A Different Man al cinema

Oggi esce nei cinema A Different Man, il nuovo film di Aaron Schimberg.

Sinossi
Edward, aspirante attore, si sottopone a un intervento medico radicale per trasformare drasticamente il suo aspetto. Ma il suo nuovo volto da sogno si trasforma rapidamente in un incubo, perché perde il ruolo che era nato per interpretare e diventa ossessionato dal desiderio di recuperare ciò che è stato perso.

Un thriller fuori dal comune
A Different Man di Aaron Schimberg, provocatorio e audace, racconta la storia di un uomo che si sottopone a una trasformazione radicale. Un thriller cupo e divertente che esplora il complesso rapporto tra chi siamo e come ci vede il mondo.
Il film segue le vicissitudini di Edward, un solitario newyorkese a cui viene offerta l’eccezionale opportunità di cambiare radicalmente l’aspetto del suo volto e quindi di rinascere a nuova vita. Tuttavia, questa svolta avrà conseguenze del tutto impreviste e anche se all’apparenza la sua esistenza viene completamente rivoluzionata, in realtà non sembra essere cambiato niente. Certo, fisicamente è diventato A Different Man, un uomo diverso, ha cambiato pelle per ricominciare da capo lasciandosi alle spalle una vita che non gli appartiene più, ma uno scherzo del destino gli impedisce di essere chi voleva diventare e viene travolto da una nuova realtà che diventerà presto un vero e proprio incubo.
Caratterizzato da un umorismo cupo e da una tensione paranoica degna di un grande noir, il film rivela una potente visione da parte del regista newyorkese Schimberg che non ha praticamente precedenti. Schimberg entra a pieno titolo nel novero dei cineasti americani che fondono con maestria la suspense comica con la ricchezza di idee tematiche e la voglia di raccontare storie che guardano il mondo da angolazioni diverse e inattese.
Per quanto destinato a diventare un classico, A Different Man di Schimberg sfida i limiti della narrazione come solo un film di oggi può fare. Ambientato in un mondo appena sopra le righe, in cui una procedura medica fittizia e inquietante permette di rimodellare la testa di un uomo, il film crea un’atmosfera intensa che rimanda a una miriade di riferimenti e storie di persone distrutte dall’immagine riflessa nello specchio: personalità perdute, maschere, imposture, doppioni ingarbugliati. La storia è intrisa della vertiginosa illogicità di un brutto sogno. Ma oltre ai brividi, sotto la superficie si cela un’esplorazione della bellezza, dell’attrazione, del successo, dell’apparenza e del concetto sfuggente di chi siamo veramente.
Quanto è malleabile il sé? Quanto è inseparabile dalle apparenze e dalle percezioni? Cosa deve cambiare davvero in una persona per modificare il suo destino? E cosa succede quando vediamo qualcun altro prendere il nostro posto nel ruolo che pensavamo sarebbe spettato a noi? Un turbinio di interrogativi alimenta il crescente senso di smarrimento che il film coltiva con cura, mentre l’invidia, il rimpianto, la gelosia e la frustrazione alterano il destino di Edward tanto quanto il cambiamento radicale del suo aspetto.
Schimberg scava nel profondo con svolte narrative precise e sferzanti, sovvertendo le aspettative in modo subdolo e offrendo dialoghi carichi di emozione. Il regista non nasconde il suo amore per i film di genere, una passione che si percepisce nei dialoghi comici e scoppiettanti e in uno stile cinematografico che esalta il noir e il buio della notte. Le pareti del suo ufficio sono tappezzate di poster degli innumerevoli horror della RKO di Val Lewton, di una bellezza inquietante. Ma per Schimberg, optare per un film di genere è semplicemente il modo più adatto per invitare il pubblico a intraprendere un viaggio incantato e a incontrare personaggi mai visti prima sullo schermo, per riflettere su chi siamo come esseri umani, come veniamo percepiti dall’esterno e cosa desideriamo al di fuori della nostra realtà.
Fin dall’inizio della sua fortunata carriera, Schimberg si dedica a esplorare le zone d’ombra, spesso controverse, del volto e delle sue sfaccettature, soffermandosi su ciò che implica per una persona essere bella (o bestia presunta) e su come lo sguardo della macchina da presa, spesso espressione di desiderio, riesca a superare questi preconcetti. Non a caso, il suo film precedente, Chained for Life, è stato definito “un film fondamentale sulla rappresentazione di quei gruppi che Hollywood preferisce tenere a distanza”.
Con A Different Man Schimberg utilizza questi temi non solo per costruire la suspense, ma anche per affrontare il nodo della natura precaria dell’identità, per stimolare una difficile conversazione sulla rappresentazione vera e fasulla e per ridere della nostra perenne ossessione a inseguire qualcosa che non abbiamo (e che magari un tempo avevamo).
“Non è un argomento facile da affrontare in una conversazione e lo è ancora meno in un film, che è soggetto dal punto di vista commerciale ai più elevati standard di bellezza”, ammette lo sceneggiatore e regista.
Per Schimberg il tema è profondamente personale. Lui stesso ha sofferto di labbro leporino (labiopalatoschisi) bilaterale ormai corretto, un’esperienza che ha lasciato il segno sul suo modo di vedere il mondo. “Tra le deturpazioni facciali, la mia è una delle più comuni, eppure ho visto solo rappresentazioni negative o offensive di persone come me. Mi sono sempre chiesto: come posso rappresentare una persona come me in modo positivo o almeno realistico e in linea con la mia esperienza?”.
Inizialmente, quando si è seduto a scrivere A Different Man, Schimberg pensava a una rivisitazione de Il dottor Jekyll di Rouben Mamoulian, il grande classico horror “Pre-Code” del 1931, incuriosito dal senso di liberazione che si prova quando ci si perde in un personaggio. “Pensavo a una storia in cui un uomo sfigurato guarisce per qualche ora ogni notte e si gode la vita come una persona normale”, racconta il regista. “Anche se quest’idea si è rivelata poco fattibile, il concetto di fondo mi è rimasto comunque in testa”.
Poi Schimberg è rimasto affascinato, per quanto improbabile possa sembrare, dalla commedia drammatica Wonder del 2017, interpretata da Julia Roberts e Jacob Tremblay, che racconta la storia di un ragazzino che si trova a fare i conti, sui banchi di scuola, con le malformazioni cranio-facciali della sindrome di Treacher Collins. Non essendo uno che si ferma alle apparenze, Schimberg ha iniziato a chiedersi se non ci fosse una storia più profonda nascosta dietro al famoso best-seller per ragazzi di R. J. Palacio che ha ispirato il film.
