Il fantastico come messa a fuoco della realtà: i Sessanta racconti di Dino Buzzati
Pur originate quasi sempre dal quotidiano, le sue storie tendono a subire una trasformazione simbolica e fantastica, che si attua mediante un’anomalia, un caso curioso, un effetto a sorpresa. L’elemento soprannaturale non è un modo per evadere dalla realtà ma è, al contrario, uno strumento efficacissimo per decifrarla; una lente deformante, ma rivelatrice, che mette a fuoco le nevrosi dell’uomo moderno. Un marcato pessimismo permea quasi tutti i racconti; una visione dolente dell’uomo e del suo destino che non lascia posto a messaggi consolatori. 1
Questi Sessanta racconti mi hanno fatto scoprire un Dino Buzzati
inedito, rispetto a quello scolastico, comunque sempre apprezzato,
che lessi alle scuole superiori. Mi riferisco al classico romanzo Il
deserto dei Tartari, ma Buzzati non mi aveva ancora
spalancato le porte del fantastico italiano. Nel suo “realismo
magico” o “realismo fantastico”, si scorge una via nostrana
originale per attingere all’orrore, al perturbante e a quello che
nell’immaginazione può anche sfuggire al controllo originale che
pensavano razionalmente di avere i personaggi.
Ogni
racconto rappresenta un mondo a sé, che attinge volta per volta
dalle vicende storiche, dal gotico alla fantascienza oppure dalle
storie di fantasmi fino alle storie di spionaggio.
Lo
stile è sempre quello serio ed esatto, ma al tempo stesso ironico e
tagliente. Viene utilizzato un italiano medio, in un linguaggio
asciutto, quasi giornalistico, per citare un’altra attività in cui
si cimentò per anni Dino Buzzati e che riversò nella sua
scrittura. Si intravedono nei molteplici temi evocati da queste
pagine le sue passioni come la natura, con una particolare
predilezione per la montagna (si pensi alla sua nativa Belluno) o
alla Luna:
Dunque le leggi eterne si erano spezzate, un guasto orrendo era successo nelle regole del cosmo, e forse quella era la fine, forse il satellite con velocità crescente sta ancora avvicinandosi, tra qualche ora il globo funesto si allargherà a riempire interamente il cielo, poi la sua luce si spegnerà entro il cono d’ombra della terra, né si vedrà più nulla finché, per un’infinitesima frazione di secondo, ai fievoli riverberi della città notturna, si indovinerà un soffitto scabro e sterminato di pietra precipitante su di noi, e non ci sarà neppure il tempo di vedere; tutto sprofonderà nel nulla prima ancora che le orecchie percepiscano il primo tuono dello schianto.2
Non
manca nemmeno l’arte (Buzzati, oltre che scrittore e
giornalista, fu anche un pittore del fantastico) in particolare
visiva, tra gli argomenti celebrati in questa raccolta, dimostrando
una conoscenza approfondita di tali tendenze, su cui Buzzati
si permette di scherzare con sarcasmo, prendendo in giro gli
atteggiamenti snobistici e manieristici dei critici:
Ma se – fu la domanda che egli rivolse a se stesso d’improvviso – se dalla poesia ermetica è germinata quasi per necessità una critica ermetica, non era giusto che dall’astrattismo nascesse una critica astrattista? Rabbrividì quasi, misurando confusamente gli sviluppi di una così audace concezione. Un vero colpo d’ala. Semplicissimo, eppur così difficile come tutte le cose semplici. Tanto è vero che nessuno ci aveva mai pensato. E lui sarebbe stato il caposcuola. In pratica non restava che da trasferire sulla pagina la tecnica finora adottata sulle tele.3
Vi
sono racconti che potrebbero rappresentare sceneggiature per film
come il Villaggio dei Dannati, come, ad esempio, Non
aspettavano altro:
Risate e grida si levarono. «Fuori, fuori dalla fontana! Fuori!» Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia di umiliare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall’accento si capiva ch’era forestiera.4
La letteratura fantastica in Buzzati è un gioco in cui il lettore viene lasciato libero di scegliere se accettare o no il soprannaturale. L’angoscia e la responsabilità ad esso collegata nascono sempre dall’imprevedibilità del caso. Nei racconti di questo libro, il fantastico si insinua nelle pieghe del quotidiano, concepito alla stregua di un modo alternativo di vedere il nostro mondo o il nostro universo materiale. E da questo reale, Buzzati permette a chi si immerge nei suoi racconti di estrarne delle risonanze inedite e stranianti, mai notate prima. 5
BIBLIOGRAFIA:
D.
Buzzati, Sessanta racconti, ed. Mondadori, Milano 2016.
Aavv, Guida alla letteratura horror, a cura di G. F. Pizzo, Casa
Editrice Odoya srl., Bologna 2014.
SITOGRAFIA:
1 Aavv, Guida alla letteratura horror, a cura di G. F. Pizzo, Casa Editrice Odoya srl., Bologna 2014.
2 D. Buzzati, Sessanta racconti, ed. Mondadori, Milano 2016, p. 308
3 Ivi, p. 410.
4 Ivi, p. 286.
5 Per approfondire questo lato gnoseologico e in generale filosofico dell’opera di Buzzati, consiglio questo bellissimo numero monografico della rivista Antares, edizioni Bietti:
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Nekroeconomy di Sandro Battisti
(Precedentemente uscito su Cronache dell’Armageddon, k_noir, Kipple Officina Libraria, 2020, come omaggio a Sergio Alan D. Altieri)
Sembrava
un suono inverso quello che si stava abbattendo sulla sua coscienza.
Vigile fino a pochi istanti prima, con la stessa continuità del
reale la scena cui stava assistendo aveva improvvisamente mutato
quinte: Alan era stato catapultato in una stanza oscura, ma
familiare, in cui una parete fittizia occultava una porzione del
vano, come se ci fosse un’altra stanza.
Era
divenuto notte. Si trovava in compagnia di qualcun altro, ma sapeva
che egli stava alle sue spalle; lo conosceva bene però questi non si
palesava, e poi per qualche strano motivo Alan aveva preso a
raccontargli cosa si celasse in quel piccolo antro, su cui si apriva
una finestrella rimovibile formato A3, di compensato come lo era
tutta la parete divisoria.
Alan
si sporse oltre il leggero materiale compresso e valutò con una
smorfia il buio che gravava lì dentro; provava una nota di disagio
crescente, annaspò col braccio sinistro oltre la frontiera di legno
e non gli riuscì di trovare nulla di ciò che cercava – “Alan,
cosa cerchi?”, si domandò tra sé e sé – e solo a quel punto
accese la torcia del suo smartphone per far luce sul mistero
oltrecortina: non trovò nulla ed ebbe l’idea di illuminare la
parte opposta del vano, prendendo il telefono con la mano sinistra.
Un braccio inanimato calò sulla sua coscienza, con orrore ne percepì
visivamente la mollezza propria di un arto senza vita: sembrava che
un cadavere vestito di una giacca chiara, a trama spessa e pesante,
mostrasse appena una mano rimasta fissa in una posa da artiglio. Lo
sconcerto maggiore però Alan lo ebbe subito dopo, quando
convulsamente spostò il fascio di luce dello smartphone verso
l’alto, cristallizzando così un abisso di angoscia inenarrabile in
cui il resto dell’orribile figura, dal volto nascosto, incombeva su
di lui sporto poco oltre la finestrella del vano. Nell’altra mano
della figura inanimata c’era una grande moneta, con su scritto
qualcosa di talmente eliso da risultare illeggibile.
Codici
arcaici e inumani segnarono istantaneamente la coscienza di Alan;
interi universi di simboli occulti e di articolate grammatiche
semantiche, incomprensibili agli umani, sembrarono raccontargli
strani episodi di ciò che poteva accadergli. Si sentì coinvolto in
un terribile gorgo di evocazioni orrende, non sapeva fino a che punto
sgorgate scientemente dai suoi interessi per le divinazioni magiche.
Prima ancora di operare una sola profezia, l’intero sistema occulto
di quegli universi gli lanciava dei moniti inequivocabili, come se
gli si volesse presentare con la gran potenza dell’insondabile;
subvocalizzò nel sonno dei mugugni, echi superficiali di un orrore
molto più profondo, mentre le mosse scomposte che assumeva nel letto
in cui dormiva completavano l’incubo in cui era precipitato.
Klelia
gli era accanto, lo scosse: – Alan, cos’hai, stai bene? – Lui
aprì gli occhi, era ancora immerso nell’abisso di raccapriccio in
cui ancora si dimenava. – Hmmm – disse, e tentò di sorriderle,
ma si sentiva immobile come il cadavere del mago che continuava a
penzolargli addosso, nella sua coscienza trascendentale.
– Stai
bene? – gli reiterò.
– Solo
un brutto sogno; è così difficile riconoscere il reale – le
sussurrò, ancora stordito dalle immagini orride e nere che
galleggiavano nella sua psiche – Che ore sono? – le chiese poi
improvviso, scorgendo la luce solare filtrare dalla serranda.
– Le
8.45! – gli rispose allarmata, doveva essersi svegliata anche lei
poc’anzi; preoccupata dai lamenti di Alan, non doveva aver
considerato l’orario.
