poi sopra i cadaveri molli delle guardie private del Business.
– Perché erano venuti a prenderci? – domandò Klelia.
– Avevamo appena perso il lavoro, evidentemente. Ci avrebbero portati in qualche luogo di rigenerazione professionale, pronti per altre forme di schiavismo marketing.
– Avremo fatto bene a fuggire?
Alan la guardò, senza risponderle. Cercava un senso di futuro, ma il concetto di speranza era una frustrazione continua, dal sapore disperato.
In strada, si trovarono faccia a faccia con una pattuglia ausiliaria, richiamata dal mancato feedback della PolBeez. Alan e Klelia evitarono i tiri incrociati dei fucili da guerriglia urbani, grazie anche alle architetture da MassMarket lì nella via che li schermarono con le offerte commerciali LastMinute: Alan fu rapido nel rivestirsi di pannelli luminosi, scintillanti d’irresistibili meraviglie plastiche da imbonitori; con essi coprì anche Klelia e così mimetizzati attraversarono rapidi la piazza, fino ai portici.
– Rimaniamo un istante qui – le disse sicuro.
– Ci faranno a pezzi – rispose lei; aveva dentro un senso di disperazione, dissonante con i jingle pubblicitari ripetuti fino alla nausea: Klelia doveva averne visti troppi.
– Lo avrebbero fatto comunque in casa nostra – obiettò Alan; lei gli fu grata di aver parlato chiaro.
– Di qua! – una voce che gli risultò familiare li fece voltare all’unisono, un aiuto insperato?
– Ahmed – disse trasalendo Alan – non farlo, ti renderanno innocuo! – cercò di farlo ragionare.
– Sbrigatevi, invece! – replicò il Mediorientale con un fare convulso. Alan non disse altro, serrando la mano di Klelia e piegandosi il più possibile, corsero verso l’anfratto indicato dal tempestivo alleato.
Il negozio di Ahmed era fresco. Aveva l’aria di un locale della Grecia insulare degli anni ’60. – Qui potrete respirare un poco – disse loro rassicurante, dopo averli sistemati sotto un banco di mercanzia esotica. – Qui, mettetevi sotto gli scatoloni! Quegl’imbecilli sono così tecnologici che basta del vecchio cartone per renderli ciechi.
Alan sussurrò un piccolo ringraziamento, creando al volo con le sue mani un sottile origami digitale da donare; glielo porse. Inorridito, l’altro lo rifiuto precipitosamente: – Sarai pazzo? Vuoi farmi trovare subito da quelle merde in divisa, con un tracciamento cibernetico?
Alan comprese e disattivò immediatamente il manufatto, maledicendosi per l’imprudenza.
– Scusa – farfugliò a bassa voce. Poi guardò Klelia: – Dobbiamo stare in silenzio per un po’, forse c’è necessità di aspettare la sera per uscire da qui…
– …o forse dovete attendere anche un paio di giorni – aggiunse autorevole Ahmed, con un cenno turgido di un dito sul naso; – Fate silenzio! – continuò, tendendo l’orecchio. Poi spense la luce, e Alan udì delle voci in sottofondo, pressanti come quelle di un drappello da rastrellamento. “Siamo in uno Stato militare”, pensò, “il nostro mondo ha una sfumatura di controllo ossessivo che non dà spazio alla fantasia”.
– Zitti! – subvocalizzò Ahmed, cercando di smorzare il rumore di fondo cerebrale dei due.
– Chi c’è qui? – urlò una delle guardie ausiliarie appena entrata, mentre cominciava a rovistare nel sottonegozio.
– Ceci e banane – urlò un po’ troppo forte Ahmed, in risposta.
– Banane? – chiese il militare. – Quali banane? Non ne vedo – biascicò mentre armava il grilletto da esplosione neurale.
– Sei un figlio di troia… – sibilò allora Ahmed, mentre con lo sguardo cercava i suoi complici: Abdul, Moham e un altro mastodontico che si chiamava Hannibal. Irruppero tutti sulla scena sopraffacendo l’agente, che non ebbe nemmeno il tempo di sublimare il suo terrore nei canali privati dell’Esercito: Moham gli tagliò la gola, alla maniera classica mediorientale. Alan e Klelia lo videro accasciarsi attraverso i contenitori dei ceci, sentirono il gorgoglio dei suoi terribili lamenti annegati nel sangue a fiotti.
– Presto, fuggite di qua – disse Ahmed rimodulando ai due il suggerimento di poco prima: – ora arriveranno a setacciare il locale altre guardie assieme a tutta la PolBeez, sarà difficile coprirvi. State tranquilli, diremo che vi siete nascosti dietro le patate a nostra insaputa, e che avete fatto secco voi quel pezzo di merda.
