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– Il soprannaturale?, fece Mac Rovel, allontanando d’un colpo la caraffa di birra che aveva dinanzi e sulla quale aveva, fino a quel momento, chinato ogni tanto il pallido volto, in silenzio. – II soprannaturale? E chi può parlarne con cognizione di causa? Chi può dire, sinceramente, che c’è un limite tra quello che è e quello che pare? Chi ha ancora acquistato il diritto di distinguere la visione dalla realtà?
Robert Yung, il gobbetto scettico e maligno che gli sedeva di fronte, nella saletta del club, scrollò le spalle sbilenche ed ebbe un sorriso di superiorità sprezzante.
***
Anche noi altri che eravamo intorno, e che passavamo quella malinconica serata di novembre a inghiottire birra e a sputare paradossi, alla bianca luce delle lampade elettriche moltiplicate dagli specchi tutti in giro, avemmo un gesto di autentico, genuino stupore.
– Eh, via, Mac! Tu corri troppo, mi pare! – esclamò qualcuno. – Che diavolo! La visione è visione, non vi è alcun dubbio, e la realtà è…
– E’ realtà! – completò il gobbetto, con un grande scroscio di riso stridulo, che gli fece ballonzolare sinistramente il petto gibboso.
Mac Rovel tacque.
Tacque un istante guardandoci col suo chiaro sguardo tranquillo.
– No, amici, – disse poi con voce piana. – Non è così.
– Davvero?… – fece qualcuno con tono in cui si notava il sarcasmo pungente.
Mac scrollò le spalle e proseguì, senza rivolgersi a nessuno in particolare, ma gli occhi fissi alla parete di fronte, alle nostre spalle, quasi che attendesse da un momento all’altro di vedervi comparire un fantasma:
– Talvolta la visione è realtà… Talvolta quel che pare, è… E, forse, ciascuno di noi, nella sua vita…
– Tu hai qualche storiella da raccontarci! – saltò su Robert Yung, interrompendolo e agitando le lunghe braccia rachitiche, di ragno.
– Lo credi?
– Ma certamente! E lo dimostra il tuo esordio, che è una vera e propria preparazione… Un esordio strano, da brivido. Non puoi negarlo.
– Non è una storiella, – fece Mac, con una certa tristezza, quando Robert Yung tacque.
– E che cos’è allora?
– È un breve episodio, terrificante, della mia vita giornalistica: non quella di oggi, la tranquilla vita dell’ « articolista »; ma quella di due anni or sono, la vita febbrile, attiva, indiavolata del reporter.
– Ce la devi raccontare!
– Sì, così potremo ridere a crepapelle! – fece il gobbetto, rovesciando il corpicino all’indietro e accendendo una sigaretta: – Noi siamo tutt’orecchi!
Ma la frase sarcastica dell’amico non trovò eco: era, nel volto di Mac Rovel, un’espressione così strana di dolore, come un riverbero di una livida luce lontana, che noi tutti non osammo interrompere la pausa grave e solenne che passò in quel momento nella saletta del club, triste anch’essa nella triste sera di novembre.
UN DISASTRO FERROVIARIO
– E sia, – fece Mac, abbassando il capo, come per riconcentrarsi. – Ho parlato di visioni e di realtà e ho dubitato della linea di confine che separa le une dalle altre. Debbo, ora, darvi ragione del mio dubbio: ed è solo per questo che parlerò.
E Mac Rovel cominciò il suo racconto.
– Tre anni or sono – ero allora nel più brillante periodo del mio reportage, il reportage viaggiante – il direttore del mio giornale mi chiamò, una sera, mentre buttavo giù una noticina di cronaca cittadina, e mi disse, senza preamboli:
– Un dispaccio da Glasgow annuncia un disastro ferroviario. Uno scontro gravissimo allo sbocco di un tunnel: circa trecento morti. Dei vagoni di petrolio incendiati, una sessantina di feriti. Occorre che vi rechiate sul luogo del disastro. Partirete fra un’ora: telegrafate i primi particolari per l’edizione del mattino; tornerete domani nel pomeriggio per una più ampia descrizione nell’edizione della sera… Siate efficace…
Disse quest’ultima frase con l’imperiosa brevità di un duce che pronuncia, alla vigilia della lotta, la parola eroica che guiderà i suoi uomini alla morte e mi congedò.
Un’ora dopo ero alla stazione: alle due della notte giungevo sul luogo della catastrofe, armato del taccuino e della mia macchina fotografica.
