[…] L’Orient Express, un aspide d’acciaio che serpeggiava e si snodava attraverso le foschie dell’Europa centrale, gli offriva un rifugio transitorio dalla tempesta invernale. Trieste, con la sua atmosfera cosmopolita e i suoi inquietanti sussurri di occultismo, sembrava ormai lontana anni luce. Proprio in quel vagone, mentre il treno attraversava le desolate pianure jugoslave, il dottor Visintin iniziò a intuire che alcune sensazioni erano destinate a seguirlo ovunque andasse. […]
Il racconto “Incubo sull’Orient Express” di Flavio Deri si apre con un’immagine serpentesca, che possiede già un suo valore tentatore e perturbante. Vediamo innanzitutto
di inquadrare il contesto spazio-temporale in cui è ambientata la storia.
Siamo nel 1932, quindi tra le due Guerre Mondiali. L’Europa Centrale (Da Trieste a Vienna, fino a Budapest) ha rappresentato storicamente, come ci ricordano autori quali Cacciari o Magris, una zona liminale dove gli opposti – razionalismo e misticismo, liberalismo e autoritarismo, lingua ufficiale dell’impero austroungarico e lingue delle minoranze ecc. – convivevano. Queste
tensioni erano vive pure dal punto di vista culturale: si trattava anche di una “frontiera interiore”, di un confine psichico e spirituale appartenente ai luoghi più reconditi e inconsci dell’animo
umano. Si creò una sorta di alchimia culturale, in cui scienza, arte e psiche si interrogavano a vicenda nei modi più bizzarri. La mente e lo spirito divennero campi di sperimentazione per una razionalità
in crisi, in cui fiorivano molti sistemi spirituali “alternativi”.
Il protagonista Giuseppe Visintin incarna tutti questi aspetti in maniera unificante: egli è un medico di origini italiane, residente a Trieste e appassionato di esoterismo. Era stato membro del The Ghost Club a Londra, fondato da studiosi di parapsicologia e occultismo, noto per le sue sedute spiritiche. Qui Visentin partecipò a una seduta con Sir Hodson, un medium, che gli morì improvvisamente tra le braccia, non prima di avergli accennato di un viaggio iniziatico tra i binari che viaggiano verso est… Qui, sul treno dell’Orient Express, egli incontrerà una serie di personaggi enigmatici. Prima di tutto, un medico-stregone di origini bulgare con il dono della chiaroveggenza, che lo metterà in guardia da un Orrore venuto dall’Oltre per sacrificarlo al Guardiano della Soglia. Il secondo incontro sarà con un discendente turco dell’Arabo Pazzo, autore del Necronomicon, gli regalerà una jambiya, un pugnale tradizionale dai poteri magici e dai forti connotati simbolici. Colui che gli dà la caccia era denominato l’Errante.
Visintin si ritrovò catapultato in un abisso cosmico, al di là del tempo e dello spazio, un paesaggio dove si stagliava imponente il Monte Thurai. Da questo momento,
la sua vita si trasformerà radicalmente, e non sarà più come prima, connettendosi fino alla sua tragica fine a tutta questa costellazione di eventi cosmici.
Riecheggiano per tutto il libro le influenze della geografia onirica del “Ciclo dei Sogni” (Dream Cycle) dello scrittore americano H.P. Lovecraft, nume tutelare della scrittura di Deri, come anche riferimenti esoterici come “Il simbolo di Kish”, simbolo cuneiforme di origine
sumera, e la “Via della mano sinistra”, la “Vama Marga” che comprende le pratiche eterodosse del tantrismo indiano, adottata in Occidente,
tra gli altri, da Aleister Crowley.
Leggendo il titolo, avevo pensato all’inizio a una sorta di revisione orrorifica di Agatha Christie e dei suoi “romanzi gialli”, ma non vi ho trovato elementi di questo tipo nell’indagine di Visintin, più legata al soprannaturale e al
sogno. Una certa lentezza nello svolgersi della scrittura e qualche momento di confusione nell’individuare i personaggi di riferimento in alcuni punti dell’azione sono forse gli unici punti deboli del racconto.
La mistura di pratiche occulte alternative e riferimenti meno conosciuti del panorama onirico lovecraftiano, unita all’ambientazione ottocentesca e mittel-europea, riesce però a fare emergere piuttosto bene le forti particolarità di questa narrazione onirica di Flavio Deri, serpentesca come l’andamento del suo treno-mondo.
L’AUTORE Flavio Deri è nato il 18/10/1988 a Pontedera (PI). È diventato membro del Culto Lovecraftiano nel 2003, quando ha acquistato il suo primo libro del Sognatore di Providence. Iscritto alla H.P. Lovecraft Historical Society e supporter dell’Horror Writers Association, ha sempre desiderato dedicarsi alla scrittura andando oltre la creazione di campagne di gioco di ruolo da tavolo o dal vivo. Durante la pandemia, ha partecipato a concorsi letterari per antologie, e nel 2022 ha pubblicato il suo primo libro intitolato Appunti di un Sussurro, sempre con ambientazione Lovecraftiana, oltre a rientrare in pubblicazioni come Terrorea – De Rerum Natura della Horti di Giano, nella collana Universo di Lovecraft della Esescifi, nell’antologia Chimerica della PAV Edizioni. Per la Colomò Edizioni compare nell’antologia Strani Aeoni nn. 2 e 3, Grimoria, l’Amaro in Bocca e ha curato la raccolta L’Orrido Verde. L’Ombra dietro la Miskatonic è il suo racconto lungo con la Delos Digital, si possono trovare altri suoi racconti su due numeri del progetto Racconti dal Profondo. Finalista in concorsi letterari come il TOHorror Festival, Terni Horror Festival e del Premio Esecranda. Fiero membro del Gruppo Telegram Lovecraft Italia. Appassionato del genere Horror, ha dedicato la sua libreria personale a Lovecraft, con oltre cento volumi tra racconti, saggi, biografie, graphic novel e romanzi ispirati ai Miti. Dal 2024 collabora con Club GHoST e Planet Ghost con recensioni di libri e fumetti.