Ahmed indicava il montacarichi verso il porto. Alan e Klelia vi si tuffarono subito, senza pensarci un solo istante, giù per il budello in muratura; lui aveva in mano una sorta di scimitarra tascabile che Moham gli aveva gentilmente passato, un’arma di vecchio tipo che, però, aveva il pregio moderno di cancellare chimicamente il calco delle impronte digitali.
Lì in quel pozzo fondo di oscurità, Alan e Klelia si guardavano spesso, scoprendosi impauriti e spaesati da un luogo così inospitale, assai diverso dalla loro casa abbandonata soltanto un’ora prima.
– Alan, siamo in un cul de sac! – diceva lei stridula, e nel frattempo il suo respiro diveniva affannoso, quasi avesse un attacco d’asma.
– Ahmed non ci avrebbe fatto cadere in una trappola dopo averci prima nascosti, non ha senso il tuo timore; aspettiamo ancora un poco per abituarci all’oscurità, questo budello deve pur avere uno sbocco al porto, no?
Alan tendeva l’orecchio e cercava di valutare il brusio di sopra: gli giungeva artefatto ma convulso, udiva le improvvise accelerazioni vocali dei mediorientali che rispondevano alla PolBeez; in pochi istanti, vide comparire davanti ai suoi occhi una mail di spam-recruiting e solo allora si ricordò che doveva spegnere i moduli mentali installati nella partizione cerebrale di lavoro. “Maledetto idiota che sono, solo ora ci penso?”. A piccoli passi avanzò nel buio, tenendo la mano di Klelia e tracciando mentalmente degli assurdi percorsi mnemonici, per seminare eventuali sentinelle cibernetiche sguinzagliate dagli agenti.
– Poco più in là c’è un percorso fosforescente – disse rassicurante alla sua compagna.
– Dove?
– Qui…
Si lanciarono in un altro budello di mattoni, risalente a chissà quale periodo analogico; il tanfo di muffa li sopraffece più volte e Klelia fu sull’orlo di uno shock anafilattico improvviso, una paura mista ad allergia che le tagliò il fiato. Alan fu rapido, subito dopo il tonfo in una melma indefinita e salmastra, nel baciarla a lungo, dandole respiro e calore affettuoso.
– Resisti amore mio – le sussurrò empatico – siamo ormai lontani da quelle bestie.
Lei non rispose, quel bacio aveva il sapore di una colata di alici macerate: fu quasi come annusare dei sali dopo uno svenimento.
Con il terrore di cosa fosse sommerso sotto di loro, e badando bene a non trasmettere alcuna forma di panico, Alan mosse lentamente le gambe a mo’ di elica per portarsi lontano dal punto di caduta. Annaspando piano all’unisono, pensava, avrebbero potuto guadagnare una qualche posizione di vantaggio, così da poter capire come e dove fuggire.
– Muoviti come me, senti i miei piedi cosa stanno facendo? – Alan bisbigliava all’orecchio della sua compagna invitandola a collaborare.
– Non abbiamo scampo – gli rispose lei – dove mai potremmo fuggire?
Lui si bloccò a riflettere. Il tempo gli era contro. Un gorgo nei suoi pressi lo prese in un vortice, un rumore sinistro plasmò la sua improvvisa guglia d’angoscia.
– Non dovete muovervi – intimò loro una voce sintetizzata. Dal buio, una sottile luce laser scandagliava il settore dove Alan e Klelia si tenevano a galla.
Furono avvolti da delle ganasce pneumatiche; gli sembrò di essere incastrati da una retina da pesca, solo che i nodi erano in grafene ed emanavano un vomitevole odore salmastro: “È il senso di questo specchio d’acqua”, pensò tra sé Alan; Klelia invece era già svenuta, subito dopo lui scoprì che era stata semplicemente addormentata da un anestetico a contatto, perché subito dopo anche lui fu anestetizzato.
Quando aprirono gli occhi, Alan e Klelia erano immobilizzati da una gabbia antropomorfa modellata esattamente sulle loro forme. “Materiale che ha memoria degli stati”, comprese Alan a proposito del carapace che li costringeva all’inabilità.
– Pensavate davvero di poter fuggire? – chiese una voce impersonale che usciva dalle pareti, sembrava diffondersi addirittura dalla tinta sbiadita sul muro, un vomitevole color livido.
– Voglio non rispondere – si difese Alan.
– Potete fare ciò che volete. Per quel che vale…
Le luci si spensero, passò poi una quantità di tempo condensato che non gli riusciva di quantificare.
– Hai idea di che ore sono? – gli chiese dopo un po’ Klelia.
– No, nella fuga ho disattivato le routine da connessione cerebrale – rispose lui, si scusava unicamente con le tonalità della voce e non con gli atteggiamenti corporei, ancora bloccati in quella schiuma di grafene.