Descrivervi quello che vidi, l’orrore della scena, illuminata dalle lampade degli operai che avevano appena iniziato i lavori di sgombro, i cadaveri sfracellati fra le assi spezzate e le lamiere contorte, gli ultimi bagliori dei vagoni di petrolio ammucchiati gli uni sugli altri, che finivano di ardere, è uno sforzo che non potrei fare.
D’altra parte, la collezione del giornale è là, e chi voglia rileggere le mie impressioni, non ha che a riscontrarla…
– La ricordiamo benissimo tutti, dissi io, con un lieve inchino amichevole.
Fece un gesto di ringraziamento e continuò, con voce piana, quasi sommessa.
IL CADAVERE APPARTATO
Ma uno spettacolo, soprattutto, mi colpì. In disparte, lontano dagli altri cadaveri, cinto dai frantumi del vagone postale, con le braccia distese e le mani dischiuse, quasi a proteggere ancora, dopo morto, i pacchi suggellati, che alcuni agenti di polizia piantonavano, giaceva, supino, un impiegato del personale viaggiante, l’addetto alla posta.
Giaceva in attitudine composta, tranquillo, come se dormisse: la luce di una fiaccola, che si proiettò su di lui, ne rilevò la serenità del volto, pallido, affilato, su cui i baffi neri disegnavano una macchia oscura, quasi lugubre. Solo, sulla fronte, era una ruga, diritta e profonda come la cicatrice di un colpo di spada: in quella ruga soltanto era tutto il supremo dramma dell’ultimo minuto, il dolore di morire, il rimpianto di lasciare, forse, dei figli.
Un signore, lì presso, un ingegnere delle ferrovie, o un ispettore, dava delle spiegazioni a un ispettore di polizia: l’indiscrezione che nei giornalisti è un diritto, mi spinse ad avvicinarmi e a unirmi ai due.
– Quest’uomo, – fece quel signore, accennando al ferroviere, – è l’unico del personale che sia morto, oltre al macchinista. Gli altri hanno avuto appena il tempo di gettarsi dal treno; qualcuno si è ferito. Il guardiafreni che si trovava accanto a lui, nel vagone postale, al momento dello scontro, e che ora è al più vicino ospedale, con una gamba fratturata, ha raccontato così la scena. Si era per uscire dal tunnel; il compagno, a un tratto, sporse il capo dallo sportello del vagone, e lo ritrasse subito, gridando:
– Un lume rosso!
Nello stesso tempo la locomotiva lanciava il suo fischio, rauco e acuto come un grido d’allarme come un urlo di terrore.
– Avvisa i viaggiatori e salvati! – gridò l’impiegato postale al guardiafreni.
– E tu? – gli rispose l’altro mentre si slanciava allo sportello.
– Io? Ho la responsabilità della corrispondenza! Io rimango!
E restò.
E, mentre i compagni, si gettavano pazzamente dagli sportelli e i viaggiatori, destati all’improvviso, cercavano di seguirne l’esempio, egli non si mosse, come ineluttabilmente legato a un fato al quale non voleva o non poteva sottrarsi.
Bianco, sereno, il volto del morto era come assopito in un lungo sogno; ma alla luce rossastra della fiaccola vicina, la ruga, sottile e profonda, pareva sanguinasse…
UN BACIO
L’alba imbiancava rapidamente il cielo e dava una fosca tinta di rame alla parete di fronte alla quale scrivevo, nel piccolo caffè della stazione.
Avevo scritto quattro o cinque cartelle, che mi sarebbero servite per il « pezzo di colore » della sera (avevo telefonato un intero servizio per la pagina del mattino, tre ore prima). Ma una specie di oppressione, ora, mi fiaccava i nervi e mi toglieva ogni forza di continuare a scrivere.
Era la stanchezza?
Era l’impressione ancora vibrante del mio animo, della tragica scena?
Una visione a poco a poco si ridestava in me, sempre più netta e sempre più decisa, con una persistenza strana: la visione del bianco volto di quel morto, e della ruga profonda e dolorosa che gli segnava il suo solco sulla fronte…
Chi era quell’uomo? Le mani dischiuse, scarne e brune, mani di operaio, mi tornavano alla mente, distese a tutela suprema delle cose affidate…
Alla crescente luce del giorno, l’ingegnere o ispettore, che fosse, entrò a prendere un cognac. E fu istintivamente, per impulso meccanico, che gli domandai, a bruciapelo:
– Come si chiama?
– Chi? – mi chiese stupito, deponendo il suo bicchierino per metà pieno.
– Lui, il ferroviere morto… quell’ufficiale postale… – dissi.
– Taylor, Roger Taylor. E di queste parti.
– Lascia moglie… figlioli?…
– Non so. Può darsi. Gli sventurati hanno sempre una famiglia da lasciare in lutto…
Il funzionario salutò e disparve.
Era tutto quello che ero riuscito a sapere di quell’uomo. E il pensiero della famiglia lontana, di una vedova, di poveri orfanelli perduti mi strinse il cuore amaramente.
Tornai sul luogo della sciagura.
Il morto era ancora là: era rimasto solo, nella bianca luce del mattino. Le sue mani erano ancora distese, scarne mani veglianti nella morte…
La voce interna, l’oscura voce istintiva mi parlò, allora, chiaramente:
« Serba una immagine tua, esclusiva, di lui ».
Misi la macchina fotografica a fuoco e feci scattare l’otturatore. Quella fotografia non l’avrei data, insieme alle altre, al giornale.
Poi mi chinai sul morto e lo baciai sulla fronte.
Volevo mandare quel ritratto alla sua famiglia. Ma per quanto facessi indagini non potei avere notizia di nessun parente del poveretto.
Il Taylor non aveva lasciato nessuno al mondo. Nessuno che lo piangesse, nessuno che s’interessasse di lui. L’unico che aveva avuto un pensiero pietoso per il povero morto, ero stato io. E il ritratto già pronto a essere spedito alla famiglia, rimase con me, e lo custodii nel mio portafoglio, come un sacro e triste ricordo…
IL SOPRANNATURALE
… Passò un anno.
Qui la voce di Mac Rovel divenne più grave, più lenta, più solenne, e negli occhi di lui si accese uno strano bagliore, mentre la mano che si agitava nel discorso aveva un lieve tremito.
– Nel maggio dell’anno seguente un principio di sommossa a Glasgow mi chiamava là per una serie di corrispondenze al mio giornale. Partii la sera del 24, con il treno delle diciassette e quaranta, il famoso « 1442 bis ».
La notte era alquanto fresca e i vetri degli sportelli erano chiusi. Solo, nel mio scompartimento di prima classe, sdraiato sul divano, avevo leggucchiato un libercolo di recente stampato e che si occupava di una questione di grande attualità: lo spiritismo.
Il silenzio, la solitudine, il movimento oscillante del treno mi avevano fatto scivolare a poco a poco il libriccino dalle dita e cominciavo ad assopirmi.
Sentii ancora, vagamente, i nomi di due o tre stazioni strillati dal personale viaggiante, poi più nulla.
Il « 1442 bis » correva, tutto nero, attraverso la campagna, si slanciava nei tunnel, ne usciva guizzando, e portava tutta una schiera di dormienti, lontano, nelle tenebre altissime…
Tutt’a un tratto un rumore mi scosse nel dormiveglia. Mi pareva che qualcuno avesse picchiato ai vetri dello sportello, leggermente.
Tesi l’orecchio.
Nulla.
Il movimento del treno aveva dovuto scuotere quei vetri; nulla di più naturale; che dianime!
Ma, dopo un momento, il rumore si ripeté: un rumore secco, deciso, nervoso, come di chi abbia fretta. Una fretta maledetta, improcrastinabile.
Schiusi gli occhi e mi levai a sedere.
Qualcuno era li dietro, nell’ombra della notte, che mi spiava.
Intravvidi un viso bianco, immoto e due occhi che mi fissavano…
IL FANTASMA
Saltai in piedi.
Corsi allo sportello e abbassai il vetro.
Nessuno!
In quel momento il treno infilava la nera bocca di un lungo tunnel.
– Allucinazioni! – dissi allora a me stesso, dando un calcio al libro, che aveva dovuto accendermi la fantasia.
Allucinazioni di chi ha letto insulsaggini in un’ora inopportuna…
E, per dare forza a me stesso, mi ricacciai nel mio cantuccio, e chiusi gli occhi, ostinandomi a riaddormentarmi.
Sentivo il rombo del treno che correva sotto la volta greve della galleria e mi pareva che quel passaggio fosse eterno, che non terminasse mai più.
Una strana sensazione opprimente pareva mi mozzasse il respiro: ma il letargo mi vinceva e non avevo la forza di scuotermi, di sottrarmi a quella oppressione.
Ancora un momento e mi sarei addormentato profondamente, lasciando dietro di me tutte le paure del sovrannaturale.
Mi passai la mano sulla fronte per vincere quel sonno di piombo, e, strana cosa, la mia mano era ghiacciata…
Istintivamente feci per muovere l’altra mano, per sentire se anch’essa mi facesse quell’impressione di freddo sulla fronte e mi accorsi che le mie mani, urtandosi erano tiepide…
E nessuna di esse io avevo mossa, durante il sonno, incrociate com’erano sul mio petto.
Trasalii: quella mano ghiacciata che mi aveva carezzate le tempie non era la mia!
Soffocai un urlo e mi drizzai in piedi.
Quell’uomo aveva le mani distese, come per difendere qualcuno da un pericolo, e il viso pallido era rivolto a me…
IL CADAVERE “REDIVIVO”
Sulla fronte, che il berretto da ferroviere lasciava a mezzo scoperta, una ruga diritta, profonda come una cicatrice disegnava il suo solco che pareva sanguinasse…
E la bocca scolorata di quell’uomo si agitò, e le labbra livide mormorarono qualche cosa…
Sì, io compresi che quell’uomo disse, senza che alcun suono uscisse da quelle labbra, ma chiaramente, distintamente, e in fretta:
– Un lume rosso!…
Venni preso da uno spavento agghiacciante.
– Chi siete? balbettai, poi in un eccesso di paura isterica, ripetei, ad alta voce: – Chi siete?… Da dove venite?… Che cosa volete da me?…
– Un lume rosso!… – ripeterono le labbra livide del fantasma.
– Oh, Dio, sto impazzendo!
– Non vi ricordate di me?…
– Voi… voi… siete…
– Io sono… – confermò l’apparizione.
– Ma come è possibile…
– Tutto è possibile… Vengo di là… dal grande Regno dei morti… dal mondo delle tenebre… Io sono colui che voi avete baciato…
Mi sembrava di impazzire. Tremavo come non avevo mai tremato in vita mia. Avvertivo, oltre che vederla, la presenza immateriale dell’uomo che era stato… dell’uomo di cui serbavo la fotografia nel mio portafoglio.
– Che… che… che volete… da me?…
– Sono venuto a salvarvi la vita…
– Come?…
– Un lume rosso!… Tra qualche istante avverrà la catastrofe… Sono qui per voi… Non ho dimenticato… Non dimenticherò mai…
– Ma…
– Attento!…
Un istante. Il tempo che dura un guizzo di folgore… E, con un urlo di terrore, spinto da una forza strana e invincibile, nello scompartimento dove non c’era più nessuno, mi avventai allo sportello, lo apersi e, senza riflettere, ciecamente, mi buttai giù, dal treno in folle corsa…
IL RITRATTO DEL MORTO
Quando, dopo pochi minuti, ripresi i sensi, mi trovai disteso sull’erba.
Ero incolume!
Per quanto possa sembrare assurdo, irreale, impossibile io ero incolume. Mi ero gettato da un treno ero rotolato lungo una che filava a cento all’ora, scarpata irta di sassi ed ero finito su di un prato senza nemmeno un graffio.
Mi trovavo su di un prato, ad appena due metri allo sbocco del tunnel.
Mi ero buttato appena in tempo.
Egli mi aveva davvero salvato la vita. Due volte: mi aveva sottratto all’immane catastrofe e mi aveva fatto raggiungere il suolo, illeso.
Ma a duecento metri di distanza, quale orribile, inimmaginabile spettacolo!
Enorme e sinistro cumulo, nella notte, i rottami del « 1442 bis » e quelli dell’altro treno col quale esso aveva spaventosamente cozzato, si confondevano.
I gemiti dei morenti echeggiavano, paurosi, fra quelle rovine.
Una delle più grandi catastrofi ferroviarie della storia europea; anzi, della storia mondiale. Una catastrofe che ha reso tristemente celebri la notte del 24 maggio e il disgraziato numero del treno investitore, era avvenuta, e io ero lì, vivo, senza una sola contusione, scampato per miracolo.
Fui tra i primi a portare la notizia al vicino paese e caddi subito dopo svenuto tra le braccia di quelli che mi circondavano. Poi, una forte febbre mi assali, ed ebbi il delirio per quattro giorni.
Guarito appena, e prima di ritornare a Londra, rassettai le mie cose e posi mano al portafoglio per saldare il debito con il mio ospite.
Tutto era a posto: ma il ritratto del morto era sparito.
Questo è il fatto, vero, reale, accadutomi, da me vissuto. Che cosa è, ditemi, ora, il soprannaturale?
Che cosa è la verità?
Nessuno di noi osò più aprir bocca. Lo scettico gobbetto era livido in volto e mi pareva tremasse per intima paura.
NOTE
Racconti horror rari riscoperti da Sergio Bissoli. “Il ritratto del morto” di Walter Buchman Jr., apparso in Italia nell’agosto 1962 sul numero 3 di “Terrore”, edito da Sansoni. L’autore è sconosciuto, forse italiano sotto pseudonimo.

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