“Narra la leggenda che l’ispirazione le sia venuta un giorno mentre era in gelateria insieme a suo figlio”, racconta Schimberg, riferendo l’aneddoto spesso raccontato dall’autrice Palacio. “Videro un bambino dall’aspetto strano, suo figlio si spaventò e lei si rese conto di non avere la più pallida idea di come gestire la situazione, un’esperienza che la portò a dubitare delle sue capacità di essere genitore e perfino dei suoi valori morali. Così decise di scrivere il libro per dire alla gente che quando vedi qualcuno dall’aspetto sfigurato, magari ha una personalità assolutamente fantastica.”
Spinto dalla sua innata curiosità, Schimberg sentiva il bisogno di saperne di più e di scoprire cosa provava quel ragazzino sfigurato nella gelateria, che è diventato così una musa suo malgrado.
“Pensavo a come si sarebbe sentito quel bambino se fosse andato al cinema e si fosse ritrovato a guardare il trailer di un film in cui c’è un bambino che gli assomiglia, interpretato da un bambino che in realtà non gli assomiglia per niente”, spiega Schimberg. “Vede insomma la sua vita come se la immagina quella mamma che è rimasta turbata dal suo aspetto. È stato allora che ho iniziato a pensare a un film su un uomo che sospetta che la sua vita sia lo spunto di un fenomeno in stile Wonder. È praticamente sicuro che la storia sia basata su di lui, ma nessuno gli crede”.
Quando Schimberg ha tirato le fila di queste idee disparate sono nati Edward, l’attore newyorkese la cui faccia cambia completamente grazie a un farmaco sperimentale, e il suo alter-ego Guy, attore molto fotogenico e stella nascente del palcoscenico rimasto a lungo nell’ombra ma finalmente sul punto di farcela. Per quanto sia efficace la sua radicale trasformazione esteriore, Guy continua a sentire la necessità di sostituire il suo nuovo volto bello e carismatico con una maschera che simula il suo aspetto precedente, oscillando tra due identità, incapace di convivere con sé stesso o meglio con i suoi due sé. Come se non bastasse, il destino ha in serbo uno scherzo crudele: la sua nuova vita comincia ad andare a rotoli, mentre l’attore sfigurato che lo interpreta in uno spettacolo teatrale ottiene un successo straordinario.
Schimberg racconta che, mentre scriveva la sceneggiatura, un altro episodio che lo ha portato a riflettere ancora di più sulle conseguenze indesiderate per chi si prefigge di cambiare radicalmente la propria vita. Ricorda infatti di aver incontrato una vecchia conoscenza che gli sembrava completamente diversa da come se la ricordava. Questa donna gli ha spiegato che aveva deciso di dare una svolta alla sua vita adottando una personalità completamente diversa e liberandosi una volta per tutte della timidezza, che un tempo la rendeva adorabile, per adottare uno stile più aggressivo. Gli ha detto che non voleva più essere considerata una persona arrendevole, perché la cosa rappresentava un ostacolo sul piano personale e professionale.
Schimberg è rimasto sbalordito pensando che quella donna aveva deciso di rinunciare ad alcuni aspetti di sé che invece secondo lui la rendevano attraente. “Mi sono chiesto cosa ci stesse guadagnando e cosa ci stesse perdendo”, riflette Schimberg. “E poi, lei chi era in realtà? Era entrambe le versioni? Nessuna delle due? E poi mi sono chiesto se io sarei riuscito a cambiare così radicalmente la mia personalità”.
Tutti gli elementi inquietanti di A Different Man hanno cominciato così a prendere forma. L’esistenza ansiosa e complicata di Edward prima della trasformazione. Il suo appartamento angusto e squallido, con una perdita dal soffitto che continua inesorabilmente a ingrandirsi. Una misteriosa e seducente vicina di casa che improvvisamente si interessa a lui in modo civettuolo, diventando la sua unica amica e dando una svolta alla sua vita. Un miracolo della medicina moderna che gioca con le sue fantasie di reinvenzione di sé, che comporterà però conseguenze impreviste. E l’occasione per Guy, appena nato, di brillare nel ruolo di protagonista della sua vita, un ruolo che crede di essere l’unico al mondo in grado di capire davvero.
Poi arriva il sorprendente terzo personaggio del film, l’uomo che spinge la storia in una dimensione ancora più complessa e stratificata, in un’irresistibile stanza degli specchi dove l’uno si riflette nell’altro: Oswald, un altro attore affetto dalla stessa patologia ma così straordinariamente sicuro di sé, talentuoso e autentico da rubare rapidamente e inequivocabilmente la scena a Edward. Quando Oswald assume il ruolo di Edward, diventando una star amatissima, Guy finisce in una spirale distruttiva che avrà su di lui un effetto devastante.
“In un certo senso, Edward viene privato della sua identità due volte”, spiega Schimberg a proposito del colpo di scena che dà la svolta al film. “E allo stesso tempo, diventa una sorta di impostore che si confronta con qualcosa di vero e autentico. C’è una sorta di passaggio del testimone, dagli attori che recitano fingendo la disabilità ad attori disabili che recitano il ruolo che vogliono recitare”.
Il cinema si è sempre prestato a sondare l’abisso tra l’apparenza e l’identità interiore, tra la finzione e la lacerante verità, e A Different Man appartiene a una piccola ma vitale tradizione di film sulla totale ricostruzione del viso. L’elenco comprende film intramontabili come il classico horror Occhi senza volto di Georges Franju, la parabola sul trapianto di faccia di Hiroshira Teshigahara, lo straziante thriller fantascientifico degli anni ‘60 Operazione diabolica di John Frankenheimer, il thriller d’azione degli anni ‘80 Face/Off – Due facce di un assassino di John Woo e La pelle che abito di Pedro Almodóvar, favola di un chirurgo che fa esperimenti su un prigioniero nel suo scantinato.
Ma per quanto strizzi l’occhio ai suoi predecessori, A Different Man prende una direzione nuova e audace, analizzando le radici del pregiudizio legato all’aspetto del volto a mano a mano che il pubblico segue la storia di Edward.
L’ambizione senza compromessi, la sceneggiatura decisa e i grandi rischi strutturali e tematici del film hanno immediatamente attirato l’attenzione di Christine Vachon della Killer Films, la leggendaria produttrice il cui lavoro pionieristico è cominciato con un primo lungometraggio, Poison di Todd Haynes del 1991, pietra miliare del cinema queer. Quando la Killer Films ha deciso di collaborare con Vanessa McDonnell, produttrice e partner di lunga data di Schimberg, il progetto ha cominciato rapidamente a prendere forma. Ora la questione era trovare tre attori audaci e coraggiosi, uno dei quali difficilmente riconoscibile.