L’immagine di un’alba si formò allora nel subconscio di Alan; il pensiero di Ahmed e dei suoi amici lo attraversò in un lampo, ma distrusse subito quell’immagine per preservare i mediorientali dalla cattura, semmai non fossero già agli arresti. L’alba continuò a svilupparsi lentamente nella coscienza di Alan ed era un lento salire sul mare, ammirava un paesaggio subtropicale che emanava aromi di armonie idilliache; provò così a seguire quel percorso empatico e nel farlo staccò idealmente il contatto da Klelia, non prima di aver contrassegnato atomicamente il luogo psichico dove lei si trovava bloccata. Si tuffò con tutto il suo essere energetico nei flutti dell’oceano che dominava la sua psiche, inseguendo piccole canoe sospese sul mare cristallino, intente a pescare.
– Sai pescare? – gli chiese un uomo, vedendolo avvicinarsi a nuoto. Stavano in mare aperto, attorno non c’era altro che una potente luce turchese color del mare; il sole era più alto all’orizzonte.
– Posso provare – rispose timido Alan.
– È semplice… – spiegò brevemente l’altro. – Devi soltanto attendere e non fare rumori. Il sole ti racconterà le sue storie di eoni.
Alan tacque. Si sentiva così bene da dimenticarsi ogni cosa di sé. Il suo stesso nome si stava modificando e il suo ruolo, la sua funzione nella società in cui si percepiva come cibo psichico, erano diventati più simili a un costrutto escheriano di trascendenza che a una gerarchia sociale. Sentiva di essere in balia di una strana immanenza, nemmeno troppo definita: qualcosa lo stava modificando integralmente, fin dentro al suo intimo più consapevole.
– Mi sento diverso – disse infine al pescatore, senza un vero perché se non la ricerca di un’improvvisa fratellanza.
– Non si è mai uguali a se stessi – rispose enigmatico l’altro. Alan percepì nitida la lancinante mancanza al suo fianco di Klelia. Si sentì smarrito, era un naufrago disperso in un bellissimo oceano di nulla ostile alla sua umanità; gli sembrò che stesse nuotando in un’ideologia fasulla ed era come essere immersi nell’Iperliberismo, in una distopia inumana che sommerge l’umanità. “Gli ambienti iperreali e belli sono una trappola.”, pensò; “Siete delle merde: avete contaminato anche la mia idea di trascendenza, avete fatto tutto pur di costruirmi dentro un universo di falsa beatitudine”.
Alan aprì gli occhi e vide accanto a sé il corpo di Klelia, che trasudava tossine attraverso opportuni pori del carapace di grafene. Giacevano in una stanza fetida, sporca e con una nuda lampadina del XIX secolo appesa sul soffitto. Incredulo, sbatté allora gli occhi per trovare dov’era finito l’oceano su cui galleggiava fino a un attimo prima, ma la convinzione che quella fosse stata l’ennesima bugia raccontata da un sistema inumano di condizionamento psichico si radicò presto in lui: in ogni caso, non era più in grado di capire cosa sarebbe stato meglio, se vivere in una frottola o nella cruda verità. Klelia, dal suo canto, sembrava non rispondere più a nessuno stimolo sensoriale.
Alan sentì crescere in sé un forte bisogno di rifugio. I ricordi gli apparvero come la forma più rapida e sicura per potersi rinfrancare. Quell’oceano così cristallino, su cui fino a pochi istanti tentava di pescare, gli richiamò alla mente altri istanti perfetti, momenti della sua gioventù inondati di sole, di una luce estiva accecante che si rifletteva su muri di calce bianca, di case sul mare e di vegetazione che frusciava al vento del mattino; il luccichio del verde intenso degli alberi lo cullava come un’ondata di assenzio, facendogli esplodere in mente alcuni avvenimenti di cui faticava a ricordarne l’esistenza. Klelia, anche allora, si muoveva intorno a lui sinuosa, tra le volute di luce bianca era vestita di un semplice pareo.
Sembrava il perfetto risuonare di un istante affilato da risultare instabile, pronto a precipitare negli abissi del degrado; un punto di svolta dell’esistenza, il termine di paragone di un’immanenza non più raggiungibile: Alan era seduto in riva al mare ad ascoltare la risacca, libero dalle preoccupazioni e pronto ad assorbire i favori della natura; ogni parola che pensava sembrava possedere l’ombra nitida di un’epifania trascendentale, sapeva che avrebbe amato quell’istante per tutti gli anni a venire, e avrebbe ricercato quel sapore ogni volta che si sarebbe sentito derubato, stanco, afflitto da eventi tutto sommato inutili, ma disturbanti.
“L’istantanea della perfezione”, così definì subito quell’emozione; era felice di rivivere quella porzione d’estate nel suo cuore immacolato, in quella situazione il senso della terra gli era stato trasmesso camminando a piedi nudi sul pavimento fresco. L’odore di una blanda salsedine lo inebriava tramite i ricordi.