L’incubo sull’Orient Express Autore: Flavio Deri Editore: Delos Digital Pagine: 68 ISBN: 9788825432824 Costo: Ebook 1,99 €
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La sperduta di Flavio Deri
La protagonista, Giulia Bonani, esperta di Beni Culturali, visita l’Abbazia di San Giusto al Pinone per un sopralluogo di routine.Si tratta di un’abbazia reale, appartenente al romanico toscano, nel comune di Carmignano (provincia di Prato), costruita tra l’XI e il XII secolo. Mi piace tantissimo questa base storica dell’opera, che fonda in maniera originale il contesto del racconto, in quella Toscana rurale così ricca di pievi e chiese, che si incontrano ogni qual volta si giri per le sue contrade. La Toscana medievale rappresenta un elemento di originalità, con cui mi trovo in sintonia, stemperando alcune vene esterofile del nostro horror italiano, sempre tendenti a copiare ambientazioni di tipo anglosassone. Vi è comunque presente una grande influenza lovecraftiana in Flavio Deri, materia che lui conosce e maneggia molto bene, con consapevolezza e un suo patrimonio di conoscenze specifiche molto approfondito. Si percepisce questa esperienza nella sua scrittura, ma l’autore non si limita a una mera copiatura, ma, come sottolineato prima con il riferimento al contesto storico, lo rielabora e lo personalizza durante lo svolgimento del racconto.Giulia scopre una cripta segreta, sotto l’abbazia. Sente le voci nella cripta, ma ci vuole tornare nonostante sia terrorizzata. Ritorna incessantemente un nome, alla stregua di una maledizione: la Votiva.Tra le urla emerge una connessione sempre più stretta con Giulia, quasi un’identificazione: “Tu sei il ponte, tu sei la votiva”.Le testimonianze sull’origine di quel luogo maledetto contribuiscono ancora di più al mistero. L’abbazia si dice che sia sorta in una sola notte. Alcuni commentatori riferiscono che sia stata costruita dopo una visione divina, mentre altri ancora parlano di un patto, di un rituale.La CAMPANA, che conferisce il titolo al racconto, è soprannominata “La Sperduta” (nome reale tra l’altro, per aiutare i pellegrini e i viandanti a orientarsi): tutte le persone che hanno sentito il suono della campana non tornano mai più. Un viator di passaggio verso non la redenzione della Chiesa, la sua pace e tranquillità, ma verso una nuova nebulosa dimensione di perdizione infernale e demoniaca. Questo perché l’abbazia rappresenta, se analizzata esotericamente, un punto di potere mistico: c’è qualcosa sotto quell’abbazia.Giulia lo riferisce chiaramente: Quel tunnel era vivo…Si scopre che i due frati avevano creato un ciclo di morte che si perpetuava ritualmente durante i secoli: i fedeli erano stati sacrificati.Questo orrore rituale e ancestrale è un qualcosa che fa dell’uomo una mera materia di scambio, una mera materia economica in uno scambio dimensionale e spirituale. Quei beni, quelle “monete” usate dai frati per aprire il punto di potere mistico e comunicare con quella tremenda forza cosmica proveniente da un’altra dimensione, sono persone, individui costituiti da carne e sangue. Questa de-antropologizzazione, molto scientifica e contemporanea nella sua razionalità dove non esiste l’umano, rappresenta uno dei grandi lasciti del Solitario di Providence di cui Deri si fa degno portatore.Successivamente, in particolare dalla seconda metà in poi della narrazione, emergono sempre di più anche dei caratteri thriller e polizieschi, che spero il lettore colga autonomamente. Riemergerà quella pervadente sensazione di inconsistenza e inutilità dell’umano, in una deformante interpretazione della salvezza, che si ripercuoterà nel destino di Giulia. La sua vita non sarà più come prima…Attenti cari lettori! Immergersi in questa commistione ben amalgamata di tematiche, sapientemente cucinata dal buon Flavio Deri, potrebbe portarvi in un’altra Toscana, ben lontani dal “Chiantishire”.
La sperduta Autore: Flavio Deri Editore: Delos Digital Anno: 17 aprile 2025 Formato: ebook Pagine : 51 pagine ASIN: B0F5VKC9LS Prezzo: 1,99 Euro
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“Madonna Nera” e il tarantismo: leggere Alepia e Santa Feba attraverso De Martino.