Un
banner olografico s’insinuò tra loro, avvolgendoli in spire di
caldo citazionismo sintetico: “Alan e Klelia, il momento delle
opportunità professionali è in attesa di sviluppo, non lasciamo
soffrire ulteriormente le linee di business”. L’appello veniva
reiterato ogni quindici secondi; era martellante, ossessivo. “Il
business sta soffrendo”, era poi aggiunto in tono neutro, lasciando
però filtrare dal messaggio un senso di allarme angoscioso. Il
risultato dei richiami alla produttività del mondo iperliberista era
opprimente, affliggeva con gli inviti di un Mercato divenuto vivo e
in perenne espansione, lontano dal realizzarsi e per questo ancora
più pressante nei suoi richiami.
– Gli
incubi divengono veri
– notò cupo Alan – un po’ troppo spesso.
Guardò
la sommità del cielo che intravedeva come uno spicchio tra le
impalcature degli ologrammi; riabbassò gli occhi, preso da uno
sconforto tremante del sogno ancora vivido in un qualche rivolo
quantico del reale. – Siamo pronti per il nuovo salasso? –
domandò rassegnato a Klelia; un senso di pesantezza prossimo al no
hope
li accomunava, “Siamo solo all’inizio della giornata”. Sentì
bussare forte alla porta.
– Aprite!
Prelievo forzoso!
– La PolBeez?
– esclamò sorpreso Alan a bassa voce, col tono proprio del
bisbiglio isterico. – Presto, di
là,
ci stanno per prendere! – concluse verso Klelia. Ma non ebbe tempo
di far nulla.
La
porta venne giù dai cardini elettronici con uno schianto degno
dell’epoca analogica. Subito le guardie private, mandate da
sentinelle liberiste disincarnate, irruppero a due a due
nell’appartamento; erano autorizzate a far ciò, molto più degli
agenti di Polizia statale. La PolBeez
era la mano armata militare del Business, i suoi modi erano di chiara
ispirazione nazista e la sua giurisdizione era totale, oltrepassava
il fatiscente concetto di Stato, considerati dal sistema economico
dei vuoti contenitori giuridici da molto tempo assorbiti dal Mercato.
Alan
sentì risuonare dentro di sé il riff di NWO,
i Ministry di un tempo guidavano la sua ferocia anarchica verso la
ribellione a sistemi invasivi di controllo; si ripeté a denti
stretti, ribollente di un odio repentino che si risvegliava ogni
volta che la costrizione segnava la sua anima:
Io
sono innamorato
del
nostro potenziale di minaccia
Aprire
il fuoco perché
ti
amo da morire
Cielo
alto,
con
un mal di cuore di pietra
Non
mi vedrai mai
perché
io sono sempre solo
…e
fu così che aprì davvero il fuoco, estraendo dai suoi slip una
pistola molecolare che portava sempre con sé; la potenza che
quell’arma esprimeva era devastante, in grado di disgregare le
giunzioni del DNA del malcapitato. O dei malcapitati, come in quel
caso.
Gli
agenti della PolBeez
caddero in serie poco oltre la porta scardinata, senza un lamento,
come birilli; – Mi
sono innamorato di un intento doloso –
canticchiò subito dopo Alan, mentre prendeva Klelia per mano e,
vestitisi frettolosamente, passavano poi sopra i cadaveri molli delle
guardie private del Business.
– Perché
erano venuti a prenderci? – domandò Klelia.
– Avevamo
appena perso il lavoro, evidentemente. Ci avrebbero portati in
qualche luogo di rigenerazione professionale, pronti per altre forme
di schiavismo marketing.
– Avremo
fatto bene a fuggire?
Alan
la guardò, senza risponderle. Cercava un senso di futuro, ma il
concetto di speranza era una frustrazione continua, dal sapore
disperato.
In
strada, si trovarono faccia a faccia con una pattuglia ausiliaria,
richiamata dal mancato feedback della PolBeez.
Alan e Klelia evitarono i tiri incrociati dei fucili da guerriglia
urbani, grazie anche alle architetture da MassMarket
lì nella via che li schermarono con le offerte commerciali LastMinute:
Alan fu rapido nel rivestirsi di pannelli luminosi, scintillanti
d’irresistibili meraviglie plastiche da imbonitori; con essi coprì
anche Klelia e così mimetizzati attraversarono rapidi la piazza,
fino ai portici.
– Rimaniamo
un istante qui – le disse sicuro.
– Ci
faranno a pezzi – rispose lei; aveva dentro un senso di
disperazione, dissonante con i jingle pubblicitari ripetuti fino alla
nausea: Klelia doveva averne visti troppi.
– Lo
avrebbero fatto comunque in casa nostra – obiettò Alan; lei gli fu
grata di aver parlato chiaro.
– Di
qua! – una voce che gli risultò familiare li fece voltare
all’unisono, un aiuto insperato?
– Ahmed
– disse trasalendo Alan – non farlo, ti renderanno innocuo! –
cercò di farlo ragionare.
– Sbrigatevi,
invece! – replicò il Mediorientale con un fare convulso. Alan non
disse altro, serrando la mano di Klelia e piegandosi il più
possibile, corsero verso l’anfratto indicato dal tempestivo
alleato.
Il
negozio di Ahmed era fresco. Aveva l’aria di un locale della Grecia
insulare degli anni ’60. – Qui potrete respirare un poco –
disse loro rassicurante, dopo averli sistemati sotto un banco di
mercanzia esotica. – Qui, mettetevi sotto gli scatoloni!
Quegl’imbecilli sono così tecnologici che basta del vecchio
cartone per renderli ciechi.
Alan
sussurrò un piccolo ringraziamento, creando al volo con le sue mani
un sottile origami digitale da donare; glielo porse. Inorridito,
l’altro lo rifiuto precipitosamente: – Sarai pazzo? Vuoi farmi
trovare subito da quelle merde in divisa, con un tracciamento
cibernetico?
Alan
comprese e disattivò immediatamente il manufatto, maledicendosi per
l’imprudenza.
– Scusa
– farfugliò a bassa voce. Poi guardò Klelia: – Dobbiamo stare
in silenzio per un po’, forse c’è necessità di aspettare la
sera per uscire da qui…
– …o
forse dovete attendere anche un paio di giorni – aggiunse
autorevole Ahmed, con un cenno turgido di un dito sul naso; – Fate
silenzio! – continuò, tendendo l’orecchio. Poi spense la luce, e
Alan udì delle voci in sottofondo, pressanti come quelle di un
drappello da rastrellamento. “Siamo in uno Stato militare”,
pensò, “il nostro mondo ha una sfumatura di controllo ossessivo
che non dà spazio alla fantasia”.
– Zitti!
– subvocalizzò Ahmed, cercando di smorzare il rumore di fondo
cerebrale dei due.
– Chi
c’è qui? – urlò una delle guardie ausiliarie appena entrata,
mentre cominciava a rovistare nel sottonegozio.
– Ceci
e banane – urlò un po’ troppo forte Ahmed, in risposta.
– Banane?
– chiese il militare. – Quali banane? Non ne vedo – biascicò
mentre armava il grilletto da esplosione neurale.
– Sei
un figlio di troia… – sibilò allora Ahmed, mentre con lo sguardo
cercava i suoi complici: Abdul, Moham e un altro mastodontico che si
chiamava Hannibal. Irruppero tutti sulla scena sopraffacendo
l’agente, che non ebbe nemmeno il tempo di sublimare il suo terrore
nei canali privati dell’Esercito: Moham gli tagliò la gola, alla
maniera classica mediorientale. Alan e Klelia lo videro accasciarsi
attraverso i contenitori dei ceci, sentirono il gorgoglio dei suoi
terribili lamenti annegati nel sangue a fiotti.
– Presto,
fuggite di qua – disse Ahmed rimodulando ai due il suggerimento di
poco prima: – ora arriveranno a setacciare il locale altre guardie
assieme a tutta la PolBeez,
sarà difficile coprirvi. State tranquilli, diremo che vi siete
nascosti dietro le patate a nostra insaputa, e che avete fatto secco
voi quel pezzo di merda.
Ahmed
indicava il montacarichi verso il porto. Alan e Klelia vi si
tuffarono subito, senza pensarci un solo istante, giù per il budello
in muratura; lui aveva in mano una sorta di scimitarra tascabile che
Moham gli aveva gentilmente passato, un’arma di vecchio tipo che,
però, aveva il pregio moderno di cancellare chimicamente il calco
delle impronte digitali.
Lì
in quel pozzo fondo di oscurità, Alan e Klelia si guardavano spesso,
scoprendosi impauriti e spaesati da un luogo così inospitale, assai
diverso dalla loro casa abbandonata soltanto un’ora prima.
– Alan,
siamo in un cul
de sac!
– diceva lei stridula, e nel frattempo il suo respiro diveniva
affannoso, quasi avesse un attacco d’asma.
– Ahmed
non ci avrebbe fatto cadere in una trappola dopo averci prima
nascosti, non ha senso il tuo timore; aspettiamo ancora un poco per
abituarci all’oscurità, questo budello deve pur avere uno sbocco
al porto, no?