– Un sorso di vino fresco? – gli chiese Klelia con un filo di voce. Lui aveva appena finito di mangiare un piatto di spaghetti al sugo, nella sua coscienza il profumo della semplice bontà si coniugò con l’aroma inebriante di un delizioso vino bianco di tufo. Si ubriacò di altra bellezza, “Tutto ciò è il senso intimo della vacanza”, ricordò di aver pensato in quel momento, e anche adesso. Annuì all’offerta e a se stesso con un piccolo sorriso: voleva esser lasciato solo per assorbire completamente quel senso di beltà sopraffacente.
Si voltò, e comprese che tutto il bianco stordente dei muri era dato dalla proiezione della lampadina appesa sul soffitto, nella sua cella. Klelia era sempre lì con lui, ancora incosciente nel bagno chimico delle tossine che essudavano da lei.
“Hanno implementato i miei ricordi”, si disse convinto Alan. “È una tortura politica la loro”, aggiunse alterato subito dopo. Pensò che probabilmente quel ricordo della vacanza al mare non gli era mai appartenuto.
– Possiamo fare ciò che vogliamo di voi.
Era un’altra voce maschile a parlare, asettica, potente e ben scandita; risuonava in tutta la stanza con una sorta di olofonia che non sembrava avere alcuna origine. Essa lo aveva interrotto nel flusso interiore delle sue considerazioni.
– Possiamo farti credere qualunque cosa vogliamo, anche che io esista – aggiunse subito dopo la voce, come un oracolo.
Alan stette in silenzio. In realtà era stordito da quella terribile massa di input.
– Ti propongo un patto – disse infine la voce. Il suo gracchio sintetico da IA era fastidioso, come grattare le unghie sulle vecchie lavagne di ardesia. Alan non diede segno di assenso, né di diniego: era neutro. La sua battaglia poteva essere combattuta ormai soltanto con l’indifferenza. Nell’incertezza dei risultati, la voce oppressiva non sapeva fermarsi e continuo inarrestabile sull’onda di un delirio di onnipotenza, che andava ben oltre il codice di programmazione artificiale.
– Tu accetta di ripagare i crediti del Profitto, accumulati coi tuoi ritardi di abnegazione, e noi ti scontiamo quest’enorme colpa che ha provocato l’essiccazione di alcune linee di business. A volte, la condotta programmata considera le necessità umane, ma fossi in te non ne approfitterei troppo di questa nostra straordinaria benevolenza.
– Del resto – tornò a esser presente la prima voce, come un controcanto greco – noi sappiamo essere atroci. Non so fino a che punto ti conviene intestardirti.
Il silenzio regnò per degli istanti, così dilatati da non essere misurati dalla coscienza di Alan; forse il buio, o la sensazione di costrizione, o anche la preoccupazione per la condizione di Klelia, tutto gli sembrò marcare il tempo come un’oppressione insostenibile, la sua anima era lorda di una sorta di pece: si sentì impiastricciato fisicamente anche da qualcosa d’insopportabilmente viscoso e puzzolente, le sue possibilità di movimento erano prossime all’immobilità.
– Possiamo aiutarti a decidere? – ancora la seconda voce, che risuonò terribile nel vuoto psichico in cui si trovavano; Klelia non sembrò smuoversi dal suo stato inerte, respirava appena. Alan sorrise cinico, come un invasato.
– Soltanto se sparite immediatamente dalla mia vita – rispose; voleva essere caustico, ma si rese subito conto di essere stato involontariamente propositivo.
– Lo faremo, dal momento esatto in cui accetterai le nostre proposte – il tono neutro della seconda voce strappava via i nervi.
“Economia necrotica”, pensò tra sé Alan. “Sistema di profitto mortifero, ovvero l’Economia della Morte: è questo lo stato attuale, futuro e passato della Globalizzazione. A nessuno importa più nulla delle ideologie, perché le linee di profitto devono prosperare; dietro di loro converge un’inumanità lovecraftiana”.
– Mi riservo di rispondere non appena avrò trovato la migliore soluzione per il Business – disse ermetico, ma deciso, Alan. Aveva forse trovato soluzione cardine per preservare se stesso, facendo finta di salvaguardare il Sistema?
Le voci finalmente tacquero, sottolineando una sorta di tacito accordo. Regnò allora un silenzio statico indefinito, senza forma e tempo. Come Klelia, che giaceva lì accanto a lui. Un limbo impersonale lo avvolse, quasi fosse diventato un esiliato in un confino nemmeno troppo terribile, vittima di una condizione che comunque gli permetteva di sopravvivere. Il tempo, pensò, poteva essere la sua carta vincente. “In questo momento lo è davvero”, si ripeté con effettiva convinzione. Alan era diventato finalmente l’ago della bilancia del suo futuro, ed era inattaccabile.