Sembrano scorci di Alepia, ma visti da una dimensione parallela, o qualcosa del genere. Visioni di diavoli ammucchiati, donne decrepite dai seni cadenti e le lingue a punta, gli occhi neri… [1]
Questo bel libro di Germano Hell Greco ci consegna l’immagine di una Puglia crudele, in cui convivono mondi e leggi antiche, precedenti all’ordinamento sociale dello Stato Italiano. Questo Sud contadino che ha sapore di mito, con delle radici nel folklore superstizioso, dove il cristianesimo popolare si fonde con reminiscenze più antiche (greche e pagane), mi ha ricordato le analisi di Ernesto De Martino sul tarantismo pugliese. Ho provato a rileggere il romanzo attraverso le sue lenti antropologiche. Un mondo contadino in cui la vita è difficile, ma che intrappola nelle sue reti, da cui non riesci più ad uscirne: per sfuggire al paese di Alepia, ci si ritrova nei campi, ma poi non si è sicuri che sia lo stesso mondo di prima. O magari è un mondo che si sovrappone al primo, ed è sempre Alepia. E’ qui che vivono Kiki e Pietro. La prima si sente un’eclusa, un outsider rispetto all’ambiente in cui vive; mentre il secondo vive l’eredità del nonno che è capo di un’organizzazione criminale, oltre che della madre morente che assiste e dell’eredità di un padre artista prematuramente scomparso. Un’altra coppia, complementare alla prima, sono Sandro e Giada. Se il primo è l’amico di infanzia di Pietro, ma rimane legato all’organizzazione del nonno dai legami delle organizzazioni, la seconda invece cerca di sopravvivere in questo ambiente anche attraverso il dono e la condivisione del proprio corpo. In questo coacervio di eredità finite male o non concluse, si innesta il culto di Santa Feba con i suoi denti, che è connesso alla nascita stessa di Alepia:
La banda spuntò da dietro l’angolo e invase la strada. Dietro seguivano le ballerine di Taranta, scalze, i pizzi delle gonne che svolazzavano a ritmo, il velo nero sui volti. Poi il baldacchino della Santa. […] Feba intanto ondeggiava fasciata di paramenti d’oro, i ninnoli e le fiaccole elettriche che la decoravano vibravano, aveva la bocca spalancata e vuota, il sangue che le colava dagli angoli. La gente si mise ad applaudire, una signora s’asciugò lacrime con un fazzoletto bianco di pizzo, un’altra brandì la gigantografia di un ragazzino, morto chissà come, e la puntò contro la statua come fosse un fucile. Gli astanti si misero a lanciare alla loro Madonna schegge di mandorle, per restituirle i denti. [2]
Questo insieme di simboli rituali, la base fenomenica di un “codice simbolico-archetipale” come sottolinea Maurizio Nocera a proposito del tarantismo [3], sembra fungere da contesto generale dell’intero racconto, da suo fermo sfondo e stabile amalgama che riappare in tutti i momenti oscuri. Esso ci ricorda che è Alepia la vera protagonista di questo racconto, questa città di una Puglia immaginaria, ma al contempo così reale nel suo essere così legata alla terra e ai campi. Nelle sue influenze greche e bizantine, come il Cristo Pantocratore vicino alla bara della madre di Pietro quando muore. [4] Alepia è nata con Santa Feba, coincide con lei:
“Alepia è nata con lei, dal suo martirio. E’ sempre stato un paesello sotto il giogo di un paio di famiglie malavitose. C’è stato sempre un parroco che dominava su tutti gli altri, perché custodiva in chiesa la statua di Feba, si è sempre festeggiata solo lei, la Santa dei Denti che noi stessi abbiamo trucidato. Ma non è stata la sola a crepare…” [5]
I campi, con i loro pozzi, sono un altro aspetto fondamentale del romanzo, che si staglia sullo sfondo di campagne cosparse di cadaveri. Il legame fra l’atto della mietitura e la morte è tipico delle civiltà contadine, secondo De Martino:
Nelle civiltà cerealicole del mondo antico spetta ai momenti critici della semina e del raccolto (in particolare all’epoca della mietitura) una notevole importanza ierogenetica, nel senso che in funzione di tali momenti si viene organizzando geneticamente una serie di simboli mitico-rituali, i quali offrono temi protettivi di ripresa e di reintegrazione anche per altri ambiti critici non strettamente agricoli, come per esempio la morte dell’individuo, i rapporti sociali e politici, la inserzione dell’individuo nel gruppo sociale, il rapporto fra i sessi, ecc.[…] [6]
Questo crudele mondo contadino, dalle vestigia antiche e collegato alle campagne, influenza globalmente qualsiasi aspetto della vita sociale e della sua organizzazione. Persino il nonno mafioso rispetta Santa Feba e la morte che si profila nei casolari. Santa Feba dalle carni dilaniate simboleggia la morte che proviene da questo stesso territorio, la falce del mietitore si rivede nei denti che sono le sue vestigia sacre, ma anche i puntini di sospensione che intervallano questo libro, donandogli il suo sapore particolare. Santa Feba, con le sue condizioni mitico-rituali e con la sua oscura dimensione straordinaria, rappresenta sia la Vergine che Atena/Aracne, come credenze archetipali della Grande Madre tipiche della Puglia e del Salento in particolare. In fondo è pur sempre “una Madonna”, anche se Nera, come ci ricorda il titolo:
La gente del Salento, in generale, ha una venerazione particolare per la Vergine (Aracne è una giovane vergine) e allo stesso tempo per la Grande Madre (Atena-Minerva è allo stesso tempo la Vergine per eccellenza, ma anche una Grande Madre androgina). Probabilmente questa credenza archetipale affonda le sue radici nelle età più remote, fino ad arrivare forse al neolitico e fors’anche al paleolitico salentino, a noi più vicine nel tempo rispetto ad altri periodi antichi del resto della Terra. [7]
Da tante scene crude del libro si comprende come vi sia un ordine che deve essere ristabilito. E il ritorno all’ordine è spietato, violento: Alepia ristabilisce la sua terribile armonia. De Martino ricollega ancora alle società contadine questo stesso concetto di riequilibrio:
Innanzitutto il mietere è visto come “violenza”, “uccisione”, “colpa”…[…] “L’altro che ha recato violenza è punito dalla sua colpa, l’ucciso è vendicato”, cioè l’operatore simbolico su cui si è trasferita e concentrata l’operazione del mietere è oggetto di comportamenti rituali compensatori e equilibratori dell’ordine violentemente alterato. [8]
Alepia non cambia mai e non succede mai nulla, ma la violenza dei suoi rituali ha conseguenze, scopi e natura sue proprie. È una domanda ricorrente in Madonna Nera e si lega al rituale del lancio delle mandorle per restaurare i suoi denti. [9] Ho provato a indagare queste conseguenze nelle loro radici storiche e culturali. Per tutta questa costellazione di nascosti motivi simbolici, ma anche per il semplice piacere della lettura di un folk horror ben scritto, vi consiglio di provare ad immergervi in questo romanzo di Germano Hell Greco, facendovi risucchiare nell’oscuro mondo primitivo di questa Puglia, di Alepia e dei denti di Santa Feba.