Indossare la maschera: Il casting
Uno dei primi sostenitori della sceneggiatura di Schimberg è stato l’attore Sebastian Stan, noto ai fan dell’Universo Marvel come il Soldato d’Inverno ma straordinariamente avventuroso nella scelta dei ruoli, che lo hanno visto spaziare da Jeff Gillooly, l’ex marito criminale e poco sveglio in Tonya, al batterista dei Mötley Crüe Tommy Lee in Pam & Tommy e al chirurgo cannibale in Fresh. Fin dall’inizio Stan si è tuffato anima e corpo in A Different Man partecipando sia come produttore che come attore nei due ruoli principali del film, strettamente legati ma ognuno con le sue diverse ansie esistenziali. Edward è squisitamente timido ed emotivamente riservato, mentre Guy, bello e di successo, nasconde dietro al fascino apparente una grande insicurezza e diventa sempre più alienato.
Per Stan recitare nei due ruoli ha comportato una serie di difficoltà. Per prima cosa, durante le riprese ha dovuto indossare protesi facciali ingombranti in una torrida estate newyorkese. Inoltre, ha dovuto scavare nella psiche fragile e complessa di un uomo la cui smania di cambiare vita lo porta a scivolare in una spirale inattesa di crisi e autodistruzione. Stan si è buttato a capofitto nel ruolo. “Sebastian ha capito che questo il film era perfetto per lui appena ha letto la sceneggiatura”, racconta Schimberg. “Non ha mai avuto alcun dubbio al riguardo.”
Stan parla della sceneggiatura di A Different Man come di qualcosa di diverso, qualcosa in cui non si era mai imbattuto, e sottolinea quanto sia raro che gli vengano sottoposti progetti di questo tipo. “Nessuno mi manda mai niente del genere”, dice. “Negli ultimi cinque anni o giù di lì, mi sono davvero orientato verso cose che mi sembrano sfidanti, che contengono un elemento di trasformazione. E non parlo solo di trasformazione fisica: a livello emotivo questo film rappresentava un territorio inesplorato per me. Come attore, ovviamente, è sempre preferibile perdersi nello specchio”.
Se si chiede a Schimberg, però, c’è qualcosa di ancora più profondo e psicologicamente affascinante nell’attrazione di Stan per il ruolo di Edward/Guy. “Sentivo che Sebastian avrebbe saputo esprimere una parte tormentata di sé che altri ruoli non gli hanno permesso di mostrare”, dice il regista, che è rimasto molto colpito dal totale coinvolgimento dell’attore. “Sebastian viene giudicato per il suo aspetto. Lo capisci quando cammini per strada con lui. La gente lo vede e proietta su di lui certe cose. E, naturalmente, molte persone ritengono che questa sia una cosa positiva, qualcosa a cui ambire. Ma essere famosi, essere belli in modo classico, può anche essere limitante”.
Con un consiglio insolito ma illuminante, Schimberg ha detto a Stan di considerare la sua fama come una via per esplorare l’oggettificazione sociale che Edward vive sulla sua pelle quotidianamente. Ricorda Stan: “Aaron mi ha detto: ‘Dovresti concentrarti su come ci si sente a essere una celebrità’. Non avrei mai pensato di affrontare la questione da questo punto di vista, ma lui mi ha detto: ‘Tu sai cosa vuol dire sentirsi costantemente sotto gli occhi di tutti’”.
Per comprendere meglio l’esperienza di Edward, Stan si è consultato con uno specialista di neurofibromatosi dell’Università di New York e ha assorbito le testimonianze personali di coloro che convivono con le deformità facciali. Il contributo più prezioso per rappresentare Guy, dice Stan, è arrivato da una conversazione con Elna Baker, la scrittrice e podcaster di This American Life, che pesava 265 chili al college e poi ne ha persi 110 in una clinica. Gestire il lato positivo del suo nuovo aspetto è stato più complicato di quanto avesse immaginato.
“Elna mi ha raccontato in modo molto onesto ciò che le è accaduto quando si è ritrovata a vivere nel mondo con l’aspetto di una persona come le altre”, dice Stan. “La sua identità è andata perduta, anche se all’inizio le sembrava di aver guadagnato qualcosa di enorme, una libertà che forse non era mai esistita. Ma questa situazione si è trasformata rapidamente in qualcosa di monotono. C’è stato un vero e proprio picco emotivo, come sulle montagne russe e come accade a Edward quando diventa Guy, e poi c’è stato un crollo”.
L’unico personaggio di A Different Man che conosce sia Edward che Guy – anche se non ne è consapevole – è Ingrid. La incontriamo per la prima volta come la nuova vicina di casa di Edward, una persona sorprendentemente avvicinabile e allegra che porta nella sua vita una gioia inattesa e quasi fastidiosa quando si confida con lui e condivide le sue speranze di diventare una drammaturga. Anni più tardi, dopo aver scritto un’opera teatrale ispirata al modo in cui vedeva Edward, Ingrid diventa la regista di Guy e si sente attratta dall’attore belloccio che sembra comprendere, in modo misterioso e intuitivo, il dolore di un personaggio basato sul suo amico di un tempo improvvisamente scomparso.
Schimberg e Stan avevano entrambi visto di recente l’interpretazione della norvegese Renate Reinsve in La persona peggiore del mondo e, per pura coincidenza, avevano entrambi pensato di scritturarla. Schimberg si chiedeva se valesse la pena provarci, visto che l’attrice era molto richiesta, ma Sebastian non ha avuto esitazioni: “Vale sempre la pena provarci, se è quello che vuoi”. Così le hanno inviato il copione e, pochi giorni dopo, lei ha detto di sì. “Mi ha talmente colpito la sua interpretazione in quel film”, ricorda Stan. “Ho pensato che avremmo dovuto chiamarla. E lei ha accettato”.
“La sceneggiatura mi è piaciuta da subito”, racconta Reinsve a proposito di quello che sarebbe diventato il suo primo film in inglese. “Non conoscevo affatto Aaron, ma mi piaceva il fatto che attingesse all’umorismo nero in maniera insolitamente tenera. E poi, quando ho visto Chained for Life, ho pensato: questo modo di fare cinema è proprio diverso. Mi piace partecipare a progetti che affrontano questioni interessanti”.
Schimberg ritiene che il ruolo di Ingrid sia quello più difficile del film ed è molto felice di aver trovato un’attrice all’altezza della situazione. “Credo che Renate abbia molto apprezzato il fatto di essere l’unica custode dei segreti di Ingrid”, dice il regista. “Un momento è seducente, poi è sarcastica, poi è sprezzante, poi è insicura. Entra nell’appartamento di lui e finisce per restare molto più del dovuto. La volta successiva, se ne va bruscamente. Come può la stessa persona essere tutte queste cose? Renate è riuscita a trovare la quadra. È anche una grande attrice comica e non ha si tira mai indietro”.
“Vedo Ingrid come una persona che cerca di trovare la sua strada nella vita”, racconta Reinsve, “ma come una vera norvegese, si vergogna e non crede veramente in sé stessa”.
È un tratto tipico dei norvegesi? “Oh, sì”, conferma. “In America ti dicono per tutta la vita che puoi essere quello che vuoi. In Norvegia, invece, ti dicono per tutta la vita che non sei meglio di nessun altro e che sei solo un elemento di un gruppo – il che, per certi versi, è positivo ma è anche limitante. Forse è venuta in America per trovare la fiducia necessaria per fare qualcosa. E poi, quando si trova davanti alla macchina da scrivere, riesce a cogliere un barlume della vita di Edward, che fa suo”.
Reinsve ha colto appieno la vorace smania di legami e la curiosità impulsiva di Ingrid, aspetti di cui ha dato prova in maniera eccellente in La persona peggiore del mondo.
“Ingrid è molto insicura e credo che ritrovi la stessa insicurezza in Edward, con cui si sente al sicuro”, dice Reinsve. “Credo che sia innamorata di Edward, ma non riuscirà mai ad ammetterlo a sé stessa, a causa dell’idea preconcetta della persona di cui pensa che dovrebbe innamorarsi. È questo che alimenta ciò che scrive su Edward. E quando incontra Guy, non capisce perché la sua interpretazione la colpisce così tanto, ma noi, il pubblico, sappiamo benissimo quale è il motivo. Accade tutto in maniera inconscia tra loro”.
La storia d’amore a tratti ironica tra Edward/Guy e Ingrid si trasforma in una sorta di “La bella e la bestia” al rovescio e allo stesso tempo si addentra nella difficile realtà odierna dell’identità performativa e della confusione sessuale. Ma a mettersi di traverso è la creazione più radicale di Schimberg: Oswald, l’attore che assomiglia a Edward ma che ha una tale disinvoltura da rubare la scena a tutti.
Schimberg ha scritto la parte di Oswald pensando alla star di Chained for Life, Adam Pearson. Arguto, di origine britannica e affetto da neurofibromatosi, Pearson si è fatto notare da Schimberg grazie allo straordinario debutto a fianco di Scarlett Johansson nel film fantascientifico Under the Skin di Jonathan Glazer.
“Avevo sentito che le sue scene erano improvvisate, quindi non sapevo che tipo di attore fosse davvero Adam”, ricorda il regista. “Ma quando l’ho incontrato, ho scoperto subito che è molto estroverso. Si trova a suo agio ad essere al centro dell’attenzione, è incredibilmente affascinante, molto acuto, una specie di uomo del Rinascimento. E ho anche scoperto che era in grado di fare cose più complesse rispetto a Chained for Life. Così mi è venuta voglia di scrivere un ruolo che mettesse in evidenza tutto il suo repertorio, una sorta di omaggio al suo talento”.
Pearson, presentatore della BBC e attivista per la disabilità, dice di essere entrato nel mondo della recitazione quasi per scherzo, presentando la sua candidatura per il film di Glazer: “È andata tremendamente bene o tremendamente male, dipende a chi lo chiedi”, dice ridendo.
La collaborazione con Schimberg ha dato vita a un ruolo di cui è particolarmente orgoglioso. “Questo personaggio è il più simile a come sono io lontano dalle luci del bellissimo carrozzone da circo che è l’arte”. Pearson dice di Oswald: “Aaron sa come scrivere per me e sa come sono nella vita reale. È sempre un bene ampliare la propria gamma di personaggi – come attore disabile, si corre il rischio di finire a recitare sempre la stessa parte. È stata una vera gioia partecipare a questo progetto e ritrovare tutta l’allegra brigata”.
L’attore è curioso di vedere quali spunti di conversazione susciterà A Different Man. “L’identità è un argomento così profondo e ricco con cui giocare, dal punto di vista narrativo”, dice. “Chi siamo dal di fuori? E chi siamo invece dentro? E cosa succede quando questi due mondi non procedono di pari passo? Non sono un grande fan del cinema che guida il pubblico per mano. Penso che gli spettatori siano molto più intelligenti di quanto si creda e questa cosa Aaron la sfrutta al meglio”.
Schimberg descrive il suo legame con Pearson in termini particolarmente teneri e lo descrive come una persona che lo ha colpito nel profondo. “Adam ha cambiato il mio modo di vedere il mio volto sfigurato, perché io ho sempre vissuto nel timore del giudizio degli altri”, dice il regista. “Ho sempre provato un senso di vergogna. Adam invece assume il controllo di come vuole essere percepito. E questo mi ha cambiato. Senza di lui letteralmente non esisterebbe A Different Man. Se Adam non avesse voluto farlo con me, non avrei mai neanche provato a realizzarlo”.
Dice Renate Reinsve di Pearson: “Adam è davvero divertente, è molto intelligente e comunica una grande energia. Quando entra in una stanza è lui a calamitare l’attenzione, ma è anche una persona profondamente umile. Ci siamo divertiti tantissimo insieme”.
Il rapporto carico di tensione tra Guy e Oswald, una miscela instabile fatta di vicendevole riconoscimento, di risentimento e di dubbi sulle scelte del passato, ha generato un’atmosfera elettrica sul set ed è stato la chiave di volta per arrivare all’effetto che Schimberg si proponeva di creare.
“Alla fine del film, hai la sensazione che Sebastian Stan sia geloso di Adam Pearson. Lo capisci. Lo senti”, dice Schimberg. “Ed è qualcosa che non credo si sia mai visto prima”.