“Momentaneamente”, sorrise mentre se lo diceva.
– Non hai ancora deciso?
La terribile voce lo scosse da un torpore mnemonico, che durava da un tempo eccessivamente dilatato.
– Cosa? – interloquì Alan, sapendo benissimo invece a cosa si alludesse.
– Siamo in attesa di una tua decisione sul ripristino del tuo Business, sappiamo benissimo che ricordi tutto quello che devi.
– Eravamo d’accordo che la parola ultima spettava a me; vi ho già detto, sto decidendo – cercò di essere il più convincente possibile, ma sapeva che…
– Il Business sta soffrendo indicibilmente: alcune altre linee collaterali sono irrimediabilmente evaporate, nel frattempo: o decidi in fretta, o agiremo noi.
– Ciò modifica sostanzialmente il nostro patto, però – Alan cercò di ammonire l’interlocutore con l’ombra di una ritorsione, che però non era nelle sue possibilità e aveva un solo nome: bluff.
Il modulo di IA non rispose. Un clock che scandiva un countdown molto prossimo allo scadere si visualizzò sui lobi temporali di Alan: non lo avevano nemmeno ascoltato.
– Tempo scaduto – disse infine la voce sintetica.
Un caldo blow implose l’aria intorno a lui. Klelia intanto era scomparsa, non ne percepiva più la sua presenza lì intorno e intanto si sentiva cosparso da una forma di coscienza sconosciuta. Non sembrava nulla di evoluto o d’involuto, piuttosto gli appariva come qualcosa di plastico, una sensazione impersonale, l’essenza stessa di un’esistenza larvale, viva nella velata consapevolezza onirica di essere guidata dall’altrove, come se qualcosa si fosse impossessato della cognizione e ne guidasse ogni bisogno e scopo, costruendoli a tavolino.
“Qualcosa si è impiantato in me”, questo pensò Alan in quei frangenti dilatati, negli istanti in cui possedeva una qualche forma d’illuminazione; “sembra un addormentarsi, rimanendo però vigili; pare di vivere una forma di realtà plasticosa e livellata su una dimensione così sottile da essere inesistente. Vivere non può essere così inutile…”.
L’essenza stessa dell’universo iperliberista gli apparve come un’icona disposta su un desktop remoto; accanto non esisteva altro che un enorme spazio, dove altre isole iconografiche galleggiavano in un nulla sconvolgente, in un luogo di assorbimento che gli svuotava completamente la sua anima.
Alan era stato portato in un luogo dove la sua forza psichica sarebbe stata eviscerata e gli sembrò chiaro di essere in attesa della cancellazione finale, della disgregazione inappellabile; comprese drammaticamente che anche una finta esistenza nell’universo business sarebbe stata preferibile a un nulla così vacuo, a quell’implosione nello spazio profondo.
“Questo è il mio punto di non ritorno?” pensò, fluttuando in un fluido senza nome e appigli, che si restringeva in fondo come un imbuto. In quei pressi, anche la luce sembrava gorgheggiare e annullarsi; Alan ne vedeva le particelle elementari distaccarsi dal flusso principale e spegnersi, mentre si allontanavano, in un buio impersonale e inglorioso, un nulla da cui era impossibile ritornare indietro.
– Ciò, sei diventato – disse allora la voce, contravvenendo all’elementare deduzione che Alan aveva fatto della sua prossima fine.
– Significa che posso uscirne vivo, quindi… – dedusse ad alta voce, prontamente.
– Significa che i tuoi crediti vengono prima di qualsiasi tuo annientamento. Paga, poi muori. Pensavi davvero d’ingannarci?
– Se muoio, non posso ripagarvi.
– Abbiamo la nostra polizza assicurativa.
– Polizza assicurativa?
– Klelia.
Interi modelli cognitivi attraversarono la mente di Alan; avvenne in un breve volgersi di istanti. Significava che Klelia era stata in un qualche modo rapita dal Sistema e giaceva inerte in una qualche vasca di decantazione, pronta magari per essere assorbita. Da cosa? Da chi? Non erano domande cui Alan riusciva a dare risposta, ma conosceva il motivo della sua inconsapevolezza: il Sistema era sfuggente, non umano, non era possibile risalire alla sua creazione con certezza; però era implacabile, e in questo mostrava tutta la sua terribile inumanità.
– Dovrai sbrigarti a risarcirci, se non vuoi che lei diventi una massa inerte di compost – tornò a dire la prima voce.
Dopo interminabili istanti di disperazione, Alan si decise a parlare chiaramente. Era con le spalle al muro: o moriva lui, oppure sarebbe toccato a Klelia; e non era per niente da escludere che una volta estinto lui, Klelia non ne avrebbe beneficiato in alcun modo.