BIBLIOGRAFIA: E. De Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di A. Signorelli e V. Panza, ARGO s.c.r.l., Lecce, 2011
G.H. Greco, Madonna Nera, Acheron Press, Città di Castello (PG) 2024.
M. Nocera, Il morso del ragno. Alle origini del tarantismo, Capone Editore, Lecce 2005
NOTE: [1] G.H. Greco, Madonna Nera, Acheron Press, Città di Castello (PG) 2024, p. 21.
[2] G.H. Greco, Madonna Nera, op. cit., pp. 132-133.
[3] M. Nocera, Il morso del ragno. Alle origini del tarantismo, Capone Editore, Lecce 2005, p. 122.
[4] G.H. Greco, Madonna Nera, op.cit., p. 143.
[5] Ivi, p. 141.
[6] E. De Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di A. Signorelli e V. Panza, ARGO s.c.r.l., Lecce, 2011, p. 158.
[7] M. Nocera, Il morso del ragno. Alle origini del tarantismo, op.cit., p 125.
[8] Ivi, p. 159.
[9] G.H. Greco, Madonna Nera, op. cit., p. 142.
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Il frusciare dell’erba alla fine del mondo
1.
Lo spazio è anche una dimensione che, per poter essere vissuta, deve essere in qualche modo “addomesticata”. “Essere nello spazio” significa entrare in rapporto con un mondo noto oppure sconosciuto, apportatore di tranquillità e sicurezza nel primo caso o di paura e di sconcerto nel secondo. [1]
Mi chiamo Emanuele ed è il frusciare dell’erba che mi ha spinto a raccontare questa storia. Un frusciare sinistro. Pieno di zampe e di creature striscianti.
Mi trovavo in quel periodo presso la città di San Martino per svolgere una ricerca antropologica sul particolare carnevale che si svolgeva in quella zona, coinvolgendo curiosi da tutti i paesi limitrofi. Si diceva a San Martino il Carnevale legasse le persone tra di loro più che altrove. Molto presto avrei capito il perché…
In quella terra sferzata dai venti delle colline e dall’aria delle montagne vicine, l’immagine di trovarsi in uno splendido paesaggio non è affatto scontata.
Dovevo raccogliere i dati per l’università nell’ambito di un progetto di ricerca sulle zone locali e le loro tradizioni folkloristiche. Addentrarsi in quelle zone poco visitate dai turisti è come andare a scoperchiare un vaso dimenticato in cui non guarda più nessuno. Abbandonato o lasciato andare a riempirsi di erbacce in un angolo, a esplodere per le troppe radici o a farsi riempire di merda dai gatti…una simpatica e nuova lettiera!
L’erba frusciava.
Fischiettando un motivo qualsiasi, entrai nel vicolo principale del quartiere. Avevo lasciato la macchina in un parcheggio esterno, all’entrata del paese. Abbassai il mio cappello a falde larghe, ormai ingiallito dalla polvere. Da buona macchietta western, fischiettavo un motivo country-blues, sentito poco prima in macchina. Mi ero portato con me il mio zaino con dentro il taccuino, una macchina fotografica e un registratore. Volevo fare qualche intervista preparatoria.
L’erba frusciava.
Mi diressi in un bar per prendere un caffè. Il luogo odorava di un misto di candeggina e profumi vari di cucina. Un anziano da dietro il bancone mi scrutò con fare indagatore. Mentre bevevo il caffè scuro, divenne stranamente loquace:
«Cosa la porta qui?»
«Sono qui per il Carnevale.»
«Ah, è un turista?»:
«Non proprio, sono un ricercatore.»
«Lavora per l’Università quindi. In cosa?» Il vecchio era stranamente informato.
«Antropologia. Vorrei cercare di capire questa festa. Immagino che ci vorrà proprio un ingegno di un certo tipo.»
«Per cosa?»
«Per fare l’antropologo? Sa, l’uomo è una bestia così strana?»
«Davvero?» la sua lucidità mi colpiva:
«Beh…da qualche parte qualcuno deve pure cominciare.». Non sapevo cosa rispondere.
“O continuare…immagino che vorrà proprio un’intervista.”.
“Uhm…stavo proprio per chiederlo?”