Alan
tendeva l’orecchio e cercava di valutare il brusio di sopra: gli
giungeva artefatto ma convulso, udiva le improvvise accelerazioni
vocali dei mediorientali che rispondevano alla PolBeez;
in pochi istanti, vide comparire davanti ai suoi occhi una mail di
spam-recruiting e solo allora si ricordò che doveva spegnere i
moduli mentali installati nella partizione cerebrale di lavoro.
“Maledetto idiota che sono, solo ora ci penso?”. A piccoli passi
avanzò nel buio, tenendo la mano di Klelia e tracciando mentalmente
degli assurdi percorsi mnemonici, per seminare eventuali sentinelle
cibernetiche sguinzagliate dagli agenti.
– Poco
più in là c’è un percorso fosforescente – disse rassicurante
alla sua compagna.
– Dove?
– Qui…
Si
lanciarono in un altro budello di mattoni, risalente a chissà quale
periodo analogico; il tanfo di muffa li sopraffece più volte e
Klelia fu sull’orlo di uno shock anafilattico improvviso, una paura
mista ad allergia che le tagliò il fiato. Alan fu rapido, subito
dopo il tonfo in una melma indefinita e salmastra, nel baciarla a
lungo, dandole respiro e calore affettuoso.
– Resisti
amore mio – le sussurrò empatico – siamo ormai lontani da quelle
bestie.
Lei
non rispose, quel bacio aveva il sapore di una colata di alici
macerate: fu quasi come annusare dei sali dopo uno svenimento.
Con
il terrore di cosa fosse sommerso sotto di loro, e badando bene a non
trasmettere alcuna forma di panico, Alan mosse lentamente le gambe a
mo’ di elica per portarsi lontano dal punto di caduta. Annaspando
piano all’unisono, pensava, avrebbero potuto guadagnare una qualche
posizione di vantaggio, così da poter capire come e dove fuggire.
– Muoviti
come me, senti i miei piedi cosa stanno facendo? – Alan bisbigliava
all’orecchio della sua compagna invitandola a collaborare.
– Non
abbiamo scampo – gli rispose lei – dove mai potremmo fuggire?
Lui
si bloccò a riflettere. Il tempo gli era contro. Un gorgo nei suoi
pressi lo prese in un vortice, un rumore sinistro plasmò la sua
improvvisa guglia d’angoscia.
– Non
dovete muovervi – intimò loro una voce sintetizzata. Dal buio, una
sottile luce laser scandagliava il settore dove Alan e Klelia si
tenevano a galla.
Furono
avvolti da delle ganasce pneumatiche; gli sembrò di essere
incastrati da una retina da pesca, solo che i nodi erano in grafene
ed emanavano un vomitevole odore salmastro: “È il senso di questo
specchio d’acqua”, pensò tra sé Alan; Klelia invece era già
svenuta, subito dopo lui scoprì che era stata semplicemente
addormentata da un anestetico a contatto, perché subito dopo anche
lui fu anestetizzato.
Quando
aprirono gli occhi, Alan e Klelia erano immobilizzati da una gabbia
antropomorfa modellata esattamente sulle loro forme. “Materiale che
ha memoria degli stati”, comprese Alan a proposito del carapace che
li costringeva all’inabilità.
– Pensavate
davvero di poter fuggire? – chiese una voce impersonale che usciva
dalle pareti, sembrava diffondersi addirittura dalla tinta sbiadita
sul muro, un vomitevole color livido.
– Voglio
non rispondere – si difese Alan.
– Potete
fare ciò che volete. Per quel che vale…
Le
luci si spensero, passò poi una quantità di tempo condensato che
non gli riusciva di quantificare.
– Hai
idea di che ore sono? – gli chiese dopo un po’ Klelia.
– No,
nella fuga ho disattivato le routine da connessione cerebrale –
rispose lui, si scusava unicamente con le tonalità della voce e non
con gli atteggiamenti corporei, ancora bloccati in quella schiuma di
grafene.
L’immagine
di un’alba si formò allora nel subconscio di Alan; il pensiero di
Ahmed e dei suoi amici lo attraversò in un lampo, ma distrusse
subito quell’immagine per preservare i mediorientali dalla cattura,
semmai non fossero già agli arresti. L’alba continuò a
svilupparsi lentamente nella coscienza di Alan ed era un lento salire
sul mare, ammirava un paesaggio subtropicale che emanava aromi di
armonie idilliache; provò così a seguire quel percorso empatico e
nel farlo staccò idealmente il contatto da Klelia, non prima di aver
contrassegnato atomicamente il luogo psichico dove lei si trovava
bloccata. Si tuffò con tutto il suo essere energetico nei flutti
dell’oceano che dominava la sua psiche, inseguendo piccole canoe
sospese sul mare cristallino, intente a pescare.
– Sai
pescare? – gli chiese un uomo, vedendolo avvicinarsi a nuoto.
Stavano in mare aperto, attorno non c’era altro che una potente
luce turchese color del mare; il sole era più alto all’orizzonte.
– Posso
provare – rispose timido Alan.
– È
semplice… – spiegò brevemente l’altro. – Devi soltanto
attendere e non fare rumori. Il sole ti racconterà le sue storie di
eoni.
Alan
tacque. Si sentiva così bene da dimenticarsi ogni cosa di sé. Il
suo stesso nome si stava modificando e il suo ruolo, la sua funzione
nella società in cui si percepiva come cibo psichico, erano
diventati più simili a un costrutto escheriano di trascendenza che a
una gerarchia sociale. Sentiva di essere in balia di una strana
immanenza, nemmeno troppo definita: qualcosa lo stava modificando
integralmente, fin dentro al suo intimo più consapevole.
– Mi
sento diverso – disse infine al pescatore, senza un vero perché se
non la ricerca di un’improvvisa fratellanza.
– Non
si è mai uguali a se stessi – rispose enigmatico l’altro. Alan
percepì nitida la lancinante mancanza al suo fianco di Klelia. Si
sentì smarrito, era un naufrago disperso in un bellissimo oceano di
nulla ostile alla sua umanità; gli sembrò che stesse nuotando in
un’ideologia fasulla ed era come essere immersi nell’Iperliberismo,
in una distopia inumana che sommerge l’umanità. “Gli ambienti
iperreali e belli sono una trappola.”, pensò; “Siete delle
merde: avete contaminato anche la mia idea di trascendenza, avete
fatto tutto pur di costruirmi dentro un universo di falsa
beatitudine”.
Alan
aprì gli occhi e vide accanto a sé il corpo di Klelia, che
trasudava tossine attraverso opportuni pori del carapace di grafene.
Giacevano in una stanza fetida, sporca e con una nuda lampadina del
XIX secolo appesa sul soffitto. Incredulo, sbatté allora gli occhi
per trovare dov’era finito l’oceano su cui galleggiava fino a un
attimo prima, ma la convinzione che quella fosse stata l’ennesima
bugia raccontata da un sistema inumano di condizionamento psichico si
radicò presto in lui: in ogni caso, non era più in grado di capire
cosa sarebbe stato meglio, se vivere in una frottola o nella cruda
verità. Klelia, dal suo canto, sembrava non rispondere più a
nessuno stimolo sensoriale.
Alan
sentì crescere in sé un forte bisogno di rifugio. I ricordi gli
apparvero come la forma più rapida e sicura per potersi rinfrancare.
Quell’oceano così cristallino, su cui fino a pochi istanti tentava
di pescare, gli richiamò alla mente altri istanti perfetti, momenti
della sua gioventù inondati di sole, di una luce estiva accecante
che si rifletteva su muri di calce bianca, di case sul mare e di
vegetazione che frusciava al vento del mattino; il luccichio del
verde intenso degli alberi lo cullava come un’ondata di assenzio,
facendogli esplodere in mente alcuni avvenimenti di cui faticava a
ricordarne l’esistenza. Klelia, anche allora, si muoveva intorno a
lui sinuosa, tra le volute di luce bianca era vestita di un semplice
pareo.
Sembrava
il perfetto risuonare di un istante affilato da risultare instabile,
pronto a precipitare negli abissi del degrado; un punto di svolta
dell’esistenza, il termine di paragone di un’immanenza non più
raggiungibile: Alan era seduto in riva al mare ad ascoltare la
risacca, libero dalle preoccupazioni e pronto ad assorbire i favori
della natura; ogni parola che pensava sembrava possedere l’ombra
nitida di un’epifania trascendentale, sapeva che avrebbe amato
quell’istante per tutti gli anni a venire, e avrebbe ricercato quel
sapore ogni volta che si sarebbe sentito derubato, stanco, afflitto
da eventi tutto sommato inutili, ma disturbanti.
“L’istantanea
della perfezione”,
così definì subito quell’emozione; era felice di rivivere quella
porzione d’estate nel suo cuore immacolato, in quella situazione il
senso della terra gli era stato trasmesso camminando a piedi nudi sul
pavimento fresco. L’odore di una blanda salsedine lo inebriava
tramite i ricordi.
– Un
sorso di vino fresco? – gli chiese Klelia con un filo di voce. Lui
aveva appena finito di mangiare un piatto di spaghetti al sugo, nella
sua coscienza il profumo della semplice bontà si coniugò con
l’aroma inebriante di un delizioso vino bianco di tufo. Si ubriacò
di altra bellezza, “Tutto ciò è il senso intimo della vacanza”,
ricordò di aver pensato in quel momento, e anche adesso.