– Non so come fare – la sua espressione aveva anch’essa assunto tonalità neutre, la disperazione gli aveva annullato ogni afflato combattivo.
– Oh, davvero? – senza inflessioni di alcun tipo, l’IA rifaceva il suo verso. Era da escludere qualsiasi suo risvolto ironico, o forse no? Alan non rispose, era così prostrato da non aver nemmeno voglia di morire.
– Vediamo un po’ se abbiamo qualcosa da proporre noi… – replicò a quel punto il secondo guardiano, una nota civettuola nella sua voce era in realtà il culmine del disegno del Profitto. Alan tenne il suo profilo basso, temeva qualsiasi cosa gli avrebbero ordinato.
– Abbiamo appena terraformato un nuovo mondo – gli disse asciutta l’IA. Mostrava una gioia creativa tutt’altro che tipica delle intelligenze artificiali. Stavano giocando con lui come il gatto col topo: non poteva fare altro che percorrere fino in fondo quella strada.
– Cosa volete da me?
– Sarà un compito prestigioso quello che ti abbiamo riservato; non sappiamo bene perché ti stiamo chiedendo ciò, in fondo non lo meriteresti, però nonostante tutto nel Sistema si fidano di te, e sappiamo che accetterai con entusiasmo estremo l’opportunità che stiamo per offrirti…
– Ipocriti del cazzo: cosa volete da me, brutte merde?
I due scoppiarono in una risata terribile, oltre il senso del grottesco. Avevano vinto, lo sapevano già da molto, ma essere finalmente arrivati lì, alla capitolazione di Alan, li rendeva potenti, tronfi, imbattibili.
– Il Sistema che noi serviamo con orgoglio e che qui, in questa sede, rappresentiamo fieramente, ti vuole porre a capo del nuovo mondo terraformato; alcuni anni standard di leadership incontrastata, che serviranno ad affermare il nostro sistema politico ed economico anche sulla nuova colonia, e tu potrai tornare dalla tua Klelia, nel tuo mondo, libero da ogni vincolo. In pensione: sì, alla fine di questo periodo di comando verrai posto in pensione col massimo dei contributi, e con l’eterno ringraziamento di tutte le corporazioni che compongono il Sistema. Saresti ricordato sugli ipertesti delle prossime generazioni come un esempio di abnegazione visionaria. Affare fatto? – sorrisero di un ghigno complicato, politico.
“Trappola. Trappola. Tutto puzza come una merdosissima trappola senza uscita. Vogliono che muoia lì sopra, lontano da tutti. Come posso uscirne?”; Alan, con la consapevolezza di essere su una strada senza uscita cercava, come un topo nella sua giostra, una possibilità di fuggire da un destino segnato, tutt’altro che felice.
– Devo pensarci.
– Non puoi, lo hai già fatto inutilmente per tutto questo tempo. La porta che si sta per aprire alla tua destra ti condurrà a un corridoio di accesso verso la rampa di lancio. Le tue analisi sanguigne riportano valori standard per la missione, ti abbiamo tenuto sotto controllo in questo periodo – l’IA ridacchiava di quel particolare, mostrando ancora una volta la predeterminazione di tutta l’operazione.
Un clang pneumatico attirò l’attenzione di Alan, che si voltò verso quella direzione: luci laser tracciavano l’andamento di un corridoio che lo avrebbe condotto, a quel punto ne era più che certo, verso la rampa di lancio di uno spazioporto, di proprietà virtuale di chissà quale corporazione.
– Ho fame – disse disperato con un istinto prossimo alla sopraffazione più assoluta.
– Mangerai a bordo, prima di essere posto in sospensione criogenica. Poi, non avrai bisogno di molto per sopravvivere, almeno finché non arriverai a destinazione.
– Dove sono diretto? – replicò allora con voce isterica.
– La meta è NX35GJ_Po, dove Po sta ovviamente per Polonio. Parliamo di un planetoide brullo, ricco di rocce e uranio, la terraformazione ne ha recentemente ricavato un luogo unico e interessante per viverci. Ti piacerà, ne sono certo – chiosò l’IA con una mimica imperscrutabile, che non dava adito ad alcuna interpretazione. “Oppure a infinite altre spiegazioni”, pensò Alan con un guizzo di comprensione.
– Noi vogliamo dare un tono artistico alla cosa, regalandoti la possibilità d’intestare al planetoide un nome più bello ed esplicativo, una creazione di cui tu, e soltanto tu, sarai la mente e l’artefice: ti piace come prospettiva?
Fu subito portato nel condotto da un carrello penumatico e non gli fu permesso di replicare alcunché; nella concitazione del momento, Alan dimenticò di chiedere informazioni su Klelia. Un attimo prima di venire criogenicamente addormentato realizzò tutto ciò, ma si rese anche conto che non gli avrebbero fornito nessuna informazione: lei era saldamente nelle loro mani, sicuramente la stavano già prosciugando.
Il rumore del formarsi di cristalli di ghiaccio, a velocità esponenziale, fu l’ultima cosa che seppe di percepire nitidamente.
– Sveglia, amico mio.
A fatica Alan aprì gli occhi, la nebbia criogenica bloccava ancora le dinamiche di molti suoi ragionamenti, arginandoli in una nuvola di torpore dell’anima.
– Alan, sveglia. Sei arrivato.
La voce rassicurante di Ahmed faceva capolino ai suoi sensi in ripresa cognitiva. La vertigine di sorpresa lo sopraffece fino al momento in cui, poco dopo, riuscì a chiedersi: “Cosa ci fa qui, Ahmed?”.
– Dobbiamo andar via presto da questo luogo – disse un’altra voce, che Alan riconobbe quasi subito come quella di Moham, il cui accento mediorientale gli facilitò il compito d’identificazione; girò lentamente la testa e vide sullo sfondo pure Hannibal che stava armeggiando con dei FrontEnd su delle interfacce probabilmente fuzzy, vista la ragionevole poca dimestichezza dei quattro con i sistemi complessi artificiali.
“Allora da qualche altra parte dev’esserci pure Abdul”, si disse Alan, dissipando ancor di più la nebbia criogenica residua. – Ma perché voi siete quassù? – chiese infine, ricordandosi del planetoide su cui era stato spedito.
– Osserva il paesaggio inospitale, amico mio – fu la risposta di Ahmed, aveva uno sguardo pieno di comprensione ma dotato di una strana affilatura empatica; un taglio sibillino dell’intonazione fu la seconda nota fuori posto della risposta. Alan si sporse dal lettino, la debolezza che sentiva dentro di sé era pari a un incommensurabile vuoto siderale, il gelo lo aveva reso psichicamente inerme per troppo tempo e si era insidiata in lui l’infinita nullità cosmica; aveva bisogno di altro tempo per sentirsi di nuovo se stesso, ma la situazione aveva insito un qualcosa di allarmante e incombente: sentiva che doveva essere rapido nel riprendersi.
– Allora, sei pronto? – chiese infine Ahmed.
– Per cosa – rispose stupito Alan.
– Cosa ti hanno detto prima di mandarti qui?
Alan fece ai quattro un rapido sunto della condanna che gli era stata inflitta, sottolineando come fosse stato abilmente messo all’angolo dalla situazione impositiva del Sistema.
– Quindi non ti hanno detto nulla… – semplificò Hannibal, distogliendosi per un istante dal tweaking tecnologico di qualcosa che ad Alan sfuggiva completamente. Ahmed gli rivolse uno sguardo pregno di commiserazione, poi si rituffò nell’algoritmo.
– Spiegatemi – disse infine Alan, esasperato da tanta inconsistenza.
– Ascoltami – replicò allora Ahmed – la faccenda ha altri aspetti che non ti piaceranno per niente. – Lo guardò duro, attese che l’altro si riavesse dall’annuncio dell’insidioso coup de théâtre.
– Sono pronto – rispose dopo poco Alan, il suo sguardo indurito cercava di parare qualsiasi ulteriore colpo basso si stesse per materializzare.
– Noi amministriamo questo luogo – disse sintetico Ahmed.
– Da quando? – domandò stupito Alan.
– Da poco tempo, in realtà – rispose evasivo il Mediorientale.
Seguì un silenzio denso di sconcerto; le connessioni degli eventi precedenti, che si riformavano rapidamente nella mente di Alan, lasciavano sul suo volto i segni di uno stupore senza nome: era come sentirsi traditi in un modo che non si sarebbe nemmeno potuta concepire.
– Voi mi avete condotto qui, in altre parole?
– In termini semplicistici è così – rispose Moham da un angolo lontano; stava svolgendo anche lui una qualche attività legata al maintenence della stazione.
– C’è qualcosa di complesso che può aggiungere nobiltà alla situazione? – chiese allora Alan.
– Hmmm… No, direi – disse sornione Ahmed – ma il vero punto è che tutto quello che ti sta succedendo non dipende strettamente da noi, nel senso che a noi è stata data soltanto una fulminea possibilità per una vita migliore, anche se decentrata. A te no.
– Che vuoi dire?
– Voglio dire che noi vogliamo essere parte di un mondo che probabilmente potrà arricchirci; a quanto ne so, tu no.
Alan era basito. Fissava ognuno di loro con uno sguardo attonito, l’incredulità di ciò che gli stavano dicendo poteva lasciar spazio soltanto a qualcosa di peggio. – Continuate – disse.