“Siete per caso cugini dei giornalisti?”.
Ero troppo sfrontato. Non si entra così nelle comunità chiuse. Era meglio prima fare la parte del turista scemo che fotografa tutto. Tuttavia, così non sarei mai entrato.
“Può chiedere a tutti i vecchi come me che vede nell’angolo in fondo.” Mi disse il gestore, indicando una serie di signori sorridenti, intenti a giocare a carte con il loro bianchino immancabile in mano.
Non mi ero aspettato un clima così gioviale.
«Lei si chiama?»:
«Gigi.».
«Cos’ha di speciale questa festa? Cosa lascia ai suoi abitanti?» Avevo fatto partire il registratore.
Mi fiondai dal primo di questi anziani avventori.
«Signor…?»
«Giuseppe…chiamami Beppe!» Rispose lui, mettendomi davanti un piatto di patatine e olive.
2.
Il mio unico e nobile cuore ha testimoni
In tutti i luoghi d’amore, che andranno svegli a tentoni;
E quando il cieco sonno cadrà sui sensi che spiano,
Il cuore sarà sensuale, anche se cinque occhi si spaccano.[2]
La trovai fuori a cucire, ma lei scappava…! Si allontanava come impaurita, come se io fossi una presenza oscura, proveniente dal suo lontano passato.
L’erba frusciava.
Cercai di descriverlo a parole mie:[3]la presenza era il ricordarsi di esistere per non sparire nel vuoto. Non annegare nel tempo che passa. Combattere il fantasmagorico, la dissolvenza con un gesto perentorio di identità.[4]
Io intanto pensavo a quei brani di testo che mi martellavano nel cranio, mischiati ai pezzi thrash-prog che venivano dalle mie cuffie. Voivod, Annihilator… così stranamente canadesi. Melodie oblique, con testi fantascientifici, arpeggi da ballata misti a chitarre distorte in overdrive, armonici fischianti e batterie tupa-tupa che sapevano tanto di punk/hc, prima dell’arrivo di tutti quei melodici pompeggianti da college (qualcuno ha detto Travis Barker?).
“Ci sono altre donne!” mi urlò una volta, in un dialetto di difficile comprensione, che poi mi tradussero i miei compari.
La lingua parlata da quei popolani era diversa da tutti i gruppi linguistici prevalenti nei dialetti della zona.
I miei compari del bar mi indicavano altre donne, ma il risultato era il medesimo.
La domanda numero 1 era questa: perché le donne scappano, mentre invece gli uomini rimangono a chiacchierare anche troppo?
Le sotto-domande erano: poteva essere un costume o una tradizione locale? Una convenzione culturale?
Annotai tutto nel taccuino.
L’erba frusciava.
Una seconda versione, più schematizzata e ordinata era poi riportata nel tablet, in formato elettronico.
Emergevano altri nomi, come Amalia e Vittorio, che rimanevano sullo schermo del pc.
I maschi scherzavano sulla loro ignoranza, dicevano di non sapere niente, e infatti dai loro discorsi non si poteva comprendere ancora alcunché. L’erba frusciava.
Girando in uno dei vicoli consigliati scorsi, appena fuori da una porta, una massa di capelli biondo cenere che incorniciavano due occhi grigi che mi fissavano. Accennai a chiamarla, ma sentivo solo «Figlia, figlia! Figlia! Torna dentro!». Iniziavo a capire qualcosa. Gli occhi esitavano.
«Camilla, torna dentro»
Allora la porta si chiudeva, sprangata. Inutile diventava il mio bussare sugli stipiti antichi e urlare:
«Aspetta un attimo! Aspetta…aspetta. Voglio solo parlare!».
Rimanevo ancora con un risultato praticamente nullo.
L’erba frusciava.
3.
La notte del carnevale vi erano dei fuochi d’artificio che illuminavano il cielo, dipingendolo di mille colori, come se un pittore li avesse spruzzati lanciando il suo pennello verso il cielo.
L’erba frusciava.
La musica degli strumenti tradizionali riempiva l’aria: tamburi, cimbali, flauti, chitarre, trombe e piccoli strumenti ritmici. I bambini accompagnati dai loro genitori erano vestiti con i soliti costumi da supereroi della Marvel o della DC Comics, inframmezzate da qualche principessa Disney. Il vino tipico di San Martino scendeva a fiumi: era quello denso e liquoroso tipico di quelle parti, scuro. Veniva “mesciuto” (versato) nei bicchieri o nelle tazze delle osterie o da bancarelle poste ai lati della strada. Le persone poi si attaccavano al collo il bicchiere.
Io osservavo, filmavo e fotografavo. Non disdegnavo poi un bicchiere di vino in giro, lo facevo scendere nella gola e poi giù ad ubriacare lo stomaco con il gusto dionisiaco dell’ebbrezza!
Cercavo in mezzo alla folla di rilevare quei meccanismi strutturali di inversione così caratteristici dei rituali come il Carnevale, sottolineati già sia da emeriti storici che da antropologi. Inversione dei ruoli, dei costumi, delle convenzioni sociali, dei generi ecc.
E della realtà, degli strani mondi simbolici in cui vive l’uomo ordinario? Cercavo delle costanti strutturali nel rituale del Carnevale di San Martino e mi creavo le mie definizioni provvisorie, sulla base delle mie sensazioni, del vino e delle mie conoscenze pregresse, scribacchiandole sul taccuino macchiato: l’inversione consisteva nel rigirare qualcosa come un calzino, per far sì che appaia completamente diverso, ma i materiali di partenza sono gli stessi.