Solo a New York: Trucco, riprese, musica e una scena di sesso indimenticabile
Teso come una corda, senza un fotogramma fuori posto, A Different Man evoca la sensazione inquietante e vertiginosa di un incubo assurdo che diventa sempre più angosciante. Schimberg ha cercato di creare un’atmosfera senza fronzoli, leggermente straniante ma avvolgente in ogni elemento della produzione, dalla colonna sonora ricca e ossessionante del compositore Umberto Smerilli alla fotografia in Super 16 millimetri del direttore della fotografia Wyatt Garfield. Il film è stato girato in 22 giorni nel luglio del 2022 e le riprese si sono svolte esclusivamente nell’East Village, l’Upper West Side e alcune zone di Brooklyn, riuscendo a tirar fuori la bellezza più ruvida e noir di New York anche grazie alla scenografa Anna Kathleen.
Fin dall’inizio Schimberg sapeva che avrebbe girato su pellicola, come ha fatto nei suoi film precedenti. “Ti costringe a essere pieno di risorse”, dice il regista. “Ci sono registi che usano magnificamente il digitale, ma io passerei al digitale solo se avessi una ragione estetica per farlo. Il mio istinto naturale mi porta sempre a usare la pellicola. Ne capisco la meccanica e so come utilizzarla”.
Un elemento nuovo per Schimberg era l’uso importante, creativo e sfaccettato delle protesi, sia per creare il personaggio di Edward che nell’ambito dell’opera teatrale che Ingrid ha scritto su di lui. Schimberg era determinato a far sì che il trucco di Stan fosse allo stesso tempo ricco di dettagli realistici dando però al pubblico qualche indizio, per quanto sottile. Il volto di Edward doveva non solo essere convincente ma anche rivelare, in un processo lento e terrificante, le fattezze di Guy che erano nascoste sotto la superficie. E poi, quando l’Oswald di Pearson arriva in scena, anche il suo volto doveva essere un richiamo a Edward.
“Edward doveva assomigliare ad Adam in modo tale che quando lui e il pubblico vedono Adam, è chiaro a tutti che è un richiamo a sé stesso”, dice il regista. “Questo aiuta a creare l’idea che Edward sia un impostore. Si sente messo da parte da qualcuno di più reale”.
È stato un azzardo affidare al trucco gran parte dell’energia tematica del film, ma non c’era altra scelta. Ripensando ai rischi che questo poteva comportare, Schimberg ride: “Non ho mai pensato troppo a fondo a come avremmo realizzato il trucco e la produzione del film è andata così in fretta che avrebbe potuto essere un vero disastro, il progetto avrebbe potuto naufragare. Ma a fare la differenza è stato Sebastian che ha pensato di coinvolgere Mike”.
Stan ha fatto subito il nome dell’artista che ha poi realizzato i complessi design delle maschere a tempo di record: Mike Marino, due volte candidato all’Oscar® e responsabile delle magie del trucco in The Batman, Il principe cerca figlio e The Irishman.
Marino è rimasto affascinato dall’audacia del progetto. “Mi è piaciuta molto la sceneggiatura”, afferma, e poi cita The Elephant Man di David Lynch, film famoso per i grandi effetti del trucco, dicendo che è stato il primo film che ha visto. “Avevo tipo quattro anni o giù di lì”, racconta. “Quel film mi ha colpito così tanto da bambino che solo molti anni dopo ho capito che si trattava di trucco basato su una persona reale. Quando sono cresciuto, mi sono reso conto di quanto fosse bella quella persona. L’empatia per il personaggio inizia dal momento in cui lo vedi. E ho provato la stessa cosa per la storia di Sebastian e Aaron”.
Dopo aver parlato con Stan, Marino ha accettato di partecipare al progetto. E spiega: “Per me il punto di partenza doveva essere l’intensità emotiva. Nel momento in cui vedi questa persona, devi essere completamente assorbito dal suo punto di vista. E loro erano molto aperti alle idee che avevo su come avrebbe dovuto e potuto essere”.
“Mike ci ha fatto davvero un favore, lanciandosi in questo progetto”, racconta Stan, “perché in quel periodo stava girando anche La fantastica signora Maisel. C’erano spesso giorni in cui dovevo andare a casa sua alle cinque o alle sei del mattino e lui mi truccava per primo, per poi andare sull’altro set. E poi passavano ancora tre, quattro ore prima di iniziare a girare”.
Per quanto si cercasse di velocizzare, l’applicazione del trucco di Stan richiedeva diverse ore, per cui non era possibile rimuoverlo durante un’intensa giornata di riprese di 16 ore, ognuna delle quali era caratterizzata da molteplici set. Per cercare di rendere ancora più autentica la sua performance, Stan ha iniziato a girare per le strade di New York completamente truccato per sondare le reazioni degli sconosciuti. “È stato molto importante per me vivere l’esperienza di uscire per strada e sentire l’energia che si muoveva intorno a me”, dice Stan. “Mi ha aperto gli occhi in molti modi”.
L’attore è andato alla sua caffetteria abituale, dove non è stato riconosciuto e la maggior parte dei clienti ha evitato il contatto visivo. “L’unica persona che mi si è avvicinata è stata una bambina”, ricorda l’attore. “C’era una bambina che giocava con sua madre e aveva, non so, forse sei anni. Si è avvicinata e mi ha detto: “Ma cosa ti è successo?”. Poi anche la madre è venuta da me e mi ha detto: ‘Mi dispiace tanto’”.
Marino ha capito bene perché Stan voleva uscire dal set ed entrare nel mondo reale, oltre che per testare l’efficacia del make-up e delle protesi: “Gli attori sono così abituati a essere adorati che molti di loro, in base alla mia esperienza, vogliono camuffarsi con il trucco”, dice Marino. “Anche Ryan Gosling ha sempre voluto avere il naso rotto o qualcosa del genere. Mi chiamava e mi diceva: ‘Possiamo fare questo? Proviamo anche quello’. Vogliono alterare il loro aspetto, ma non solo per nascondere la bellezza, penso sia più questione di capire come ci si sente a essere normali, perché essere una star non è la normalità”.
Stan ha fatto tesoro delle diverse emozioni che ha provato andando in giro per New York nei panni di Edward, che si sono riversate in ogni aspetto della sua performance. “Sentivo l’enorme responsabilità di capire il più possibile della sua situazione. Mi creava molta ansia l’idea di fare qualcosa che fosse così distante da me”.
Nonostante ciò, e nonostante il ritmo serrato del film, ad accompagnare la produzione c’era un grande spirito cameratesco. “Eravamo tutti molto in sintonia e ci siamo divertiti molto sul set”, racconta Reinsve.
Questo sentimento di fiducia reciproca portava tutti a dare il meglio di sé. Ciò è particolarmente vero per una delle scene più calde del film, quando Guy e Ingrid fanno sesso ma lui indossa una maschera da Edward, su insistente richiesta di lei. È un momento di grande potenza che è allo stesso tempo intriso di humor nero e carico di tensione, perché la storia si fa sempre più ingarbugliata e scivola verso una spirale di confusione emotiva riguardo all’identità e alla paura.
Di quella scena Reinsve racconta: “Provo una sorta di amore e odio per la frase di Ingrid: ‘Mettiti la maschera. È una mia creazione”. È così…”. L’attrice si interrompe e ride. “Penso che in quel momento lei si trovi esattamente in bilico tra il desiderio di giustificare quello che sta facendo con lo spettacolo teatrale e quello di tornare a qualcosa di reale, di vero. Ma visto come è arrivata a trovarsi in questa situazione, non può essere sincera. Quindi si sente persa”.
Stan ricorda la scena di sesso come psicologicamente impegnativa, anche se ammette che dovrebbe sempre essere così. “Le scene di sesso sono sempre molto difficili perché si vuole arrivare a un’intimità autentica senza esagerare ma senza troppe esitazioni”, spiega. “E questa scena di sesso ha 50.000 strati, capisci? Ti fa uscire di testa se ci pensi: ‘Mi chiedi di indossare una maschera. Ma allora cos’è che vuoi veramente?”. La maschera permette a entrambi di rilassarsi per un momento prima che tutte le altre idiosincrasie si insinuino nelle loro teste”.
Persino l’autore della scena non ha colto appieno l’intensità del momento finché non l’ha visto durante le riprese con Stan e Reinsve. “Durante quella scena il set era chiuso, ma io ero sdraiato sul pavimento sotto il letto e guardavo il monitor. Quando Sebastian è sceso dal letto, mi è passato sopra. Era tutto come nel copione, ma è stato solo mentre ero lì per terra a guardare la scena che ho iniziato a pensare: ‘Certo che questa scena è pazzesca. Che diavolo sta succedendo davvero?”. Schimberg ci ha riflettuto: “Magari Ingrid sta pensando a Oswald, che ha appena visto per la prima volta, o magari sta pensando a Edward, che le manca, o magari sta pensando di fare l’amore con il personaggio della sua commedia, non è affatto chiaro a cosa sta pensando. Neanche io sono riuscito a capirlo”.
Quando gli si chiede di dare una spiegazione, Schimberg rivela l’obiettivo che si cela dietro la regia ipnotica che fa restare vivi i personaggi e le idee di A Different Man ben oltre la fine del film. “Quando si ha a che fare con questo tipo di argomenti, bisogna escogitare la strategia giusta per cogliere il pubblico di sorpresa”, dice. “È così che si sollevano domande e si stimolano conversazioni più profonde su ciò che si è appena vissuto. Ed è quello che mi piace fare con i miei film”.

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Disponibile Roma De Profundis di L. Filippo Santaniello

In una Roma flagellata dal maltempo e da decenni di incuria e cattiva amministrazione comunale, si intrecciano le vite di un giovane regista alla sua opera prima, di uno sfortunato avvocato che lotta per uscire da una voragine stradale e di un esuberante musicista rock alla continua ricerca di goderecce avventure notturne.
Un romanzo horror “all’amatriciana”, in cui personaggi in apparenza comuni affrontano una serie d’esilaranti e straordinari eventi in una minacciosa cornice metropolitana.

In una Roma flagellata dal maltempo e da decenni di incuria e cattiva amministrazione comunale, il regista Giuseppe Castaldi evoca involontariamente un demone africano che s’impossessa dell’anziana attrice Maria Velia Delle Donne, trasformandola in una creatura sanguinaria. Mentre Giuseppe prova a salvare Maria Velia rivolgendosi a una strega dedita al vuduismo che vive in condizioni d’assoluta indigenza in un palazzo popolare a Centocelle, il giovane avvocato Rosario Salvucci perde il cellulare in una buca stradale. Sceso nel sottosuolo per recuperarlo, non riesce a tornare in superficie e, cercando un’uscita dalle fogne, s’imbatte in un inconfessabile segreto capitolino. Quando riemerge non è più lo stesso. Ha una missione da compiere. Una missione che lo porta a incrociare la strada di Giuseppe, alle prese con l’attrice indemoniata, e quella di Damiano Riccesi, esuberante musicista rock sempre in cerca di goderecce avventure notturne.
Un romanzo horror “all’amatriciana”, in cui personaggi in apparenza comuni affrontano una serie d’esilaranti e straordinari eventi in una minacciosa cornice metropolitana.

Dark comedy all’amatriciana
Forse gran parte della gente non immagina cosa sia una dark comedy all’amatriciana… be’ non lo sapevo nemmeno io prima di scrivere Roma De Profundis, commedia degli orrori sulla decadenza e le magagne di una città drammatica, folle, decrepita, una città che ogni volta che esci di casa ti obbliga a prendere tutte le precauzioni possibili. Potrebbe inghiottirti una voragine, cascarti un ramo in testa, investirti un monopattino. Potresti andare a fuoco sul GRA. Roma è l’unica città che ti dà la prova di cosa significa essere miracolato. Non per la sua bellezza, ma perché quando esci la mattina non sai se tornerai a casa la sera. Su queste rosee premesse ho costruito un romanzo horror mascherato da commedia. Un romanzo caciarone, un tour de force goliardico, una satira sanguinaria con richiami ai b-movie anni Ottanta col quale ho provato a spostare il punto di vista del weird e del fantastico sugli incubi che avvelenano il cuore di Roma fino alle sue estreme propaggini.
Un orrore dissacrante.
Una farsa de noantri.
Una tetra commedia romana.
Una dark comedy all’amatriciana.
E chi altro avrebbe potuto pubblicarla se non quei cannibali di Nero Press Edizioni?
Ragazzi, grazie infinite, se il libro ha un corpo, lo devo a voi.
Io non ho fatto niente a parte scriverlo.
E tu sarai abbastanza impavido da leggerlo? (L. Filippo Santaniello)

Estratti
A Rosario sfuggì un lamento e il cellulare gli scivolò dimano. Provò a riacciuffarlo, ma sfortunatamente non cela fece. Lo smartphone rimbalzò sul marciapiede, finendo dritto nella buca di un cantiere mal transennato.
Quella buca nemmeno l’aveva vista. Grazie a Dio, si era fermato a parlare al telefono o ci sarebbe finito dentro fratturandosi una gamba.
«Porca di quella…»
L’imprecazione morì tra i denti. Senza fiato s’avvicinò alla voragine sul marciapiede. Nel sottosuolo, sul fondo della buca, s’intravedeva il bagliore spettrale del display del cellulare.
«Fortuna non s’è rotto…»
Si passò una mano sul viso. Si grattò la nuca.
Merda, merda, merda…
La cavità sembrava profonda almeno cinque, sei metri, troppi per calarsi senza rompersi l’osso del collo. Ma la trascuratezza della città a volte gioca a favore del cittadino. Gli addetti alla manutenzione stradale avevano dimenticato a terra una scala a pioli, la cui sagoma iniziava a distinguersi con maggior chiarezza man mano che gli occhi di Rosario si abituavano all’oscurità.

A volte anche l’idea più assurda può entrarti in testa.
Ti striscia dentro come un verme, deposita le uova nel cervello e all’improvviso non distingui più il reale dall’impossibile.

Il bovindo non c’era più, spazzato via dalla fronda di un pino marittimo alto venti metri abbattutosi sulla facciata della palazzina.
Non è possibile…
Provò ad alzarsi, ma non riusciva né a muoversi né a formulare un pensiero coerente. La sua mente non riusciva ad accettare che quel disastro fosse accaduto davvero.
Per mesi, mentre lavorava alla sceneggiatura di Roma de Profundis, si era ispirato a fatti di cronaca urbana per elaborare storie da incubo sul degrado di Roma.
Adesso era come se una delle sue fantasie avesse preso vita davanti ai suoi occhi.
Era finito in un film.
Nel suo film.

L’autore
L. Filippo Santaniello, sceneggiatore cinematografico, autore della saga horror comedy Country Zombie Apocalypse, ha scritto racconti per i principali editori horror weird italiani e sceneggiature, premiate a festival, da cui sono stati prodotti film per il cinema. Insegna sceneggiatura e storytelling. Roma de Profundis è il suo primo romanzo.

Roma De Profundis
Autore: L. Filippo Santaniello
Collana: Insonnia
Codice ISBN: 9791281435353
Prezzo: € 17,90
Edizione: copertina rigida
Pagine: 226
Genere: horror, commedia

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Elucubrazioni a buffo! di Marco Settembre

[…] Chissà quando avrebbe trovato un’altra ora libera dal suo attuale lavoro, per andarsene a cercare un altro. Quando avrebbe potuto riprovarci? Se poi qualcuno – chissà chi, ma lui lo immaginò per puro, estremo pessimismo –avesse riferito al suo principale che lui aveva cercato di trovarsi un altro impiego, quello a sua volta l’avrebbe cacciato a calci sui denti, per dimostrare di non essere da meno di altri. Beata (?) incoscienza […]

Elucubrazioni a buffo! – nuova edizione di Marco Settembre, edito come Self Publisher – è un testo dalla forte impronta umoristica e surreale, caratterizzato da una narrazione volutamente caotica e paradossale, capace di catturare il lettore attraverso l’assurdità delle situazioni.
Il racconto Visite inattese apre l’opera presentando un contesto di degrado e squallore che fa da sfondo a incontri improbabili e dialoghi grotteschi. Craig Foster, protagonista apparentemente apatico e disilluso, è affiancato da personaggi altrettanto eccentrici, come Randy Bloom, rappresentante frustrato, e Venceslao Prosdòcimi, individuo paranoico e impulsivo. Le interazioni tra questi personaggi generano un umorismo nero che mette in risalto l’assurdità della condizione umana, alternando situazioni comiche a momenti di profonda amarezza. La figura femminile di Isadora Sbletchen, creatura surreale dall’aspetto quasi fantascientifico, introduce un ulteriore elemento di follia nella trama, rendendo il racconto un susseguirsi imprevedibile di eventi. La presenza di elementi quotidiani, come il gas, il cibo bruciato e la televisione, viene enfatizzata fino al paradosso, amplificando il senso di tragicomica decadenza esistenziale.
Petunia, invece, offre una narrazione più intima e psicologicamente complessa, attraverso la storia della giovane protagonista, quasi diciassettenne, che affronta un momento di crescita e distacco doloroso. Attraverso una lettera crudele indirizzata a Mariotto. Settembre esplora temi legati alla classe sociale, all’identità e alla sottile crudeltà delle dinamiche familiari. Il linguaggio ricercato e l’uso di simboli, come i pesci rossi e il polpo, amplificano il senso di distacco e alienazione emotiva che pervade il racconto.
Ab Origine utilizza una pseudo-scienza umoristica per descrivere una civiltà immaginaria, popolata da personaggi metaforici che riflettono le ossessioni e le contraddizioni umane. L’uso satirico del linguaggio e la caratterizzazione grottesca rendono il testo provocatorio e stimolante.
Il racconto Far finta di niente affronta, invece, con ironia le paranoie e le alienazioni tipiche del mondo contemporaneo. Attraverso le vicende di Franco, Ernesto e Tania, il testo svela, con un umorismo nero e paradossale, l’assurdità delle paure quotidiane, portate all’estremo fino a trasformarsi in vere e proprie mutazioni fisiche.
La Flemma offre una riflessione amara e ironica sull’alienazione e l’isolamento della terza età. Il protagonista, Romualdo, un anziano intrappolato in una solitudine quasi kafkiana, cerca disperatamente un contatto umano che gli restituisca un senso di appartenenza.
Dandysmo Coatto è un racconto satirico-grottesco dal ritmo frenetico e volutamente disordinato, caratterizzato da un linguaggio barocco e surreale, che mescola dialetto romanesco, neologismi, citazioni colte parodiate e giochi linguistici esasperati. Al centro di questa stravaganza letteraria vi è Martino Sciolta, detto “Scapsulo”, un moderno dandy decadente ma coatto, ovvero volgare e popolare, che si impone come ospite abituale nella casa dei Crombi, una famiglia di arricchiti suburbani che aspira a un’aura di raffinatezza senza mai riuscire davvero a raggiungerla.
Femmine di Castoro è un’esplosione di conflitti, pettegolezzi e rivalità femminili ambientata in un salone di bellezza, dove ogni battuta è un colpo di fioretto e ogni personaggio rappresenta una caricatura estrema e grottesca di un certo tipo di donna dello spettacolo e dell’alta società.
T’hanno portato via si configura come un monologo interiore dal tono amaro e surreale, in cui il protagonista riflette sulla sua relazione tossica con una donna eccentrica e distruttiva. Lo stile è caratterizzato da una narrazione frammentata, con frasi spezzate, digressioni grottesche e un flusso di pensieri che si intreccia tra passato e presente.
Rito Sacrificale è un racconto di fantascienza che fonde elementi distopici e satirici, offrendo una critica feroce e ironica alla burocrazia, all’arroganza del colonialismo e alla rigidità delle gerarchie di potere, ambientata in un universo alieno pieno di assurdità formali e culturali.