– Cosa vuoi continuare? – lo schernì Hannibal. – Ci hanno chiesto di spremere i tuoi debiti, eravamo i più titolati a farlo perché ti conosciamo meglio di tutti gli altri tuoi conoscenti o colleghi.
Una risata terribile fece da corollario a quella cruda dichiarazione; Alan li vide seri. Si passò allora una mano sui capelli; rise anch’egli, ma il senso del suo humour era completamente diverso. – Cosa fate quassù? – chiese tremante – qual è il senso del business che qui perseguite?
– Oh è molto semplice, mon ami – rispose prontamente Ahmed – possiamo riassumerlo con questi versi di NWO, che conoscerai benissimo:
Mi sono innamorato di un intento doloso
Puoi afferrarlo, ma ancora non lo sai
Un suo vero amante non è mai stato trovato
– In altre parole, noi facciamo i banditi siderali; siamo pronti a raccogliere tutte le opportunità che si affacciano sul nostro reale. E ora, tu sei la nostra opportunità; e paradossalmente, noi la tua.
Una figura oscura si agitava in una camera di decompressione. Sembrava inanimata. Nelle sue movenze sospese si palesavano nugoli di polvere da estrazione che rimanevano a mezz’aria, luridi come soltanto i detriti da miniera possono essere. La tuta da esterno che la figura indossava era lorda di sozzura da perforazione; il capo dell’uomo era oscurato dal casco siderale, esternamente la visiera era coperta di polvere.
Ahmed sbirciò attraverso l’oblò della camera di decompressione, cercandovi qualche forma di vita della figura.
– Mioddio, fa’ che Alan non sia morto! – pregò ad alta voce con un senso di disperazione; accese una torcia da miniera orbitante per cercare di capire meglio la situazione, ma dall’altra parte il buio era denso oltre ogni possibilità di discernimento.
– Di cosa ti preoccupi? – rispose di rimando Hannibal, quasi sorridendo.
– Di dover tornare a vendere cipolle, idiota che non sei altro: senza Alan, la nostra opportunità democratica di essere banditi costituzionali muore assieme a lui.
– Magari ci assegnano a un altro avamposto ancora più lontano, che ne sai? La bellezza di quest’Economia è che divora sempre qualsiasi cosa non ancora assimilata, o che è ancora vergine, oppure appena riconvertita – teorizzò Moham come un affermato economista.
– Noi saremo sempre ai margini del regime, amici miei, per quanto potremmo divenire dei dirigenti nessuno di noi si arricchirà mai seriamente – notò Abdul – il Sistema sarà sempre l’unico beneficiario, mangiandoci la nostra vita.
In quel momento il braccio inerme di Alan si abbatté sulla finestra della camera di decompressione, spaccandola; di peso, l’arto trapassò la frontiera infranta e colpì la testa di Ahmed, mentre tutta la stanza subì una piccola decompressione che asfissiò in breve tempo i quattro.
Dalla mano inerte di Alan cadde una moneta, su cui prese forma un appunto digitale:
‘Per l’autorità elargitami, ora il nome di questo planetoide sarà Nekroeconomy’.
Sull’altra faccia della moneta erano evidenti dei simboli occulti di schermatura e, a scomparsa, si evidenziava a intermittenza l’immagine da tarocco del Mago.
In quei frangenti, nelle Borse dei sistemi extraplanetari l’indice di riferimento delle Compagnie da estrazione subì impennate tali da sospenderne, temporaneamente, i titoli di alcune.
– Poco male – fece uno degli operatori ombra di una Borsa remota – quelle company si riconvertiranno presto al business dei funerali spaziali.
In uno dei suoi rari eccessi di risa, un altro operatore ombra gli rispose con cinismo: – Noi tutti siamo la parte nekro dell’economy in cui annaspiamo senza speranza.
L’AUTORE
Sandro Battisti è uno dei fondatori del Movimento Letterario Connettivista. A partire dal 2004 si è dedicato allo sviluppo di uno scenario comune a molti suoi lavori successivi, l’Impero Connettivo. Ha vinto il Premio Urania 2014 e il Premio Vegetti 2017 con L’Impero restaurato ed è curatore delle antologie di strano weird La prima frontiera (2019) e La Volontà trasgressiva (2021) per l’editore Kipple Officina Libraria, di cui è uno editor. È, inoltre, curatore della collana anarcopunk ”non-aligned objects” di Delos Digital e, sempre per la stessa casa editrice, pubblica i nuovi scritti dell’Impero Connettivo nella collana L’orlo dell’Impero. Scrive quotidianamente sul blog hyperhouse.wordpress.com.
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[…] Club G.Ho.S.T. un mio racconto, già apparso sul tributo Kipple a Sergio Altieri, dal titolo Nekroeconomy; […]