Mi mischiai alla folla e mi diressi con loro verso ai campi, come guidato da una mano invisibile, in quelle strade strette e polverose, piene di ciottoli. Vi era una terza persona a cui pensare? Un terzo concetto per ampliare la triade fondamentale di questo carnevale? Continuavo a camminare, pestando i ciottoli con i miei sandali tutti impolverati. Sentivo la terra tra le dita dei piedi. Il volume della musica aumentò, sia nel ritmo che nell’intensità.
Ed ecco apparire questi uomini giganteschi, vestiti con del pelo e delle zampe penzolanti e brulicanti dai fianchi e dalle spalle.
No, non erano del tutto umani. Sembravano ragni umanoidi che si reggevano sulle zampe posteriori simili a gambe. Alti, alti quasi tre metri…sovrastavano il più alto degli uomini.
La folla osservava i fuochi nel cielo, come se ne stanno gli stormi di uccelli indifferenti, quando arriva il falco predatore a ghermirli.
Quei bestioni strinsero la folla, le salirono praticamente sopra, afferrando le persone con le zampe laterali tentacolari, che si allungavano attorno come fili, come corde, ammassandoli in gruppi più che numerosi…
Il terzo concetto mi venne allora in mente era “legare”, cioè unirsi, unire elementi diversi in unità più o meno omogenee, più o meno dotate di senso. Fare in modo che diventino indispensabili l’uno per l’altro.
La folla urlava «I Diablos! I Diablos».
Tuttavia, non sembravano disperati; anzi, in una sorta di trasfigurazione sadomasochistica, quando vennero legati ridevano e sembravano pure provare una sorta di piacere, molto forte. In realtà, i lacci erano organici e molto elastici, come tessuto, perché permettevano una certa libertà di movimento, non so se indotta dai Diablos o provocata in maniera autonoma dai catturati. Le persone danzavano dentro a quei lacci. Anche i Diablos ansimavano, era un continuo ansimare collettivo.
La componente di erotismo, di sensualità, presente in quel carnevale era palpabile, pulsante. Gli occhi dei Diablos sembravano illuminarsi della luce della luna. I catturati, mentre ballavano, iniziarono a staccare dei piccoli pezzi dai tentacoli dei Diablos e questo sembrava inebriarli ancora di più.
L’erba frusciava.
4.
Mi sentii tirare per un braccio.
Fui trascinato dietro gli alberi di ulivo, in un campo.
Era Camilla, ragazza dai capelli biondi e dagli occhi grigi. Era buio, vedevo solo quegli occhi perforanti e sentivo quei capelli sulla mia pelle. La presa era forte, nonostante il suo corpo fosse molto gracile e minuto. Decisamente salda!
«Ma cosa…?» Annaspavo, volevo dirle tante cose, tutte le domande che mi ero lasciato dietro dall’altra volta.
Mi venne fuori solo un barcollante e balbettante:
«Perché sei scappata l’altra volta?».
Camilla non mi rispose, mantenendo la stessa presa enigmatica di prima, fissandomi con lo stesso sguardo.
Ad un tratto, veloce come una lucertola al sole, chiuse la distanza e mi baciò. Mi sentii come attraversato da una forza di attrazione unica, come una scarica elettrica che mi collegò all’improvviso all’intero universo. Immagini continuavano a scorrere in me, come un flusso visionario.
Non era la solita eccitazione sessuale o di semplice piacere.
Fatto sta, che non potevo muovermi.
Lei mi spinse sdraiato a terra, avvinghiato ancora a lei. Sentivo il mio sesso pulsare e strisciare contro di lei, spingendo affannosamente. Le sue mani cercarono la mia nudità e mi spogliarono, i capelli folti mi coprirono il viso come una carezza, la sua gonna si aprì e mi inglobò.
Non in una maniera ordinaria, ma avevo la sensazione di un corpo che si espandeva sempre più attorno a me come per divorarmi, farmi diventare parte di lui.
Strani tentacoli arrivarono dalla sua bocca, dalla sua lingua fino in gola e poi giù fino allo stomaco, come su fino al cervello. Eravamo connessi.
Dall’interno della sua pelle era come se qualcosa stesse spingendo per bucarla, per stringermi ed entrare al di sotto della mia epidermide. Tuttavia, non provavo dolore, ma solo piacere e desiderio di conoscere.
Era come se Camilla stesse usando il mio corpo per portarmi dall’altra parte del cosmo, percorrendo infinite galassie. Era come se parlasse dal suo interno, che era ormai anche il mio interno, dal suo ventre collegato al mio:
«Vecchia di milioni di anni è la storia. Arriviamo da un’altra parte dell’universo, da un’altra galassia, ma non per colpa nostra. Furono i Dominatori, la razza dei nostri padroni da infiniti eoni, a farlo. Non noi Diablos. Ci fecero entrare in alcuni portali grazie alla loro scienza e poi ci fecero scorrazzare, prendendo possesso di un pianeta giovane. Era già stato fatto altre volte e così fecero sulla Terra, ma gli umani, nelle loro prime fasi, resistettero strenuamente, ci cacciarono, unendosi. Noi ci ritirammo in questa zona, chiamata poi da loro San Martino. Allora, puniti per il nostro fallimento, perdemmo qualsiasi contatto con i Dominatori, che ci lasciarono qui a cavarcela da soli.