Dal punto di vista stilistico, la scrittura risulta scorrevole e coinvolgente, sebbene in alcuni momenti l’uso eccessivo di dialoghi surreali rischi di attenuare l’efficacia comica iniziale. Un lettore meno avvezzo a testi ironici e destrutturati potrebbe trovare difficile immergersi nel concept e comprenderne la logica interna. Tuttavia, ciascun episodio mantiene una sua coerenza, regalando al lettore un quadro vivido delle assurdità esistenziali e delle piccole nevrosi quotidiane, trasformando il testo in una metafora satirica della condizione umana contemporanea.
L’unico vero difetto del libro è, obiettivamente, l’impaginazione e la gestione dei paragrafi, che rendono la lettura più faticosa. Al di là di questo, è un’opera particolare, adatta a chi apprezza – senza dubbio – la letteratura non convenzionale.

L’AUTORE:
il7 – Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia a indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all’attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L’Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell’ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell’archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico “Esterno, giorno” (Edilet, 2011), l’antologia avantpop “Elucubrazioni a buffo!” (Edilet, 2015) e “Ritorno A Locus Solus” (Le Edizioni del Collage di ‘Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di ‘Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti “obliqui” nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell’antologia “Racconti di Traslochi ad Arte” (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell’antologia “Oltre il confine”, sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) e un contributo saggistico su Alfred Jarry nel “13° Quaderno di ‘Patafisica”. È presente con un’anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all’interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all’episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi e una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”, e ha un profilo da outsider discreto!

Elucubrazioni a buffo!
Autore: Marco Settembre – il7
Editore: Self Publisher
Pagine: 151
ISBN-13: ‎ 979-8327516793
Costo: Cartaceo 16,64 €

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L’orto americano di Pupi Avati

L’orto americano di Pupi Avati (Italia, 2024)
Regia: Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati (romanzo L’orto americano, Solferino). Sceneggiatura: Pupi Avati, Tommaso Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Effetti speciali: Sergio Stivaletti. Musiche: Stefano Arnaldi. Scenografia: Biagio Fersini. Regista della Seconda Unità: Mariantonia Avati. Produttori: Antonio Avati, Gianluca Curti, Riccardo Suriano. Case di Produzione: DueA Film, Minerva Pictures, Rai Cinema, Mionistero della Cultura, Emilia Romagna Film Commission. Distribuzione (Italia): 01 Distribution. Interpreti: Filippo Scotti (il giovane scrittore), Rita Tushingham (la madre di Barbara), Robert Madison (maggiore Capland), Patrizio Pelizzi (giudice della Corte d’Assise), Romano Reggiani (il pubblico ministero), Cesare Cremonini (Ugo Oste), Massimo Bonetti (il presidente della Corte d’Assise), Andrea Roncato (maresciallo dei Carabinieri), Alessandra D’Amico (perito psichiatra), Nicola Nocella (paziente psichiatrico), Claudio Botosso (medico legale), Roberto De Francesco (Emilio Zagotto), Armando De Ceccon (Glauco Zagotto), Holly Irgen (giudice popolare), Monia Pandolfi (giudice popolare), Chiara Caselli (Doris), Luca Bagnoli (cancelliere), Morena Gentile (Arianna), Filippo Velardi (Pubblico Ministero), Francesco Colombati (psichiatra).

L’orto americano ci riporta alle atmosfere gotiche de La casa dalle finestre che ridono, girato in uno stupendo bianco e nero (fotografia del grande Cesare Bastelli), montato con la giusta suspense da un regista horror come Ivan Zuccon (107′ necessari) e accompagnato da una suggestiva colonna sonora di Stefano Arnaldi. Un film che mostra ancora una volta il tocco di Avati, tutto il suo stile, tra genere e letteratura, fantastico e minimalismo, suggestioni del passato e inquietante presente. Si parte da Bologna – città del cuore – nel 1945, in un’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo nel negozio di un barbiere vede una giovane ausiliaria statunitense e in un solo istante se ne innamora. Scopriamo che il ragazzo parla con i morti, non ha una psicologia stabile, molti lo ritengono squilibrato e viene internato per un certo periodo in manicomio, ma è anche uno scrittore con il sogno americano e appena possibile (nel 1946) si reca nello Iowa (l’America di Pupi Avati è quella, da sempre) grazie a uno scambio di case. Il caso vuole che la sua vicina sia la madre della giovane ausiliaria che l’aveva fatto innamorare, una ragazza chiamata Barbara scomparsa nel niente, che dall’Italia non ha mai fatto ritorno. L’orto americano è quello della vicina, dove nottetempo il ragazzo si reca per scavare, dopo aver sentito le voci dei morti, e tira fuori un contenitore di vetro con i genitali di una donna e come etichetta una misteriosa iscrizione. Il giovane scrittore torna in Italia, tra Ferrara e Comacchio, per dipanare il mistero di Barbara e ritrovare almeno il corpo della giovane ausiliaria scomparsa. Il mistero ha inizio e si risolve proprio tra le lande sperdute delle Valli di Comacchio, luogo avatiano per eccellenza, dove il ragazzo partecipa come spettatore al processo a carico di un losco individuo che avrebbe trucidato tre donne, forse anche la sua Barbara. Non tutto è come sembra, il resto va apprezzato in sala, perché siamo in presenza di un vero e proprio giallo hitchcockiano ambientato tra Roma, Ferrara, Ravenna, Forlì, senza dimenticare Davenport nello Iowa, altro luogo da sempre caro al regista. L’orto americano non è cinema horror, ma ci sono tutte le suggestioni del cinema di Avati prima maniera, ricreate grazie agli effetti speciali del grande Sergio Stivaletti (le vulve, gli arti amputati, il morto nella bara che si contorce…). Un film definibile come thriller nero, angosciante e macabro, molto gotico, vicino solo al cinema dello stesso Avati, con la sua poetica del puro che possiede poteri soprannaturali incomprensibili per la gente comune. Parlare con i morti, ascoltare le voci dei morti, croce e delizia dell’esistenza del giovane scrittore, condannato a non essere creduto e a essere considerato un folle. Molto bravo Filippo Scotti nei panni del protagonista, intensa Rita Tushinghan come madre di Barbara; troviamo nel cast presenze consuete del cinema di Avati come Massimo Bonetti (il giudice) e Chiara Caselli (Doris, la padrona della pensione ferrarese), ma anche Nicola Nocella che è un paziente del manicomio. Breve cameo per Andrea Roncato come maresciallo dei Carabinieri, incredulo di fronte al racconto del giovane scrittore. Ricordiamo anche Cesare Cremonini in una piccola parte. La sceneggiatura non perde un colpo, tra lo Iowa e Comacchio, con il sottile collante dei reperti anatomici rinvenuti nella boccia di vetro, scritta dal regista e dal fratello Tommaso, partendo dal romanzo omonimo edito da Solferino. Molto azzeccata l’idea di far recitare in inglese la parte americana, sottotitolando i dialoghi, e in italiano la parte ferrarese e bolognese. Scenografie d’epoca perfette, costumi senza la minima sbavatura, le atmosfere del primo dopoguerra sono verosimili e le immagini di repertorio lasciano il posto alla finzione scenica senza soluzione di continuità. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2024 come film di chiusura, rappresenta la summa del cinema nero di Avati, con citazioni al suo passato, da Zeder a Le strelle nel fosso, per finire con La casa dalle finestre che ridono, che viene fuori con prepotenza in certe situazioni angoscianti vissute in solitudine dal giovane scrittore e da un finale che immortala un inquietante scambio di sguardi consapevoli. Un film da vedere al cinema per apprezzarne tutto il fascino.

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Il ritratto del morto

– Il soprannaturale?, fece Mac Rovel, allontanando d’un colpo la caraffa di birra che aveva dinanzi e sulla quale aveva, fino a quel momento, chinato ogni tanto il pallido volto, in silenzio. – II soprannaturale? E chi può parlarne con cognizione di causa? Chi può dire, sinceramente, che c’è un limite tra quello che è e quello che pare? Chi ha ancora acquistato il diritto di distinguere la visione dalla realtà?

Robert Yung, il gobbetto scettico e maligno che gli sedeva di fronte, nella saletta del club, scrollò le spalle sbilenche ed ebbe un sorriso di superiorità sprezzante.

***

Anche noi altri che eravamo intorno, e che passavamo quella malinconica serata di novembre a inghiottire birra e a sputare paradossi, alla bianca luce delle lampade elettriche moltiplicate dagli specchi tutti in giro, avemmo un gesto di autentico, genuino stupore.
– Eh, via, Mac! Tu corri troppo, mi pare! – esclamò qualcuno. – Che diavolo! La visione è visione, non vi è alcun dubbio, e la realtà è…
– E’ realtà! – completò il gobbetto, con un grande scroscio di riso stridulo, che gli fece ballonzolare sinistramente il petto gibboso.
Mac Rovel tacque.
Tacque un istante guardandoci col suo chiaro sguardo tranquillo.
– No, amici, – disse poi con voce piana. – Non è così.
– Davvero?… – fece qualcuno con tono in cui si notava il sarcasmo pungente.
Mac scrollò le spalle e proseguì, senza rivolgersi a nessuno in particolare, ma gli occhi fissi alla parete di fronte, alle nostre spalle, quasi che attendesse da un momento all’altro di vedervi comparire un fantasma:
– Talvolta la visione è realtà… Talvolta quel che pare, è… E, forse, ciascuno di noi, nella sua vita…
– Tu hai qualche storiella da raccontarci! – saltò su Robert Yung, interrompendolo e agitando le lunghe braccia rachitiche, di ragno.
– Lo credi?
– Ma certamente! E lo dimostra il tuo esordio, che è una vera e propria preparazione… Un esordio strano, da brivido. Non puoi negarlo.
– Non è una storiella, – fece Mac, con una certa tristezza, quando Robert Yung tacque.
– E che cos’è allora?
– È un breve episodio, terrificante, della mia vita giornalistica: non quella di oggi, la tranquilla vita dell’ « articolista »; ma quella di due anni or sono, la vita febbrile, attiva, indiavolata del reporter.
– Ce la devi raccontare!
– Sì, così potremo ridere a crepapelle! – fece il gobbetto, rovesciando il corpicino all’indietro e accendendo una sigaretta: – Noi siamo tutt’orecchi!
Ma la frase sarcastica dell’amico non trovò eco: era, nel volto di Mac Rovel, un’espressione così strana di dolore, come un riverbero di una livida luce lontana, che noi tutti non osammo interrompere la pausa grave e solenne che passò in quel momento nella saletta del club, triste anch’essa nella triste sera di novembre.

UN DISASTRO FERROVIARIO
– E sia, – fece Mac, abbassando il capo, come per riconcentrarsi. – Ho parlato di visioni e di realtà e ho dubitato della linea di confine che separa le une dalle altre. Debbo, ora, darvi ragione del mio dubbio: ed è solo per questo che parlerò.
E Mac Rovel cominciò il suo racconto.
– Tre anni or sono – ero allora nel più brillante periodo del mio reportage, il reportage viaggiante – il direttore del mio giornale mi chiamò, una sera, mentre buttavo giù una noticina di cronaca cittadina, e mi disse, senza preamboli:
– Un dispaccio da Glasgow annuncia un disastro ferroviario. Uno scontro gravissimo allo sbocco di un tunnel: circa trecento morti. Dei vagoni di petrolio incendiati, una sessantina di feriti. Occorre che vi rechiate sul luogo del disastro. Partirete fra un’ora: telegrafate i primi particolari per l’edizione del mattino; tornerete domani nel pomeriggio per una più ampia descrizione nell’edizione della sera… Siate efficace…
Disse quest’ultima frase con l’imperiosa brevità di un duce che pronuncia, alla vigilia della lotta, la parola eroica che guiderà i suoi uomini alla morte e mi congedò.
Un’ora dopo ero alla stazione: alle due della notte giungevo sul luogo della catastrofe, armato del taccuino e della mia macchina fotografica.
Descrivervi quello che vidi, l’orrore della scena, illuminata dalle lampade degli operai che avevano appena iniziato i lavori di sgombro, i cadaveri sfracellati fra le assi spezzate e le lamiere contorte, gli ultimi bagliori dei vagoni di petrolio ammucchiati gli uni sugli altri, che finivano di ardere, è uno sforzo che non potrei fare.
D’altra parte, la collezione del giornale è là, e chi voglia rileggere le mie impressioni, non ha che a riscontrarla…
– La ricordiamo benissimo tutti, dissi io, con un lieve inchino amichevole.
Fece un gesto di ringraziamento e continuò, con voce piana, quasi sommessa.

IL CADAVERE APPARTATO
Ma uno spettacolo, soprattutto, mi colpì. In disparte, lontano dagli altri cadaveri, cinto dai frantumi del vagone postale, con le braccia distese e le mani dischiuse, quasi a proteggere ancora, dopo morto, i pacchi suggellati, che alcuni agenti di polizia piantonavano, giaceva, supino, un impiegato del personale viaggiante, l’addetto alla posta.
Giaceva in attitudine composta, tranquillo, come se dormisse: la luce di una fiaccola, che si proiettò su di lui, ne rilevò la serenità del volto, pallido, affilato, su cui i baffi neri disegnavano una macchia oscura, quasi lugubre. Solo, sulla fronte, era una ruga, diritta e profonda come la cicatrice di un colpo di spada: in quella ruga soltanto era tutto il supremo dramma dell’ultimo minuto, il dolore di morire, il rimpianto di lasciare, forse, dei figli.
Un signore, lì presso, un ingegnere delle ferrovie, o un ispettore, dava delle spiegazioni a un ispettore di polizia: l’indiscrezione che nei giornalisti è un diritto, mi spinse ad avvicinarmi e a unirmi ai due.
– Quest’uomo, – fece quel signore, accennando al ferroviere, – è l’unico del personale che sia morto, oltre al macchinista. Gli altri hanno avuto appena il tempo di gettarsi dal treno; qualcuno si è ferito. Il guardiafreni che si trovava accanto a lui, nel vagone postale, al momento dello scontro, e che ora è al più vicino ospedale, con una gamba fratturata, ha raccontato così la scena. Si era per uscire dal tunnel; il compagno, a un tratto, sporse il capo dallo sportello del vagone, e lo ritrasse subito, gridando:
– Un lume rosso!
Nello stesso tempo la locomotiva lanciava il suo fischio, rauco e acuto come un grido d’allarme come un urlo di terrore.
– Avvisa i viaggiatori e salvati! – gridò l’impiegato postale al guardiafreni.
– E tu? – gli rispose l’altro mentre si slanciava allo sportello.
– Io? Ho la responsabilità della corrispondenza! Io rimango!
E restò.
E, mentre i compagni, si gettavano pazzamente dagli sportelli e i viaggiatori, destati all’improvviso, cercavano di seguirne l’esempio, egli non si mosse, come ineluttabilmente legato a un fato al quale non voleva o non poteva sottrarsi.
Bianco, sereno, il volto del morto era come assopito in un lungo sogno; ma alla luce rossastra della fiaccola vicina, la ruga, sottile e profonda, pareva sanguinasse…

UN BACIO
L’alba imbiancava rapidamente il cielo e dava una fosca tinta di rame alla parete di fronte alla quale scrivevo, nel piccolo caffè della stazione.
Avevo scritto quattro o cinque cartelle, che mi sarebbero servite per il « pezzo di colore » della sera (avevo telefonato un intero servizio per la pagina del mattino, tre ore prima). Ma una specie di oppressione, ora, mi fiaccava i nervi e mi toglieva ogni forza di continuare a scrivere.
Era la stanchezza?
Era l’impressione ancora vibrante del mio animo, della tragica scena?
Una visione a poco a poco si ridestava in me, sempre più netta e sempre più decisa, con una persistenza strana: la visione del bianco volto di quel morto, e della ruga profonda e dolorosa che gli segnava il suo solco sulla fronte…
Chi era quell’uomo? Le mani dischiuse, scarne e brune, mani di operaio, mi tornavano alla mente, distese a tutela suprema delle cose affidate…
Alla crescente luce del giorno, l’ingegnere o ispettore, che fosse, entrò a prendere un cognac. E fu istintivamente, per impulso meccanico, che gli domandai, a bruciapelo:
– Come si chiama?
– Chi? – mi chiese stupito, deponendo il suo bicchierino per metà pieno.
– Lui, il ferroviere morto… quell’ufficiale postale… – dissi.
– Taylor, Roger Taylor. E di queste parti.
– Lascia moglie… figlioli?…
– Non so. Può darsi. Gli sventurati hanno sempre una famiglia da lasciare in lutto…
Il funzionario salutò e disparve.
Era tutto quello che ero riuscito a sapere di quell’uomo. E il pensiero della famiglia lontana, di una vedova, di poveri orfanelli perduti mi strinse il cuore amaramente.
Tornai sul luogo della sciagura.
Il morto era ancora là: era rimasto solo, nella bianca luce del mattino. Le sue mani erano ancora distese, scarne mani veglianti nella morte…
La voce interna, l’oscura voce istintiva mi parlò, allora, chiaramente:
« Serba una immagine tua, esclusiva, di lui ».
Misi la macchina fotografica a fuoco e feci scattare l’otturatore. Quella fotografia non l’avrei data, insieme alle altre, al giornale.
Poi mi chinai sul morto e lo baciai sulla fronte.
Volevo mandare quel ritratto alla sua famiglia. Ma per quanto facessi indagini non potei avere notizia di nessun parente del poveretto.
Il Taylor non aveva lasciato nessuno al mondo. Nessuno che lo piangesse, nessuno che s’interessasse di lui. L’unico che aveva avuto un pensiero pietoso per il povero morto, ero stato io. E il ritratto già pronto a essere spedito alla famiglia, rimase con me, e lo custodii nel mio portafoglio, come un sacro e triste ricordo…

IL SOPRANNATURALE
… Passò un anno.
Qui la voce di Mac Rovel divenne più grave, più lenta, più solenne, e negli occhi di lui si accese uno strano bagliore, mentre la mano che si agitava nel discorso aveva un lieve tremito.
– Nel maggio dell’anno seguente un principio di sommossa a Glasgow mi chiamava là per una serie di corrispondenze al mio giornale. Partii la sera del 24, con il treno delle diciassette e quaranta, il famoso « 1442 bis ».
La notte era alquanto fresca e i vetri degli sportelli erano chiusi. Solo, nel mio scompartimento di prima classe, sdraiato sul divano, avevo leggucchiato un libercolo di recente stampato e che si occupava di una questione di grande attualità: lo spiritismo.
Il silenzio, la solitudine, il movimento oscillante del treno mi avevano fatto scivolare a poco a poco il libriccino dalle dita e cominciavo ad assopirmi.
Sentii ancora, vagamente, i nomi di due o tre stazioni strillati dal personale viaggiante, poi più nulla.
Il « 1442 bis » correva, tutto nero, attraverso la campagna, si slanciava nei tunnel, ne usciva guizzando, e portava tutta una schiera di dormienti, lontano, nelle tenebre altissime…
Tutt’a un tratto un rumore mi scosse nel dormiveglia. Mi pareva che qualcuno avesse picchiato ai vetri dello sportello, leggermente.
Tesi l’orecchio.
Nulla.
Il movimento del treno aveva dovuto scuotere quei vetri; nulla di più naturale; che dianime!
Ma, dopo un momento, il rumore si ripeté: un rumore secco, deciso, nervoso, come di chi abbia fretta. Una fretta maledetta, improcrastinabile.
Schiusi gli occhi e mi levai a sedere.
Qualcuno era li dietro, nell’ombra della notte, che mi spiava.
Intravvidi un viso bianco, immoto e due occhi che mi fissavano…

IL FANTASMA
Saltai in piedi.
Corsi allo sportello e abbassai il vetro.
Nessuno!
In quel momento il treno infilava la nera bocca di un lungo tunnel.
– Allucinazioni! – dissi allora a me stesso, dando un calcio al libro, che aveva dovuto accendermi la fantasia.
Allucinazioni di chi ha letto insulsaggini in un’ora inopportuna…
E, per dare forza a me stesso, mi ricacciai nel mio cantuccio, e chiusi gli occhi, ostinandomi a riaddormentarmi.
Sentivo il rombo del treno che correva sotto la volta greve della galleria e mi pareva che quel passaggio fosse eterno, che non terminasse mai più.
Una strana sensazione opprimente pareva mi mozzasse il respiro: ma il letargo mi vinceva e non avevo la forza di scuotermi, di sottrarmi a quella oppressione.
Ancora un momento e mi sarei addormentato profondamente, lasciando dietro di me tutte le paure del sovrannaturale.
Mi passai la mano sulla fronte per vincere quel sonno di piombo, e, strana cosa, la mia mano era ghiacciata…
Istintivamente feci per muovere l’altra mano, per sentire se anch’essa mi facesse quell’impressione di freddo sulla fronte e mi accorsi che le mie mani, urtandosi erano tiepide…
E nessuna di esse io avevo mossa, durante il sonno, incrociate com’erano sul mio petto.
Trasalii: quella mano ghiacciata che mi aveva carezzate le tempie non era la mia!
Soffocai un urlo e mi drizzai in piedi.
Quell’uomo aveva le mani distese, come per difendere qualcuno da un pericolo, e il viso pallido era rivolto a me…

IL CADAVERE “REDIVIVO”
Sulla fronte, che il berretto da ferroviere lasciava a mezzo scoperta, una ruga diritta, profonda come una cicatrice disegnava il suo solco che pareva sanguinasse…
E la bocca scolorata di quell’uomo si agitò, e le labbra livide mormorarono qualche cosa…
Sì, io compresi che quell’uomo disse, senza che alcun suono uscisse da quelle labbra, ma chiaramente, distintamente, e in fretta:
– Un lume rosso!…
Venni preso da uno spavento agghiacciante.
– Chi siete? balbettai, poi in un eccesso di paura isterica, ripetei, ad alta voce: – Chi siete?… Da dove venite?… Che cosa volete da me?…
– Un lume rosso!… – ripeterono le labbra livide del fantasma.
– Oh, Dio, sto impazzendo!
– Non vi ricordate di me?…
– Voi… voi… siete…
– Io sono… – confermò l’apparizione.
– Ma come è possibile…
– Tutto è possibile… Vengo di là… dal grande Regno dei morti… dal mondo delle tenebre… Io sono colui che voi avete baciato…
Mi sembrava di impazzire. Tremavo come non avevo mai tremato in vita mia. Avvertivo, oltre che vederla, la presenza immateriale dell’uomo che era stato… dell’uomo di cui serbavo la fotografia nel mio portafoglio.
– Che… che… che volete… da me?…
– Sono venuto a salvarvi la vita…
– Come?…
– Un lume rosso!… Tra qualche istante avverrà la catastrofe… Sono qui per voi… Non ho dimenticato… Non dimenticherò mai…
– Ma…
– Attento!…
Un istante. Il tempo che dura un guizzo di folgore… E, con un urlo di terrore, spinto da una forza strana e invincibile, nello scompartimento dove non c’era più nessuno, mi avventai allo sportello, lo apersi e, senza riflettere, ciecamente, mi buttai giù, dal treno in folle corsa…

IL RITRATTO DEL MORTO
Quando, dopo pochi minuti, ripresi i sensi, mi trovai disteso sull’erba.
Ero incolume!
Per quanto possa sembrare assurdo, irreale, impossibile io ero incolume. Mi ero gettato da un treno ero rotolato lungo una che filava a cento all’ora, scarpata irta di sassi ed ero finito su di un prato senza nemmeno un graffio.
Mi trovavo su di un prato, ad appena due metri allo sbocco del tunnel.
Mi ero buttato appena in tempo.
Egli mi aveva davvero salvato la vita. Due volte: mi aveva sottratto all’immane catastrofe e mi aveva fatto raggiungere il suolo, illeso.
Ma a duecento metri di distanza, quale orribile, inimmaginabile spettacolo!
Enorme e sinistro cumulo, nella notte, i rottami del « 1442 bis » e quelli dell’altro treno col quale esso aveva spaventosamente cozzato, si confondevano.
I gemiti dei morenti echeggiavano, paurosi, fra quelle rovine.
Una delle più grandi catastrofi ferroviarie della storia europea; anzi, della storia mondiale. Una catastrofe che ha reso tristemente celebri la notte del 24 maggio e il disgraziato numero del treno investitore, era avvenuta, e io ero lì, vivo, senza una sola contusione, scampato per miracolo.
Fui tra i primi a portare la notizia al vicino paese e caddi subito dopo svenuto tra le braccia di quelli che mi circondavano. Poi, una forte febbre mi assali, ed ebbi il delirio per quattro giorni.
Guarito appena, e prima di ritornare a Londra, rassettai le mie cose e posi mano al portafoglio per saldare il debito con il mio ospite.
Tutto era a posto: ma il ritratto del morto era sparito.
Questo è il fatto, vero, reale, accadutomi, da me vissuto. Che cosa è, ditemi, ora, il soprannaturale?
Che cosa è la verità?
Nessuno di noi osò più aprir bocca. Lo scettico gobbetto era livido in volto e mi pareva tremasse per intima paura.

NOTE
Racconti horror rari riscoperti da Sergio Bissoli. “Il ritratto del morto” di Walter Buchman Jr., apparso in Italia nell’agosto 1962 sul numero 3 di “Terrore”, edito da Sansoni. L’autore è sconosciuto, forse italiano sotto pseudonimo.

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