Annuì all’offerta e a se stesso con un piccolo sorriso: voleva
esser lasciato solo per assorbire completamente quel senso di beltà
sopraffacente.
Si
voltò, e comprese che tutto il bianco stordente dei muri era dato
dalla proiezione della lampadina appesa sul soffitto, nella sua
cella. Klelia era sempre lì con lui, ancora incosciente nel bagno
chimico delle tossine che essudavano da lei.
“Hanno
implementato i miei ricordi”, si disse convinto Alan. “È una
tortura politica
la loro”, aggiunse alterato subito dopo. Pensò che probabilmente
quel ricordo della vacanza al mare non gli era mai appartenuto.
– Possiamo
fare ciò che vogliamo di voi.
Era
un’altra voce maschile a parlare, asettica, potente e ben scandita;
risuonava in tutta la stanza con una sorta di olofonia che non
sembrava avere alcuna origine. Essa lo aveva interrotto nel flusso
interiore delle sue considerazioni.
– Possiamo
farti credere qualunque cosa vogliamo, anche che io esista –
aggiunse subito dopo la voce, come un oracolo.
Alan
stette in silenzio. In realtà era stordito da quella terribile massa
di input.
– Ti
propongo un patto – disse infine la voce. Il suo gracchio sintetico
da IA era fastidioso, come grattare le unghie sulle vecchie lavagne
di ardesia. Alan non diede segno di assenso, né di diniego: era
neutro. La sua battaglia poteva essere combattuta ormai soltanto con
l’indifferenza. Nell’incertezza dei risultati, la voce oppressiva
non sapeva fermarsi e continuo inarrestabile sull’onda di un
delirio di onnipotenza, che andava ben oltre il codice di
programmazione artificiale.
– Tu
accetta di ripagare i crediti del Profitto, accumulati coi tuoi
ritardi di abnegazione, e noi ti scontiamo quest’enorme colpa che
ha provocato l’essiccazione di alcune linee di business. A volte,
la condotta programmata considera le necessità umane, ma fossi in te
non ne approfitterei troppo di questa nostra straordinaria
benevolenza.
– Del
resto – tornò a esser presente la prima voce, come un controcanto
greco – noi sappiamo essere atroci. Non so fino a che punto ti
conviene intestardirti.
Il
silenzio regnò per degli istanti, così dilatati da non essere
misurati dalla coscienza di Alan; forse il buio, o la sensazione di
costrizione, o anche la preoccupazione per la condizione di Klelia,
tutto gli sembrò marcare il tempo come un’oppressione
insostenibile, la sua anima era lorda di una sorta di pece: si sentì
impiastricciato fisicamente anche da qualcosa d’insopportabilmente
viscoso e puzzolente, le sue possibilità di movimento erano prossime
all’immobilità.
– Possiamo
aiutarti a decidere? – ancora la seconda voce, che risuonò
terribile nel vuoto psichico in cui si trovavano; Klelia non sembrò
smuoversi dal suo stato inerte, respirava appena. Alan sorrise
cinico, come un invasato.
– Soltanto
se sparite immediatamente dalla mia vita – rispose; voleva essere
caustico, ma si rese subito conto di essere stato involontariamente
propositivo.
– Lo
faremo, dal momento esatto in cui accetterai le nostre proposte –
il tono neutro della seconda voce strappava via i nervi.
“Economia
necrotica”, pensò tra sé Alan. “Sistema di profitto mortifero,
ovvero l’Economia della Morte: è questo lo stato attuale, futuro e
passato della Globalizzazione. A nessuno importa più nulla delle
ideologie, perché le linee di profitto devono prosperare; dietro di loro
converge un’inumanità lovecraftiana”.
– Mi
riservo di rispondere non appena avrò trovato la migliore soluzione
per il Business – disse ermetico, ma deciso, Alan. Aveva forse
trovato soluzione cardine per preservare se stesso, facendo finta di
salvaguardare il Sistema?
Le
voci finalmente tacquero, sottolineando una sorta di tacito accordo.
Regnò allora un silenzio statico indefinito, senza forma e tempo.
Come Klelia, che giaceva lì accanto a lui. Un limbo impersonale lo
avvolse, quasi fosse diventato un esiliato in un confino nemmeno
troppo terribile, vittima di una condizione che comunque gli
permetteva di sopravvivere. Il tempo, pensò, poteva essere la sua
carta vincente. “In questo momento lo è davvero”, si ripeté con
effettiva convinzione. Alan era diventato finalmente l’ago della
bilancia del suo futuro, ed era inattaccabile.
“Momentaneamente”,
sorrise mentre se lo diceva.
– Non
hai ancora deciso?
La
terribile voce lo scosse da un torpore mnemonico, che durava da un
tempo eccessivamente dilatato.
– Cosa?
– interloquì Alan, sapendo benissimo invece a cosa si alludesse.
– Siamo
in attesa di una tua decisione sul ripristino del tuo Business,
sappiamo benissimo che ricordi tutto quello che devi.
– Eravamo
d’accordo che la parola ultima spettava a me; vi ho già detto, sto
decidendo – cercò di essere il più convincente possibile, ma
sapeva che…
– Il
Business sta soffrendo indicibilmente: alcune altre linee collaterali
sono irrimediabilmente evaporate, nel frattempo: o decidi in fretta,
o agiremo noi.
– Ciò
modifica sostanzialmente il nostro patto, però – Alan cercò di
ammonire l’interlocutore con l’ombra di una ritorsione, che però
non era nelle sue possibilità e aveva un solo nome: bluff.
Il
modulo di IA non rispose. Un clock
che scandiva un countdown molto prossimo allo scadere si visualizzò
sui lobi temporali di Alan: non lo avevano nemmeno ascoltato.
– Tempo
scaduto – disse infine la voce sintetica.
Un
caldo blow implose
l’aria intorno a lui. Klelia intanto era scomparsa, non ne
percepiva più la sua presenza lì intorno e intanto si sentiva
cosparso da una forma di coscienza sconosciuta. Non sembrava nulla di
evoluto o d’involuto, piuttosto gli appariva come qualcosa di
plastico, una sensazione impersonale, l’essenza stessa di
un’esistenza larvale, viva nella velata consapevolezza onirica di
essere guidata dall’altrove, come se qualcosa si fosse impossessato
della cognizione e ne guidasse ogni bisogno e scopo, costruendoli a
tavolino.
“Qualcosa
si è impiantato in me”, questo pensò Alan in quei frangenti
dilatati, negli istanti in cui possedeva una qualche forma
d’illuminazione; “sembra un addormentarsi, rimanendo però
vigili; pare di vivere una forma di realtà plasticosa e livellata su
una dimensione così sottile da essere inesistente. Vivere non può
essere così inutile…”.
L’essenza
stessa dell’universo iperliberista gli apparve come un’icona
disposta su un desktop remoto; accanto non esisteva altro che un
enorme spazio, dove altre isole iconografiche galleggiavano in un
nulla sconvolgente, in un luogo di assorbimento che gli svuotava
completamente la sua anima.
Alan
era stato portato in un luogo dove la sua forza psichica sarebbe
stata eviscerata e gli sembrò chiaro di essere in attesa della
cancellazione finale, della disgregazione inappellabile; comprese
drammaticamente che anche una finta esistenza nell’universo business
sarebbe stata preferibile a un nulla così vacuo, a quell’implosione
nello spazio profondo.
“Questo
è il mio punto di non ritorno?” pensò, fluttuando in un fluido
senza nome e appigli, che si restringeva in
fondo come
un imbuto. In quei pressi, anche la luce sembrava gorgheggiare e
annullarsi; Alan ne vedeva le particelle elementari distaccarsi dal
flusso principale e spegnersi, mentre si allontanavano, in un buio
impersonale e inglorioso, un nulla da cui era impossibile ritornare
indietro.
– Ciò,
sei diventato – disse allora la voce, contravvenendo all’elementare
deduzione che Alan aveva fatto della sua prossima fine.
– Significa
che posso uscirne vivo, quindi… – dedusse ad alta voce,
prontamente.
– Significa
che i tuoi crediti vengono prima di qualsiasi tuo annientamento.
Paga, poi muori. Pensavi davvero d’ingannarci?
– Se
muoio, non posso ripagarvi.
– Abbiamo
la nostra polizza assicurativa.
– Polizza
assicurativa?
– Klelia.
Interi
modelli cognitivi attraversarono la mente di Alan; avvenne in un
breve volgersi di istanti. Significava che Klelia era stata in un
qualche modo rapita dal Sistema e giaceva inerte in una qualche vasca
di decantazione, pronta magari per essere assorbita. Da cosa? Da chi?
Non erano domande cui Alan riusciva a dare risposta, ma conosceva il
motivo della sua inconsapevolezza: il Sistema era sfuggente, non
umano, non era possibile risalire alla sua creazione con certezza;
però era implacabile, e in questo mostrava tutta la sua terribile
inumanità.
– Dovrai
sbrigarti a risarcirci, se non vuoi che lei
diventi una massa inerte di compost
– tornò a dire la prima voce.
Dopo
interminabili istanti di disperazione, Alan si decise a parlare
chiaramente. Era con le spalle al muro: o moriva lui, oppure sarebbe
toccato a Klelia; e non era per niente da escludere che una volta
estinto lui, Klelia non ne avrebbe beneficiato in alcun modo.
– Non
so come fare – la sua espressione aveva anch’essa assunto
tonalità neutre, la disperazione gli aveva annullato ogni afflato
combattivo.
– Oh,
davvero? – senza inflessioni di alcun tipo, l’IA rifaceva il suo
verso. Era da escludere qualsiasi suo risvolto ironico, o
forse no?
Alan non rispose, era così prostrato da non aver nemmeno voglia di
morire.
– Vediamo
un po’ se abbiamo qualcosa da proporre noi… – replicò a quel
punto il secondo guardiano, una nota civettuola nella sua voce era in
realtà il culmine del disegno del Profitto. Alan tenne il suo
profilo basso, temeva qualsiasi cosa gli avrebbero ordinato.
– Abbiamo
appena terraformato un nuovo mondo – gli disse asciutta l’IA.
Mostrava una gioia creativa tutt’altro che tipica delle
intelligenze artificiali. Stavano giocando con lui come il gatto col
topo: non poteva fare altro che percorrere fino in fondo quella
strada.
– Cosa
volete da me?
– Sarà
un compito prestigioso quello che ti abbiamo riservato; non sappiamo
bene perché ti stiamo chiedendo ciò, in fondo non lo meriteresti,
però nonostante tutto nel Sistema si fidano di te, e sappiamo che
accetterai con entusiasmo estremo l’opportunità che stiamo per
offrirti…
– Ipocriti
del cazzo: cosa volete da me, brutte merde?
I
due scoppiarono in una risata terribile, oltre il senso del
grottesco. Avevano vinto, lo sapevano già da molto, ma essere
finalmente arrivati lì, alla capitolazione di Alan, li rendeva
potenti, tronfi, imbattibili.
– Il
Sistema che noi serviamo con orgoglio e che qui, in questa sede,
rappresentiamo fieramente, ti vuole porre a capo del nuovo mondo
terraformato; alcuni anni standard di leadership
incontrastata, che serviranno ad affermare il nostro sistema politico
ed economico anche sulla nuova colonia, e tu potrai tornare dalla tua
Klelia, nel tuo mondo, libero da ogni vincolo. In pensione: sì, alla
fine di questo periodo di comando verrai posto in pensione col
massimo dei contributi, e con l’eterno ringraziamento di tutte le
corporazioni che compongono il Sistema. Saresti ricordato sugli
ipertesti delle prossime generazioni come un esempio di abnegazione
visionaria. Affare fatto? – sorrisero di un ghigno complicato, politico.
“Trappola.
Trappola. Tutto puzza come una merdosissima trappola senza uscita.
Vogliono che muoia lì
sopra,
lontano da tutti. Come posso uscirne?”; Alan, con la consapevolezza
di essere su una strada senza uscita cercava, come un topo nella sua
giostra, una possibilità di fuggire da un destino segnato,
tutt’altro che felice.
– Devo
pensarci.
– Non
puoi, lo hai già fatto inutilmente per tutto questo tempo. La porta
che si sta per aprire alla tua destra ti condurrà a un corridoio di
accesso verso la rampa di lancio. Le tue analisi sanguigne riportano
valori standard per la missione, ti abbiamo tenuto sotto controllo in
questo periodo – l’IA ridacchiava di quel particolare, mostrando
ancora una volta la predeterminazione di tutta l’operazione.
Un clang pneumatico
attirò l’attenzione di Alan, che si voltò verso quella direzione:
luci laser tracciavano l’andamento di un corridoio che lo avrebbe
condotto, a quel punto ne era più che certo, verso la rampa di
lancio di uno spazioporto, di proprietà virtuale di chissà quale
corporazione.
– Ho
fame – disse disperato con un istinto prossimo alla sopraffazione
più assoluta.
– Mangerai
a bordo, prima di essere posto in sospensione criogenica. Poi, non
avrai bisogno di molto per sopravvivere, almeno finché non arriverai
a destinazione.
– Dove
sono diretto? – replicò allora con voce isterica.
– La
meta è NX35GJ_Po, dove Po sta ovviamente per Polonio. Parliamo di un
planetoide brullo, ricco di rocce e uranio, la terraformazione ne ha
recentemente ricavato un luogo unico e interessante per viverci. Ti
piacerà, ne sono certo – chiosò l’IA con una mimica
imperscrutabile, che non dava adito ad alcuna interpretazione.
“Oppure a infinite altre
spiegazioni”, pensò Alan con un guizzo di comprensione.
– Noi
vogliamo dare un tono artistico alla cosa, regalandoti la possibilità
d’intestare al planetoide un nome più bello ed esplicativo, una
creazione di cui tu, e soltanto tu, sarai la mente e l’artefice: ti
piace come prospettiva?
Fu
subito portato nel condotto da un carrello penumatico e non gli fu
permesso di replicare alcunché; nella concitazione del momento, Alan
dimenticò di chiedere informazioni su Klelia. Un attimo prima di
venire criogenicamente addormentato realizzò tutto ciò, ma si rese
anche conto che non gli avrebbero fornito nessuna informazione: lei
era saldamente nelle loro mani, sicuramente la stavano già
prosciugando.
Il
rumore del formarsi di cristalli di ghiaccio, a velocità
esponenziale, fu l’ultima cosa che seppe di percepire nitidamente.
– Sveglia,
amico mio.
A
fatica Alan aprì gli occhi, la nebbia criogenica bloccava ancora le
dinamiche di molti suoi ragionamenti, arginandoli in una nuvola di
torpore dell’anima.
– Alan,
sveglia. Sei arrivato.
La
voce rassicurante di Ahmed faceva capolino ai suoi sensi in ripresa
cognitiva. La vertigine di sorpresa lo sopraffece fino al momento in
cui, poco dopo, riuscì a chiedersi: “Cosa ci fa qui, Ahmed?”.
– Dobbiamo
andar via presto da questo luogo – disse un’altra voce, che Alan
riconobbe quasi subito come quella di Moham, il cui accento
mediorientale gli facilitò il compito d’identificazione; girò
lentamente la testa e vide sullo sfondo pure Hannibal che stava
armeggiando con dei FrontEnd su
delle interfacce probabilmente fuzzy,
vista la ragionevole poca dimestichezza dei quattro con i sistemi
complessi artificiali.
“Allora
da qualche altra parte dev’esserci pure Abdul”, si disse Alan,
dissipando ancor di più la nebbia criogenica residua. – Ma perché
voi siete quassù? – chiese infine, ricordandosi del planetoide su
cui era stato spedito.
– Osserva
il paesaggio inospitale, amico mio – fu la risposta di Ahmed, aveva
uno sguardo pieno di comprensione ma dotato di una strana affilatura
empatica; un taglio sibillino dell’intonazione fu la seconda nota
fuori posto della risposta. Alan si sporse dal lettino, la debolezza
che sentiva dentro di sé era pari a un incommensurabile vuoto
siderale, il gelo lo aveva reso psichicamente inerme per troppo tempo
e si era insidiata in lui l’infinita nullità cosmica; aveva
bisogno di altro tempo per sentirsi di nuovo se stesso, ma la
situazione aveva insito un qualcosa di allarmante e incombente:
sentiva che doveva essere rapido nel riprendersi.
– Allora,
sei pronto? – chiese infine Ahmed.
– Per
cosa – rispose stupito Alan.
– Cosa
ti hanno detto prima di mandarti qui?
Alan
fece ai quattro un rapido sunto della condanna che gli era stata
inflitta, sottolineando come fosse stato abilmente messo all’angolo
dalla situazione impositiva del Sistema.
– Quindi
non ti hanno detto nulla… – semplificò Hannibal, distogliendosi
per un istante dal tweaking
tecnologico di qualcosa che ad Alan sfuggiva completamente. Ahmed gli
rivolse uno sguardo pregno di commiserazione, poi si rituffò
nell’algoritmo.
– Spiegatemi
– disse infine Alan, esasperato da tanta inconsistenza.
– Ascoltami
– replicò allora Ahmed – la faccenda ha altri
aspetti che non ti piaceranno per niente. – Lo guardò duro, attese
che l’altro si riavesse dall’annuncio dell’insidioso coup
de théâtre.
– Sono
pronto – rispose dopo poco Alan, il suo sguardo indurito cercava di
parare qualsiasi ulteriore colpo basso si stesse per materializzare.
– Noi
amministriamo questo luogo
– disse sintetico Ahmed.
– Da
quando? – domandò stupito Alan.
– Da
poco tempo, in realtà – rispose evasivo il Mediorientale.
Seguì
un silenzio denso di sconcerto; le connessioni degli eventi
precedenti, che si riformavano rapidamente nella mente di Alan,
lasciavano sul suo volto i segni di uno stupore senza nome: era come
sentirsi traditi in un modo che non si sarebbe nemmeno potuta
concepire.
– Voi
mi avete condotto qui, in altre parole?
– In
termini semplicistici è così – rispose Moham da un angolo
lontano; stava svolgendo anche lui una qualche attività legata al maintenence della
stazione.
– C’è
qualcosa di complesso che può aggiungere nobiltà alla situazione? –
chiese allora Alan.
– Hmmm…
No, direi – disse sornione Ahmed – ma il vero punto è che tutto
quello che ti sta succedendo non dipende strettamente da noi, nel
senso che a noi è stata data soltanto una fulminea possibilità per
una vita migliore, anche se decentrata. A te no.
– Che
vuoi dire?
– Voglio
dire che noi vogliamo essere parte di un mondo che probabilmente
potrà arricchirci; a quanto ne so, tu no.
Alan
era basito. Fissava ognuno di loro con uno sguardo attonito,
l’incredulità di ciò che gli stavano dicendo poteva lasciar
spazio soltanto a qualcosa di peggio. – Continuate – disse.
– Cosa
vuoi continuare? – lo schernì Hannibal. – Ci hanno chiesto di
spremere i tuoi debiti, eravamo i più titolati a farlo perché ti
conosciamo meglio di tutti gli altri tuoi conoscenti o colleghi.
Una
risata terribile fece da corollario a quella cruda dichiarazione;
Alan li vide seri. Si passò allora una mano sui capelli; rise
anch’egli, ma il senso del suo humour era completamente diverso. –
Cosa fate quassù? – chiese tremante – qual è il senso del
business che qui perseguite?
– Oh
è molto semplice, mon
ami
– rispose prontamente Ahmed – possiamo riassumerlo con questi
versi di NWO,
che conoscerai benissimo:
Mi
sono innamorato di un intento doloso
Puoi
afferrarlo, ma ancora non lo sai
Un
suo vero amante non è mai stato trovato
– In
altre parole, noi facciamo i banditi siderali; siamo pronti a
raccogliere tutte le opportunità che si affacciano sul nostro reale.
E ora, tu sei la nostra opportunità; e paradossalmente, noi la tua.
Una
figura oscura si agitava in una camera di decompressione. Sembrava
inanimata. Nelle sue movenze sospese si palesavano nugoli di polvere
da estrazione che rimanevano a mezz’aria, luridi come soltanto i
detriti da miniera possono essere. La tuta da esterno che la figura
indossava era lorda di sozzura da perforazione; il capo dell’uomo
era oscurato dal casco siderale, esternamente la visiera era coperta
di polvere.
Ahmed
sbirciò attraverso l’oblò della camera di decompressione,
cercandovi qualche forma di vita della figura.
– Mioddio,
fa’ che Alan non sia morto! – pregò ad alta voce con un senso di
disperazione; accese una torcia da miniera orbitante per cercare di
capire meglio la situazione, ma dall’altra parte il buio era denso
oltre ogni possibilità di discernimento.
– Di
cosa ti preoccupi? – rispose di rimando Hannibal, quasi sorridendo.
– Di
dover tornare a vendere cipolle, idiota che non sei altro: senza
Alan, la nostra opportunità democratica di essere banditi
costituzionali muore assieme a lui.
– Magari
ci assegnano a un altro avamposto ancora più lontano, che ne sai? La
bellezza di quest’Economia è che divora sempre qualsiasi cosa non
ancora assimilata, o che è ancora vergine, oppure appena
riconvertita – teorizzò Moham come un affermato economista.
– Noi
saremo sempre ai margini del regime, amici miei, per quanto potremmo
divenire dei dirigenti nessuno di noi si arricchirà mai seriamente –
notò Abdul – il Sistema sarà sempre l’unico beneficiario,
mangiandoci la nostra vita.
In
quel momento il braccio inerme di Alan si abbatté sulla finestra
della camera di decompressione, spaccandola; di peso, l’arto
trapassò la frontiera infranta e colpì la testa di Ahmed, mentre
tutta la stanza subì una piccola decompressione che asfissiò in
breve tempo i quattro.
Dalla
mano inerte di Alan cadde una moneta, su cui prese forma un appunto
digitale:
‘Per
l’autorità elargitami, ora il nome di questo planetoide sarà Nekroeconomy’.
Sull’altra
faccia della moneta erano evidenti dei simboli occulti di schermatura
e, a scomparsa, si evidenziava a intermittenza l’immagine da
tarocco del Mago.
In
quei frangenti, nelle Borse dei sistemi extraplanetari l’indice di
riferimento delle Compagnie da estrazione subì impennate tali da
sospenderne, temporaneamente, i titoli di alcune.
– Poco
male – fece uno degli operatori ombra di una Borsa remota –
quelle company si
riconvertiranno presto al business dei funerali spaziali.
In
uno dei suoi rari eccessi di risa, un altro operatore ombra gli
rispose con cinismo: – Noi tutti siamo la parte nekro
dell’economy
in cui annaspiamo senza speranza.
L’AUTORE
Sandro Battisti è uno dei fondatori del Movimento Letterario Connettivista. A partire dal 2004 si è dedicato allo sviluppo di uno scenario comune a molti suoi lavori successivi, l’Impero Connettivo. Ha vinto il Premio Urania 2014 e il Premio Vegetti 2017 con L’Impero restaurato ed è curatore delle antologie di strano weirdLa prima frontiera (2019) e La Volontà trasgressiva (2021) per l’editore Kipple Officina Libraria, di cui è uno editor. È, inoltre, curatore della collana anarcopunk ”non-aligned objects” di Delos Digital e, sempre per la stessa casa editrice, pubblica i nuovi scritti dell’Impero Connettivo nella collana L’orlo dell’Impero. Scrive quotidianamente sul blog hyperhouse.wordpress.com.
Tutti i diritti riservati per immagini e testi agli aventi diritto ⓒ.
Gli scrittori dei Racconti di Dracula – Puntata 1
La Redazione GHoST presenta il nuovo video targato ClubGHoST & Ipnotica dedicato agli scrittori dei Racconti di Dracula. Si tratta della prima puntata, la presentazione, di un programma di Max Ferrara e Sergio Bissoli.
Il video è stato caricato sul nuovo canale You Tube ufficiale del Club GHoST: https://youtube.com/@clubghost1994 che prossimamente ospiterà altre innumerevoli iniziative. Per non perdere tutte le novità a riguardo quindi vi invitiamo a iscrivervi al canale attivando la campanella per le notifiche.
La palude di Claudio Kulesko
[…]Quand’ero
bambino feci uno strano sogno. Sognai che il quartiere nel quale ero
nato e cresciuto sorgeva su un intricata rete di cunicoli e gallerie.
Un sistema di antiche rovine, percorse da un’oscurità cosi
profonda e intensa da non poter essere contenuta né dalla pietra né
dall’asfalto
[…]
La Palude di Claudio Kulesko è una delle ultime uscite delle MoscaBianca Edizioni. Fin da subito ci viene presentato dalla casa editrice come un racconto new-weird che parla di antropocene e spazi liminali. Lo possiamo trovare all’interno della collana Cuspidi, gestita da Diletta Crudeli.
Be
weird, be white
è il motto di questa casa editrice romana nata nel 2018 e
specializzata nella narrativa e nei libri illustrati di genere
fantascientifico e fantastico, con alcuni progetti nel mondo dei
giochi da tavolo.
Il
racconto, ambientato nella capitale, Roma,
avvolge il lettore in un’atmosfera sospesa, senza specificare né
l’epoca (anche se presumibilmente in un contesto moderno) né il nome
del protagonista. Si apre con una panoramica della Città Eterna, un
mosaico di passato e presente, per poi focalizzarsi su un ragazzo che
si prende cura di numerosi gatti randagi. La sua routine viene
sconvolta dall’arrivo di un nuovo felino, più grande e aggressivo,
che rivendica l’esclusiva delle attenzioni.
Da
questo punto in poi, la narrazione si sviluppa attraverso salti
temporali, conducendo il lettore in un viaggio introspettivo
attraverso la vita del protagonista. Il percorso è costellato da
momenti di intensa emotività, da elementi inquietanti e da una
dimensione quasi onirica, che sfuma i confini tra realtà e
immaginazione.
In
un labirinto metafisico, tra cunicoli ancestrali e acque stagnanti,
si snoda un vero e proprio viaggio iniziatico. Animali guida e
simboli oscuri accompagnano il protagonista verso un abisso
interiore, dove la bellezza antica si scontra con la corruzione della
modernità. La palude – potenziale metafora della corruzione del
bello – rende questo racconto un’esperienza intensa e coinvolgente. I
gatti, creature ambigue, incarnano il fascino e l’inquietudine
dell’inconscio, sepolcri ipogei in cui per un momento ho rivisto le
montagne della follia
di HP
Lovecraft.
Lo stile narrativo di Kulesko, vivido e a tratti disorientante, rivela una profonda conoscenza della realtà circostante e affronta temi universali come la violenza e la perdita dell’innocenza. Le meravigliose illustrazioni di Francesca Guerrieri completano l’opera, rendendola una gemma da collezionare e da vivere
GLI
AUTORI
Claudio
Kulesko è
filosofo, traduttore e scrittore. Per Nero ha tradotto Tra
le ceneri di questo pianeta (2019)
e Rassegnazione
infinita (2022),
di Eugene Thacker. Tra le sue opere vi sono L’Abisso
personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore
astratto (Nero,
2022), Ecopessimismo.
Sentieri nell’Antropocene Futuro (Piano
B, 2023) e la novella Al
limite del Possibile (Zona
42, 2024). Ha fatto parte del Gruppo di Nun, con il quale ha scritto
la raccolta di saggi Demonologia
rivoluzionaria (Nero,
2020). Con Gioele Cima ha curato la raccolta di saggi Metal Theory.
Esegesi del vero metallo (D Editore, 2024). Suoi saggi e racconti
sono apparsi in numerose riviste e antologie. Con Moscabianca
Edizioni ha pubblicato anche il saggio Il
più forte del mondo. La filosofia di Dragon Ball (2024).
Francesca
Guerrieri è
un’illustratrice italiana. Vive a Pescara, dove ha conseguito il
diploma in illustrazione alla Scuola Internazionale di Comics.
Appassionata di disegno e arte fin da bambina, inizia come
autodidatta, decisa a trasformare la passione in professione,
spaziando tra temi come il fantasy, il gotico e il macabro.
La
Palude
Autore:
Claudio Kulesco, Francesca Guerrini
Editore: MoscaBianca Edizioni
Collana:
Cuspidi
Pagine:
80
ISBN:
9791281703100
Costo:
12€ – brossurata
Tutti i diritti riservati ⓒ per immagini e testi agli aventi diritto.
Gli appetiti di Trnt-asy’hh e altre stravaganti vicende lodigiane di autori vari
“Le
stelle stanno tornando nella giusta posizione. Presto gli antichi
dei verranno evocati e allora su questa terra non ci sarà più
spazio per l’umanità”
Gli appetiti di Trnt-asy’hh e altre stravaganti vicende lodigiane, pubblicata dalla Dagon Press di Pietro Guarriello, è una raccolta di sei racconti lovecraftiani, di appena centoventi pagine, a cura di Roberto Del Piano. Appare così il libro al primo approccio, almeno.
In
realtà i primi quattro racconti, scritti dallo stesso Del Piano,
e il quinto, di Andrea Cattaneo, sono cinque capitoli di un
racconto lungo raccontato in soggettiva da un io narrante che,
dall’anonimo del primo capitolo/racconto, cambia poi allo stesso Roberto Del Piano, per finire con passare il testimonio, nel
quinto capitolo/racconto, allo stesso Andrea Cattaneo.
Conclude l’antologia un racconto lungo, di circa sessanta pagine,
ad opera di Cesare Buttaboni, più noto come critico ed
esperto di letteratura fantastica, che come autore di narrativa. Ed è
proprio da questo ultimo racconto che è partito tutto: pubblicato
precedentemente sulla rivista, diretta da Pietro Guarriello, Studi Lovecraftiani, ha dato a Roberto Del Piano, dopo
averlo letto, l’idea di ambientare delle narrazioni di orrore
cosmico a Lodi. Abbiamo quindi due autori lodigiani d’origine, Buttaboni e Cattaneo, e uno lodigiano d’adozione, Del
Piano. che ambientano storie
lovecraftiane nella città in cui vivono. E questa cosa già ci
intriga molto.
Apre
le danze, o meglio l’oscuro cabaret cosmico, un’introduzione di Cattaneo in cui lo
scrittore lodigiano propone un suggestivo e convincente parallelismo
tra la lovecraftiana
Innsmouth e Lodi.
Entrambe
le città hanno perso gli antichi fasti e si sono degradate a
province isolate e decadenti, in cui l’economia si regge su
rade attività commerciali e i cui abitanti, ostili, schivi e
solitari, tendono ad obbedire supini
ai pochissimi che, nella
città, detengono il potere politico ed economico.
La
narrazione incomincia con Trnt-asy’hh, in
cui il protagonista, durante
una passeggiata nella natura, in pieno periodo lockdown da Covid,
trova per terra un piccolo libro. È un volumetto vergato a mano
firmato da Friedrich
Wilheim Von Juntz,
autore ottocentesco. L’uomo porta con sé a casa il libro e inizia
a leggerlo. La lettura gli provoca strani sogni, bizzarri incubi in
cui vede, su un altare, un essere mostruoso tentacolato nei confronti
del quale prova un misto di repulsione e attrazione erotica.
Nonostante
questo sogno gli procuri agitazione, continua a leggere incappando in
un capitolo in cui Von
Juntz
racconta del diffuso
culto
ancestrale della abominevole entità nota come Tarantasio, praticato
nella zona corrispondente oggi tra Bergamo, Lodi e Cremona, un
territorio incluso tra gli attuali fiumi Adda e Serio. Ma lo shock
reale il protagonista lo subisce quando Von
Juntz
afferma che il culto è, all’epoca in cui è stato
scritto
il libro, ancora praticato da
una cerchia ristretta e che Tarantasio tuttora esiste.
Tarantasio,
deformazione di Trnt-asy’hh
è
un Antico minore, la cui esistenza è gemellata con quella di
Shub-Niggurath, il terribile caprone dai mille cuccioli, ed è un
essere decerebrato la cui tutela è affidata a Nyarlatothep, il
messaggero dei Grandi Antichi.
Più
il
protagonista legge il libro di Von Juntz
e
più aumentano i
suoi
incubi, sogni strani da una forte componente sessuale, in cui appare
onnipresente l’Antico Trnt-asy’
hh. E
più si va avanti, più le esperienze oniriche diventano perverse e
malsane. Quindi in questo primo capitolo abbiamo già un assaggio
dell’atmosfera di angoscia e perversione che caratterizzerà, unite
a sarcasmo
e satira
che si accentueranno sempre di più lungo il corso della storia,
l’intero racconto lungo policomposto
di Del Piano
e Cattaneo.
L’uomo
finisce per incontrare realmente, al di fuori della dimensione
onirica, l’Antico scarso di intelletto e si unisce sessualmente a
lui, non prima di aver parlato del libro di Von
Juntz
con un amico, che scopriamo nel capitolo successivo, è Roberto Del
Piano, successore nella voce narrante in Non
è facile fare il vicesindaco a Lodi
In
questo secondo capitolo/racconto Nyaraltothep è stanco di fare da
balia a
Trnt-asy’hh
e
si fa venire un’idea: diventare sindaco di Lodi. E qual è il
miglior modo di fare campagna elettorale se non quello di entrare nei
sogni dei cittadini e così influenzarli? Detto, fatto. Se
riuscirà a diventare sindaco lo scoprirete leggendo il libro. No
spoiler. Diciamo
solo che l’”attività propagandistica”
di
Nyarlatothep
avrà una fortissima influenza sulla vita sessuale dei lodigiani:
impressionante e divertente la descrizione della sessione pubblica di
masturbazione collettiva dei cittadini di Lodi.
Nei
racconti successivi, Zoog…,
Nei sotterranei del cinema del viale e,
infine, Diario
dell’apocalisse, in
cui il testimonio passa alla voce narrante di Andrea
Cattaneo, vengono
esposti contenuti decisamente weird e anche lovecraftiani. Da statue
rappresentanti Grandi Antichi che prendono vita per
consumare sacrifici umani all’intervento
dei gatti del territorio che risolvono la situazione come feroci
guerrieri, fino alla resurrezione apocalittica dei morti del cimitero
di Lodi. Un apocalisse che sarà o no occasione di rigenerazione per
i supini abitanti di Lodi? Come dicevo prima, no spoiler. Non voglio
fornire la scusa per non leggere questo delizioso racconto lungo
diviso in cinque capitoli.
La
componente fortemente weird
e fantastica di questi racconti è decisamente esaltata dalla
descrizione dettagliatamente realistica di Lodi, delle sue
architetture, dei riti sociali dei suoi cittadini, dell’atmosfera
da provincia deprimente che si respira e insomma da una generale
ottima descrizione
ambientale
che fa da territorio fertile a idee fortemente originali e
divertenti. Le
intenzioni degli autori sono evidentemente all’insegna
della satira
sociale e politica,
ma questo non vuol dire che la lettura di questi racconti non produca
comunque dei sani e
malsani brividi
da sguardo nell’abisso cosmico di lovecraftiana ispirazione.
La
fusione tra tematiche lovecraftiane (i Grandi Antichi e la loro
indifferenza cosmica verso la razza umana) e la realtà lodigiana è
ottimamente riuscita. I due contenuti si amalgamano alla perfezione,
senza discordanze né incongruenze.
Un
altro aspetto che tengo a sottolineare è che queste narrazioni sono
lovecraftiane nei contenuti ma non nella forma, in quanto scritte con
uno stile molto più semplice di quello adoperato dal Maestro di
Providence. Uno stile, mai banale, che procede per sottrazione e non
per accumulo (mi
vengono in mente Robert Bloch
e Richard
Matheson),
accattivante e
coinvolgente,
che potrebbe indurre alla lettura anche chi (esiste questa gente
purtroppo…) non ama lo stile di Howard
Philips Lovecraft.
E veniamo ora al racconto apocalittico del noto critico letterario e musicale Cesare Buttaboni, La maschera di H. P. Lovecraft, che chiude il volumetto e che, per la sua ricchezza contenutistica, la forza delle idee e il modo in cui queste sono condotte, può essere considerato il pezzo forte del libro. Buttaboni, profondo conoscitore dell’opera letteraria e della biografia di Lovecraft, utilizza una forma letteraria particolare: compone un racconto/saggio che, attraverso l’invenzione fantastica, ci induce a riflettere sul valore dell’opera letteraria del Maestro di Providence.
Il
racconto inizia con l’articolo di un quotidiano di Lodi, Il
cittadino, in cui si parla della
morte per un malore
improvviso, in un appartamento di Londra, di Cesare Bergamini, un
giovane lodigiano. (Notare
l’assonanza del nome del protagonista con quella dello scrittore:
scelta divertita e coraggiosa). L’articolo
prosegue riportando due diari del giovane: il primo è stato scritto
a Lodi e il secondo a Londra.
Nel
primo diario Cesare Bergamini
racconta la sua passione per la musica progressive e dark, citando e
commentando una miriade di
musicisti e di nomi di dischi realmente esistenti, per
quanto oggetti di culto ascoltati da un numero ridotto di
appassionati. Dai Current 93
agli Jacula, passando
per molti altri. Con questo
espediente, che tornerà nel corso del racconto, Buttaboni
suggerisce al lettore la colonna sonora adatta per godersi il suo
racconto.
La
svolta della storia
avviene quando Cesare acquista dal
suo negozio preferito la ristampa in vinile del primo album dei H.
P. Lovecraft,
band psichedelica degli
anni sessanta realmente esistita, ed è tentato di ascoltarlo al
contrario, sperando di trovarvi inciso
un messaggio nascosto
come si dice abbiano fatto
tanti artisti del rock negli
anni sessanta e settanta, come i Led
Zeppelin o i Beatles.
Il
messaggio c’è! E che messaggio!
Fatto
suonare al contrario, il disco riporta un racconto orale niente poco
di meno che di Howard
Philips Lovecraft che,
dal suo letto di morte al Jane
Browne Memorial Hospital di Providence,
narra la propria esistenza dall’infanzia solitaria fino
agli ultimi giorni. Lo
scrittore confessa di non essere tanto lucido, sia per la sofferenza
causata dal tumore all’intestino, sia per la morfina che gli viene
somministrata. Infatti, per quasi tutta la durata del racconto,
Cesare – e il lettore
insieme a lui – ha il dubbio
se Lovecraft
stia raccontando eventi reali o fantasticherie dettate dal delirio
agonico/morfinico.
Infatti Lovecraft racconta di essere entrato in contatto con una setta esoterica, La Chiesa della Saggezza Stellare, che gli consegna il Necronomicon e gli comunica che il suo destino è rintracciare e procurarsi gli altri grimori maledetti: i Manoscritti Pnakotici, il De Vermis Mysteris, gli Unaussprechiliche Kulten e il Libro di Eibon (Tutti questi libri, nella realtà, raccontata dai biografi di Lovecraft e dallo scrittore stesso, non esistono se non nella immaginazione creativa di Lovecraft e di altri scrittori a lui sodali come Robert Howard e Clark Ashton Smith). Lo studio di questi grimori servirà a Lovecraft per comporre i propri capolavori letterari allo scopo di preparare, attraverso la creazione artistica, l’umanità all’avvento dei Grandi Antichi.
Quindi Lovecraft racconta del suo viaggio a New York, San Francisco, Londra e Torino per procurarsi questi libri maledetti mentre di notte fa degli stranissimi sogni, durante i quali l’entità misteriosa chiamata Azatoth gli fornisce oscure informazioni. Lovecraft dice di averle riportate in una serie di quaderni e utilizzate per scrivere un grimorio nuovo, Le cronache di Azatoth, e una serie di racconti che vuole restino inediti e che intende pubblicare solo in una edizione limitata per gli adepti della Chiesa della Saggezza Stellare.
Cesare
Buttaboni ci fa sognare,
tutti noi appassionati di Lovecraft,
immaginando l’esistenza di racconti inediti, anche
se sappiamo che è solo un’invenzione letteraria.
Il
racconto orale, inciso al contrario sul disco degli H. P. Lovecraft,
si conclude con una serie di esperienze in
altre dimensioni
vissute dallo scrittore di Providence
nei suoi ultimi giorni di vita.
Cesare, scioccato dalla rivelazione e sempre in dubbio sulla credibilità di quanto ha ascoltato, trova un annuncio su ebay in cui si vende una copia identica del disco, in un negozio di Londra, che si chiama, guarda caso, Starry Wisdom Press. Quindi Cesare va a Londra ed intraprende un viaggio realistico e onirico al tempo stesso, un percorso allucinato e allucinante raccontato nel secondo diario, in cui i Grandi Antichi si palesano come entità realmente esistenti la cui venuta è preparata dai Necromicon, oscura band musicale underground. E mi fermo qui per non fare ulteriore spoiler. Tutta la narrazione scritta da Buttaboni è inframezzata da parti in cui il protagonista Cesare parla non solo delle sue passioni musicali, citando e analizzando a iosa band e album, ma anche dei suoi interessi letterari. E anche qui leggiamo biografie e valutazioni critiche di tanti scrittori, realmente esistiti, che hanno fatto la storia del weird classico, da Arthur Machen a William H. Hodgson, passando per tanti altri.
Buttaboni unisce una notevole capacità affabulatoria alla sua competenza di critico e saggista per fornire, come già accennato, un racconto/saggio, quindi una forma particolare di narrativa in cui lo sfoggio culturale non attenua l’atmosfera angosciante e inquietante degli eventi che accadono al protagonista. Anzi: come nei racconti di Del Piano e Cattaneo l’ambientazione realistica, descritta ottimamente, fa sbocciare i fiori del fantastico, così, nel racconto di Buttaboni, la componente saggistica, svolta con precisione da erudita, esalta quella dell’invenzione weird.
E così abbiamo letto questi coinvolgenti racconti ricchi di espedienti narrativi perfettamente funzionanti e riuscite raffigurazioni di mostruose entità ancestrali.
Da notare i numerosi riferimenti autobiografici inclusi nei racconti da Roberto Del Piano, Andrea Cattaneo e Cesare Buttaboni. Questi autori non si limitano a usare i propri nomi per i protagonisti delle storie, ma includono anche aspetti personali delle loro vite, realizzando in tal modo una sorta di weird autobiografico.
Ultime informazioni che vi dò: la suggestiva copertina a colori con gattone sovrannaturale è di Gino Andrea Carosini che ha realizzato anche le illustrazioni interne in bianco e nero insieme a Roberto Mastroianni e Xothic.art: una per ogni racconto, costituiscono un valore aggiunto al libro.
Da segnalare inoltre il meritorio lavoro di editing di Laura Coci, che, immagino, si sia occupata anche della correzione di bozze. Neanche un refuso!
Quindi, in conclusione, per i motivi esposti, si consiglia la lettura di Gli appetiti di Trnt.Asy’ h h a tutti gli amanti di Lovecraft, del weird e della narrativa fantastica per scoprire il modo migliore di omaggiare un classico come il Maestro di Providence, ossia attraverso una scrittura fortemente originale e personale, non sterilmente derivativa, e la scelta (perché no?) di un’ambientazione italica.
GLI
AUTORI
Roberto
Del Piano, fin dal Sessantotto bassista elettrico tra impegno e
militanza, inizia da giovanissimo a suonare il pop nel contesto
milanese salvo poi innamorarsi del jazz. Attraversa oltre
cinquant’anni di musica italiana, registrando diversi album a suo
nome e con altri; La serie Saluti da Casa. Ho dato il mio sangue
alla musica, giunta al secondo volume, è il suo lavoro più
recente.
Da
qualche anno ha rinnovato un antico amore, la fantascienza; ha
collaborato a vari numeri della rivista Un’Ambigua Utopia,
pubblicato alcuni racconti e traduzioni e, insieme a Laura Coci,
è curatore dell’opera di Daniela Piegai e della collana Fantascienza resistente per Delos Digital; nel 2023 ha vinto
il Premio Italia nella categoria Miglior articolo su pubblicazione
amatoriale.
Andrea
Cattaneo scrive storie di genere fantastico ambientate in Europa,
prevalentemente fantascienza ma, ogni tanto, la curiosità lo spinge
ad esplorare nuovi generi e territori anche molto lontani dai suoi
abituali come il romance e il fantasy. Cerca di dare ai suoi lettori
storie divertenti che sfidino la loro concezione della realtà. I
suoi autori di riferimento sono Philip
K. Dick
e Murakami
Haruki.
Si occupa, per passione e lavoro, di quotidiani e riviste, di critica
letteraria, tecnologia e pop colture.
Cesare
Buttaboni nasce a Lodi nel 1971. Grande appassionato di Lovecraft,
collabora in rete con diversi portali e blog quali Horror
Magazine, Ver Sacrum, La TelaNera, Debaser e Planet
Ghost. Ha anche scritto saggi sul fantastico e Lovecraft
per le riviste Hypnos, Studi Lovecraftiani, e per i volumi di
Esescifi dedicati ad HPL. È inoltre un grande estimatore di
musica di vario genere, dal Progressive alla musica gotica e oscra.
Gli
appetiti di Trnt.Asy’ h h
Autori:
Roberto Del Piano, Cesare Buttaboni, Andrea Cattaneo
Editore:
Indipendently Published con marchio Dagon Press
Codice
ASIN: B0CDK8LJYS
Codice
ISBN-13: 979-8853749900
Pag.
124
Prezzo di coperina: 12,90
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