E allora i maschi della nostra specie decisero di raccogliere energia dagli umani, grazie ad un’imitazione di quello che voi chiamavate Carnevale. Diventammo simili a voi esteriormente e vi facemmo divertire, dandovi piacere con i nostri tentacoli e rubandovi le vostre energie vitali, per cercare di riaprire quei portali.
Noi femmine ci ribellammo a questo, volevamo trovare altri modi: perché tornare dai Dominatori schiavisti?
Ci sono stati degli errori nel Seicento, delle persone sono morte per esaurimento e allora gli ispettori del Regno si sono insospettiti. Ma poi eravamo troppo sperduti, è passato. Con gli anni siamo diventati bravi, ci siamo saputi travestire meglio da umani, rendendoci uguali a voi, irriconoscibili.
Qualcosa di te rimarrà dentro di me e vedremo cosa ne verrà fuori.
Il nascituro potrebbe essere un’altra strada…
Intanto, eviterò per un po’ questo progetto di apertura del portale.
I Dominatori sono crudeli, vogliono solo la distruzione delle altre razze o la loro riduzione in schiavitù.
Noi non stiamo male qui, nonostante le leggende propugnate dai maschi sul nostro vecchio pianeta.
Prega perché quel portale non si apra mai, perché troppo grande potrebbe essere l’orrore!
Lascia perdere la tua ricerca, hai già trovato troppo per te, troppe informazioni per un mero studioso di antropologia.
Lasciami qualcosa di te e ora vai…!».
Un flusso energetico insorse di colpo, come per riportarmi indietro da quelle epoche e galassie remote. Un corpo che si modifica in un canale di energia, attraversando una moltitudine di mondi connessi. I suoi occhi-il suo corpo-l ’amplesso-il mio sperma-il portale e i Dominatori!
Ero confuso, stordito, tramortito, frastornato da un viaggio troppo grande.
Brancolando nel ritorno all’esistenza naturale terrestre, ubriaco di troppo vino cosmico, mi staccai da lei che mi lasciò andare da sé. Mi sentivo ancora tutto umido e appiccicoso, ancora segnato sulla pelle e maledetto nello spirito.
Raccolsi i miei vestiti, ripresi il mio zaino e mi inoltrai tra gli alberi, mentre le persone erano ancora avvinghiate ai maschi. Camilla era ancora in mezzo al campo a ricomporsi. Quando mi girai per incrociare ancora il suo sguardo e guardarla un’ultima volta, lei era già scomparsa, sfuggevole come sempre.
Mi era venuta voglia di un ulteriore bacio per assaporare ancora il succo del sapere intraducibile.
Sapevo anche troppo ed ero privo di energie.
Mi feci strada tra gli alberi e campi verso il parcheggio, saltando il baccanale.
San Martino era uno “spazio altro” creato a immagine di una razza aliena, che però sapeva ben nascondersi nel folklore.
Giunto al parcheggio esterno, buttai tutti i miei averi nel bagagliaio e, con una sgommata, lasciai il paese dei Diablos, consapevole che non avrei mai finito il mio progetto di ricerca sui territori locali.
Sicuro che non mi avrebbe creduto nessuno, che chiunque dei miei colleghi mi avrebbe ritenuto pazzo.
L’erba frusciava, e io scrissi questo testo anni dopo, per togliermi questo oscuro pensiero dalla mente:
Ti Rivedrò Mai Aliena Spettrale.
Camilla, madre di nostro figlio?
L’AUTORE
Davide Russo nasce a Milano il 5 aprile 1987.
Lavora come educatore scolastico, principalmente alle scuole medie ed elementari e adora stare “in mezzo alla mischia”. con bambini e ragazzi, per usare una metafora rugbistica a lui molto cara.
Suona il basso, sia elettrico che acustico, e pratica per passione arti marziali, in entrambi i casi con varie e diversificate esperienze.
Gli piace leggere e scrivere in maniera altrettanto onnivora ed eterogenea, sperimentando con i generi e le soluzioni.
Per il resto, è vegetariano e vive in campagna con la sua compagna, suo figlio e i suoi tre gatti.
Ha scritto alcuni articoli pubblicati su riviste online, alcuni racconti presenti in raccolte della Colomò Edizioni e fa parte del Gruppo Telegram Lovecraft Italia.
[1] U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori Università, Città di Castello 2009, p. 107. Anche lo spazio si riveste spesso di valenze qualitative nelle diverse culture, costituendo un elemento centrale per la memoria di un gruppo, cioè la sua memoria sociale. Da tutto questo sorge la necessità, presente in tutte le culture umane, di concepire un centro che valga come punto di riferimento e di sicurezza: un luogo noto e controllabile.
[2] D. Thomas, Poesie, Edizione speciale per il Corriere della sera, RCS Quotidiani Spa, trad. di R. Sanesi, Milano 2004, p. 91
[3] Parole chiare? Nodi o nuclei di quello che sto cercando? Almeno a livello concettuale?
[4] Ecco invece le parole degli altri, quelli più autorevoli, a cui mi ispiravo senza pudore e che molti avranno riconosciuto:
U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, op. cit, p. 125: “La presenza a cui De Martino fa riferimento è una condizione che l’essere umano non cessa di costruire per sottrarsi all’idea, angosciosa, di non esserci. De Martino descrisse infatti l’emersione del pensiero magico come primo tentativo coerente di affermare la presenza umana nel mondo. Il mago (come lo stregone) è la figura centrale di questo drammatico tentativo di superare l’annientamento, tentativo che coincide con l’affermazione del mondo magico come spazio di pensiero e di azione in cui l’uomo afferma la propria «volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci».”[4]
Illustrazione di Flavio Deri.
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Il fantastico come messa a fuoco della realtà: i Sessanta racconti di Dino Buzzati
Pur originate quasi sempre dal quotidiano, le sue storie tendono a subire una trasformazione simbolica e fantastica, che si attua mediante un’anomalia, un caso curioso, un effetto a sorpresa. L’elemento soprannaturale non è un modo per evadere dalla realtà ma è, al contrario, uno strumento efficacissimo per decifrarla; una lente deformante, ma rivelatrice, che mette a fuoco le nevrosi dell’uomo moderno. Un marcato pessimismo permea quasi tutti i racconti; una visione dolente dell’uomo e del suo destino che non lascia posto a messaggi consolatori. 1
Questi Sessanta racconti mi hanno fatto scoprire un Dino Buzzati
inedito, rispetto a quello scolastico, comunque sempre apprezzato,
che lessi alle scuole superiori. Mi riferisco al classico romanzo Il
deserto dei Tartari, ma Buzzati non mi aveva ancora
spalancato le porte del fantastico italiano. Nel suo “realismo
magico” o “realismo fantastico”, si scorge una via nostrana
originale per attingere all’orrore, al perturbante e a quello che
nell’immaginazione può anche sfuggire al controllo originale che
pensavano razionalmente di avere i personaggi.
Ogni
racconto rappresenta un mondo a sé, che attinge volta per volta
dalle vicende storiche, dal gotico alla fantascienza oppure dalle
storie di fantasmi fino alle storie di spionaggio.
Lo
stile è sempre quello serio ed esatto, ma al tempo stesso ironico e
tagliente. Viene utilizzato un italiano medio, in un linguaggio
asciutto, quasi giornalistico, per citare un’altra attività in cui
si cimentò per anni Dino Buzzati e che riversò nella sua
scrittura. Si intravedono nei molteplici temi evocati da queste
pagine le sue passioni come la natura, con una particolare
predilezione per la montagna (si pensi alla sua nativa Belluno) o
alla Luna:
Dunque le leggi eterne si erano spezzate, un guasto orrendo era successo nelle regole del cosmo, e forse quella era la fine, forse il satellite con velocità crescente sta ancora avvicinandosi, tra qualche ora il globo funesto si allargherà a riempire interamente il cielo, poi la sua luce si spegnerà entro il cono d’ombra della terra, né si vedrà più nulla finché, per un’infinitesima frazione di secondo, ai fievoli riverberi della città notturna, si indovinerà un soffitto scabro e sterminato di pietra precipitante su di noi, e non ci sarà neppure il tempo di vedere; tutto sprofonderà nel nulla prima ancora che le orecchie percepiscano il primo tuono dello schianto.2
Non
manca nemmeno l’arte (Buzzati, oltre che scrittore e
giornalista, fu anche un pittore del fantastico) in particolare
visiva, tra gli argomenti celebrati in questa raccolta, dimostrando
una conoscenza approfondita di tali tendenze, su cui Buzzati
si permette di scherzare con sarcasmo, prendendo in giro gli
atteggiamenti snobistici e manieristici dei critici:
Ma se – fu la domanda che egli rivolse a se stesso d’improvviso – se dalla poesia ermetica è germinata quasi per necessità una critica ermetica, non era giusto che dall’astrattismo nascesse una critica astrattista? Rabbrividì quasi, misurando confusamente gli sviluppi di una così audace concezione. Un vero colpo d’ala. Semplicissimo, eppur così difficile come tutte le cose semplici. Tanto è vero che nessuno ci aveva mai pensato. E lui sarebbe stato il caposcuola. In pratica non restava che da trasferire sulla pagina la tecnica finora adottata sulle tele.3
Vi
sono racconti che potrebbero rappresentare sceneggiature per film
come il Villaggio dei Dannati, come, ad esempio, Non
aspettavano altro:
Risate e grida si levarono. «Fuori, fuori dalla fontana! Fuori!» Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia di umiliare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall’accento si capiva ch’era forestiera.4
La letteratura fantastica in Buzzati è un gioco in cui il lettore viene lasciato libero di scegliere se accettare o no il soprannaturale. L’angoscia e la responsabilità ad esso collegata nascono sempre dall’imprevedibilità del caso. Nei racconti di questo libro, il fantastico si insinua nelle pieghe del quotidiano, concepito alla stregua di un modo alternativo di vedere il nostro mondo o il nostro universo materiale. E da questo reale, Buzzati permette a chi si immerge nei suoi racconti di estrarne delle risonanze inedite e stranianti, mai notate prima. 5
BIBLIOGRAFIA:
D.
Buzzati, Sessanta racconti, ed. Mondadori, Milano 2016.
Aavv, Guida alla letteratura horror, a cura di G. F. Pizzo, Casa
Editrice Odoya srl., Bologna 2014.
SITOGRAFIA:
1 Aavv, Guida alla letteratura horror, a cura di G. F. Pizzo, Casa Editrice Odoya srl., Bologna 2014.
2 D. Buzzati, Sessanta racconti, ed. Mondadori, Milano 2016, p. 308
3 Ivi, p. 410.
4 Ivi, p. 286.
5 Per approfondire questo lato gnoseologico e in generale filosofico dell’opera di Buzzati, consiglio questo bellissimo numero monografico della rivista Antares, edizioni Bietti: