Il veliero di pietra

Il veliero di pietra si è arenato al centro del giardino. Robuste catene di rampicanti lo condannano a una ingloriosa morte per muffa e abbandono. Povero simulacro che mai ha solcato l’oceano! Eppure, qualche lembo di pietra libera dalla corrosione biancheggia qua e là simile a incrostazioni di sale; così non è difficile immaginare che questa grande carcassa immota sia stata un tempo regina dei mari, e soltanto la rabbia di un tifone l’abbia strappata al suo elemento naturale, scaraventandola a miglia e miglia dalla costa, come per dispetto. Il giocattolo infranto del Gigante Verde ora giace qui, senza vita, senza suono. Niente vento a destare voce di sirene tra gli alberi smozzicati e nudi; lungo le sue fiancate niente correnti in carezze liquide a cui rispondere con sospiri e gemiti di voluttà del fasciame.

Il veliero morto tace. Per sempre. Ma ha mai parlato? Ha mai cantato, insieme al vento? Ha mai respirato al ritmo della marea? Ha mai avuto vita?

*

– Sono qui, sono qui! – gridò Petra picchiando i pugni contro la porta chiusa. – Ehi! Sono qui!

Le voci l’avevano strappata da un torbido dormiveglia… non dormiva mai un vero sonno su quella branda… e da principio aveva pensato che lui stesse dando qualche festa, che avesse degli ospiti. E si era rannicchiata ancor di più su quella branda, tirandosi le lenzuola sul capo.

Poi l’avevano raggiunta i richiami, il rumore dei passi; e dal tono delle voci aveva capito: era salva.

*

Tutta la mia vita è come questo veliero di pietra. Forse, un tempo, quand’era appena stato scolpito, e le intemperie e l’edera non l’avevano ancora storpiato, poteva apparire quasi reale. Una vera nave pronta a salpare. Ma come farsi illusioni sulle vele? Non ne ha mai possedute. Ha sempre teso al cielo alberi nudi.

Così la mia vita. Senza il vento a darle voce. Non ha mai preso il largo. Si corrode, giorno per giorno immota, in un giardino di pietra.

*

– Se vuoi, posso trovarti un interprete che parli polacco.

Petra scosse la testa. – Non c’è bisogno. – Una scintilla di sorriso animò per un istante il suo pallore. – Conosco tante lingue, sa? Ho fatto gli studi per il turismo.

La donna in tailleur grigio, che stava seduta accanto al letto, piegò la testa in un cenno d’assenso, senza scomporre una sola ciocca dei capelli color miele.

– Te la senti di raccontarmi com’è andata?

Petra si guardò le mani, le unghie rose nell’angoscia di tante settimane. – Sì – rispose. – Certo. Ero appena uscita di casa, andavo al lavoro…

*

Nel mio sogno stavano tutti in fila. Silenziosi, compunti e pallidi.

Bambini. Ce n’erano forse un centinaio. La fila iniziava dal cancello del parco e arrivava fino alla nave. E si muoveva. Adagio, un passo alla volta. L’andatura di uno stupido bruco remissivo. Su per una passerella di marmo bianco.

I bambini salivano in silenzio. Sui loro volti non c’era sgomento. Ma neppure curiosità e aspettativa. Eppure sapevano che si stavano imbarcando per un viaggio meraviglioso ai confini del mondo… E sarebbe stata la loro voce, a guidarli! Al levar della luna, si sarebbe levato anche il loro canto. Note aeree e vibranti, una brezza che avrebbe gonfiato le vele.

Il capitano stava a prua, in piedi, le braccia conserte sul petto. Immagine della solidità e della calma. La sua divisa era bianca come il marmo della passerella lungo la quale salivano i bambini, e su di essa rilucevano galloni d’oro.

Aveva un volto vagamente familiare, il capitano. Pensavo fosse mio padre. Mio padre lontano da così tanto tempo, ormai, che per sostituirlo mi ero scolpito mille nebulosi simulacri con milioni di differenti espressioni, e abiti, e sguardi. Ma quest’uomo! Gli occhi limpidi e ardenti, come certe gemme in cui ancora pulsa il fuoco sotterraneo che le ha modellate; la fronte appena increspata, come un mare in bonaccia; la voce… udivo i suoi ordini fluire con la cadenza di una leggenda raccontata attorno a un fuoco… Doveva essere lui. Il padre mai conosciuto.

Ma adesso che sono cresciuto, so la verità.

Ero io. Sono io, il capitano.

*

– È stato per il mio… aspetto, si dice così?

La donna in grigio annuì. – Sì. Ma cosa vuoi dire?

Petra si sporse verso di lei, stringendo tra i pugni il crocchiante cotone di quelle lenzuola d’ospedale, gualcendolo. – I miei vestiti! I calzettoni, soprattutto. E le scarpe senza tacco…

*

Stiamo salpando. Sento il fremito della pietra sotto alle piante dei miei piedi nudi. Un capitano dalla divisa bianca e oro, e scalzo!

Cerco con lo sguardo le vele. So che ci sono! Ma non riesco a vederle. C’è troppa luce, e l’azzurro fulgido del cielo mi si riversa negli occhi come metallo fuso. Ma le vele devono esserci. Altrimenti non potremmo salpare.

Le vele che io ho creato! E le gonfia il canto di cento limpide voci.

Il lungo stridore delle catene, come il grido di un rapace che spicca il volo dalla roccia più alta.

Salpiamo!

*

– I clienti ci vanno pazzi, capisce. Anche se ho diciassette anni, a loro pare che ne ho di meno. Tredici… Dodici. Anche perché sono magra, con poche tette. Credono che sia piccola. Una bambina.

*

Mi sono sentito tirare per la manica. Era il mozzo: corpo di un bambino di dieci anni, volto di centenario.

– Capitano, venga a vedere cosa abbiamo pescato!

Lo seguo. A poppa.

– Un tesoro, capitano!

La rete avvolge la creatura in una trina d’argento, e alla prima occhiata ho pensato si trattasse di una bambola. Una stupenda bambola alla deriva, una polena scampata a un naufragio.

Ma c’è questo scintillio d’oro che l’avvolge dai fianchi in giù… Squame: delicate come il disegno rishi su un sarcofago egizio. E la pinna è ventaglio di geisha.

Respira. È viva.

I seni, appena accennati in un biancore rosato tra le onde azzurre dei capelli, fremono all’alito della vita.

Mi chino su di lei, la libero dalla rete con mani tremanti per l’impazienza, goffe per la cautela che m’impongo. È così delicata…

I suoi capelli dilagano come acqua sulla pietra grigia del ponte. Folti come le alghe degli Abissi!

Il viso ha la perfezione di un cameo scolpito nel corallo bianco. Labbra di madreperla.

Per svegliarla, le canto un’antica canzone che parla di isole lontane.

Lei schiude le palpebre, fini come ali di falena.

I suoi occhi!

Sono neri.

*

– Mi ha presa alle spalle. Ho sentito un rumore, come quello che fa una bomboletta di deodorante… Qualcosa sulla faccia. Un odore… Non ho capito più niente. Poi mi sono svegliata in quella stanza orribile…

*

Non parla. Si limita a fissarmi con quegli occhi notturni. Il suo sguardo è ali di pipistrello e pleniluni invernali.

Con la lingua, ho cercato perle tra le sue labbra. Qualcuno mi ha raccontato, tanto tempo fa, che sono lacrime degli dèi.

Ma lei è rimasta immota, come se non le importasse.

Ho accarezzato quei suoi seni di madreperla. Nessun fremito, quasi che in quell’istante anche il respiro si fosse fermato.

E lei ha continuato a guardarmi. Nessun indizio d’alba nelle sue pupille.

Se soltanto mi dicesse come strappare via quelle preziose eppure orride squame, e rivelare le sue gambe di danzatrice! L’accompagnerei in un lungo valzer su questo ponte di pietra.

Se mi dicesse…

Scenderei negli Abissi, per lei. Affronterei la strega e le porterei il filtro magico che opererebbe il miracolo.

Sirenetta, questa volta non sarai costretta a rinunciare alla tua voce, per il privilegio di danzare tra gli uomini. Sarò io a vendere per te il mio respiro, il mio sangue, il mio nome.

Soltanto per vederti danzare.

*

– Non c’erano finestre, mi sentivo soffocare. Quando ho cercato di muovermi, mi sono accorta di essere incatenata al letto. E poi ho visto tutte quelle cose intorno a me… I ferri nel muro, le corde che pendevano dal soffitto… e le fotografie! Anche ritagliate dai giornali. Fotografie di bambini.

 *

Di nuovo, mi sono sentito tirare per una manica.

Era sempre lui, il mozzo con il corpo decenne e il volto centenario.

– Non ci ha pensato, capitano? Forse lei ha già venduto la propria voce. L’ha venduta per trasformarsi in sirena!

*

– Quando si è accorto che non ero vergine, che non ero una bambina… Adesso mi ammazza, ho pensato. Sì, lo avrebbe fatto comunque, se ne sentono tante, oggi, su questi porci… Ma capisce, anche questo… Si sentirà preso in giro, mi sono detta. Mi guardava in un modo così strano…

*

È vero che hai venduto la tua voce per l’oro di queste squame? Non posso crederti così venale.

Dev’essere stato per amore del mare. Certamente.

Ma tu non rispondi, e i tuoi occhi notturni non si stancano di rovesciarmi addosso oscurità e silenzio. Il tuo silenzio! Non basta, a soffocarlo, il canto delle piccole voci che sale dalla stiva.

Alzo lo sguardo. La luna deride il mio desiderio. Sul suo biancore si disegna, nera, la nudità dell’albero maestro.

*

– Dopo qualche giorno, mi ha portato un televisore, e un lettore DVD. E mi ha costretta… per ore!… a guardare quelle scene orribili. Diceva che dovevo vederle, così l’avrei aiutato a capire dove aveva sbagliato. Pensava, mi ha detto, che l’innocenza dei bambini l’avrebbe purificato dal… peccato della sua nascita. Quando ne avesse raccolta abbastanza… Diceva che era come tuffarsi in un mare di latte, o nel vento. Il vento è puro.

*

Il vento è puro. E canta.

*

L’uomo entrò senza bussare. La sua divisa giustificava la scortesia.

La donna in grigio si volse, gli scoccò uno sguardo interrogativo.

– Ancora niente – rispose l’uomo. – Non siamo neppure riusciti a scoprire chi ha fatto la telefonata. – Guardò brevemente Petra. – Hai avuto fortuna – disse, e suonava quasi come un rimprovero.

– I vicini? – chiese la donna in grigio.

– Non sanno niente, come c’era da aspettarsi. Lo hanno descritto come il solito tipo insignificante, solitario. Nemmeno nell’ufficio dove lavorava sanno gran che di lui. Ma sembrano sinceri. No, chi ha fatto la telefonata doveva essere uno che conosceva bene quella casa, sapeva della cantina e della stanza dietro la finta parete.

– E i corpi dei bambini?

– Niente, per ora.

– Chissà dove può averli nascosti… Magari li ha bruciati.

Due paia d’occhi (castani quelli dell’uomo, grigi quelli della donna) fissarono Petra. Lei scosse la testa.

– No, io non so niente di questo, non me ne ha mai parlato. Anzi, si comportava come se lui, a quei bambini, gli avesse… fatto del bene. Li ho liberati, diceva. Ho liberato le loro… le loro voci.

*

Mia madre mi ha sempre detto di stare attento alle sirene. Fin da quand’ero bambino. Me le additava, mentre al crepuscolo nuotavano seguendo le risonanti correnti dei viali periferici, s’immergevano sotto le volte sotterranee dei metrò, si spiaggiavano attorno ai piazzali delle stazioni.

Tornavamo verso casa, rinchiusi nell’auto come in una conchiglia di metallo. Protetti. O prigionieri?

Con me era l’odore di polistirolo e plastilina dell’aula scolastica. Lei odorava del sudore di una giornata spesa a pulire le case degli altri.

E a casa nostra ci aspettava odore di chiuso e cibi freddi. Mentre là fuori… Profumo di vento tra le cime degli alberi, salmastro dei lontani oceani tra i capelli delle sirene.

Guardati da loro! Ricordalo sempre. Il loro amore è letale. È per una di loro che tuo padre s’è perduto, lontano, imprigionato nella barriera corallina delle sue labbra.

E io promettevo, obbediente e remissivo come un bravo bambino dev’essere.

Ma sognavo la voce del mare.

*

– Mi diceva delle cose così strane… Che mi amava. Era il suo destino. Aveva fatto di tutto per evitarlo, ma era scritto nel… nel suo sangue. Mi amava. E mi avrebbe portata con lui a fare un viaggio… su una barca…

La donna in grigio inarcò le sopracciglia bionde. – Una barca?

L’uomo in divisa scosse la testa. – Non ci risulta, ma potrebbe anche essere. Certo che, se ha tagliato la corda stamattina, a quest’ora sarà già in Riviera.

Petra alzò le mani, piccole mani bianche dalle unghie consumate, a implorare attenzione. – No, no. Non credo che parlasse di una barca vera. Mi diceva che non poteva navigare, perché … perché era di pietra.

*

Sognavo…

la voce…

del mare…

*

– Villa Solari! – esclamò l’uomo in divisa.

Le sopracciglia della donna in grigio guizzarono nell’aggrottarsi della fronte. – Ma è chiusa da anni.

– Non è difficile entrare nel parco, la recinzione è sfondata in parecchi punti. E quel parco è l’unico posto, in città, dove si può trovare una nave di pietra.

*

In paese dicevano che eri pazzo, Cavalier Solari. Un vecchio eccentrico come un Ulisse che non abbia saputo ritrovare la rotta per Itaca; e perciò ti eri costruito questo veliero di pietra in giardino. Potevi goderti i tuoi soldi su una vera barca, girare il mondo intero… Ma non ti muovesti mai di qua. Dicevi che la città, con i suoi veleni, ti era penetrata dentro inavvertitamente, e ormai le tue ossa erano cemento, nelle vene ti scorreva lo smog. L’unico viaggio volevi compierlo su questo simulacro. Doveva essere la tua tomba. Ma i parenti-serpenti ti hanno tradito. Alla tua morte ti hanno sbattuto nel cimitero comunale, sotto una lapide come ce ne sono tante, e si sono divisi quanto restava della tua fortuna. Della casa e del parco non sapevano che farsene. Troppo grandi, l’una e l’altro, con troppi angoli bui. Tristi. Hanno cercato di vendere la proprietà, ma nessuno l’ha voluta. Ti assomigliava troppo, con quegli angoli bui, e la tristezza.

*

Petra appoggiò la testa sul cuscino, ascoltando i passi che si allontanavano nel corridoio.

“Stai tranquilla, è tutto finito”, l’aveva rassicurata la donna bionda, con premura formale, prima di andarsene.

Tutto finito, secondo lei. La paura, la sofferenza… No, no. Di queste, Petra ne conosceva abbastanza ogni giorno, ogni notte, lungo i viali, davanti alle stazioni. Non sarebbero finite mai.

La prigionia, allora; l’angoscia di terminare i propri giorni in quella cantina, sepolta viva, inerme nelle mani di quell’uomo, tremando di terrore nell’attesa del suo ritorno… eppure desiderandolo, perché portava cibo, e il suono di una voce.

Era il solo che le avesse mai detto “Ti amo”.

*

L’amore di una sirena è sempre fatale.

Mi afferro alle sartie di rampicanti. A bordo, a bordo!

Presto saranno qui. E anche loro saliranno a bordo, percorreranno il ponte, scenderanno nella stiva. Scopriranno il mio tesoro. La voce del vento, imprigionata.

Non mi perdoneranno. Non merito perdono. L’ho letto nei suoi occhi notturni. Perciò, oggi, ho cantato per i tritoni, ho detto loro che venissero a riprendersi la loro piccola sirena. Perché lei mi ha mostrato il mio errore, nudo come l’albero maestro. Lei mi ha fatto comprendere che si può essere senza voce e regnare sul mare.

Triste lezione.

Come mi sono ingannato! Come mi illudevo! Strappare la mia vita dagli ormeggi della Realtà…

Nessun vento può creare dal nulla una vela.

Avrei dovuto cercare di ottenerla, invece, così come la mia piccola sirena ha avuto le sue squame e la sua pinna, dando in cambio qualcosa di me.

Non per amore del viaggio e della nave.

Per amore del mare.

Mi sdraio tra quanto rimane del mio sogno. Detriti di un naufragio. Brandelli d’abiti, piccole ossa verdi di muffa.

M’adagio nella dolcezza (ingannevole!) del canto.

L’AUTRICE
Gloria Barberi debutta nel mondo del Fantastico all’inizio degli anni ‘80 sulle pagine delle fanzines SF…ere e Pulp cui fanno seguito pubblicazioni su riviste e periodici sia amatoriali che professionali. Il racconto “La notte di san Valentino” è apparso in Francia nell’antologia “Cosmic erotica” successivamente edita in Italia da Fanucci. Presente anche in diverse antologie di autori vari edite da Il Cerchio (Rimini) a seguito di vittorie e piazzamenti al Premio San Marino.
È autrice di due antologie personali: Racconti Notturni edito da Primordia (MI) e Come le bambole di notte (Montedit, MI) e di alcuni romanzi: I Custodi apparso su The Dark Side n° 34; Le viscere del Diavolo (Diesel Extra); Lo specchio scarlatto (Diesel Speciale “Pastiche”).
Nel 1987 collabora alla trasmissione radiofonica “Galactica” di Radio Time di Scandicci (FI). Da qualche anno si occupa di teatro in veste di attrice/caratterista nella compagnia del Teatro Stabile San Giuseppe di Ruta di Camogli, del quale cura la pagina Facebook, ma anche di autrice. La pièce “Il palazzo della Notte” ha vinto nel 2001 il premio Città di Moncalieri ed ha partecipato in seguito alla rassegna Aquilegia blu (Torino, 2002) nell’interpretazione dell’attrice Franca Berardi.
Tra i premi conseguiti per la narrativa fantastica ci sono il Premio Italia, Lovecraft, Courmayeur e Repubblica di San Marino.
Negli anni ‘90 ha lavorato come traduttrice per la casa editrice Nord e per la rivista esoterica Primordia, oltre che per alcuni privati.
Appassionata anche di poesia, fa parte da diversi anni del gruppo di scrittura “Anna di Vienna” che prevede incontri a cadenza mensile su un argomento a tema e un reading/spettacolo a fine stagione, con lettura di poesie e prosa, siparietti teatrali, proiezioni video e musica dal vivo.
Nella primavera/estate del 2019 è uscito a puntate on line su Club Ghost il feuilleton “L’occhio sinistro di Horus” ispirato alla scoperta della tomba del faraone Tutankhamon, in seguito pubblicato dalla casa editrice Lindau di Torino con il titolo “La maledizione del faraone”.
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Il canto del mare

Una bonaccia oleosa appiattisce il mare sotto il cielo livido. Sull’orizzonte rotolano nubi panciute tinte di rosso. Il mondo è in attesa.
La bambina si ferma per qualche istante, fissando l’acqua. I suoi piedi percepiscono la levigatezza dei ciottoli, gli alluci intuiscono le sottili vene di colore celate nell’apparente compattezza grigia di ogni più piccolo sasso.
Quel luogo le è familiare. Lo riconosce con ciascuno dei cinque sensi. La fragranza salmastra; il grigiore della parete di roccia alle sue spalle; il sapore di alghe fresche che le resta sulla lingua a ogni respiro; il rumore delle minuscole onde tra la sabbia della riva; il contrarsi dei capillari alla frescura della brezza.
L’aria trema ancora sotto l’impeto della sua corsa, e presto si lacererà come una placenta per lasciar emergere gli inseguitori.
La bambina si guarda attorno. Solo mare e roccia. Nessuna via di scampo.
Un istinto ancestrale le schiude le labbra.
Il canto le vibra nella gola. Qualcosa di mai sperimentato prima d’ora, ma scritto nel suo codice genetico, e che il suo corpo riconosce. Come il primo vagito, il canto scuote il mondo.
E l’acqua comincia ad animarsi. Piccole increspature che con il progredire della melodia mutano in onde. La liquida massa nera, solo poco prima immota, gonfia, si cresta di spuma.
Poi, loro appaiono. Una a una. Le carni incrostate di madreperla, alghe di lontani oceani intrecciate tra i lunghi capelli fluttuanti. Le squame della coda rilucono d’argento. Le lunghe dita palmate stringono falci di corallo.
Salgono dal mare in risposta al suo richiamo; amiche, salvatrici, sorelle! La bambina si slancia verso la battigia mentre alle sue spalle risuonano le grida degli uomini: grida rabbiose di belve derubate della preda.
*
Alessia si svegliò. L’alba sporcava di grigio i vetri della finestra.
Per un attimo restò immobile ascoltando i rumori dietro la parete. Sua sorella Carolina dormiva ancora profondamente. Sotto le palpebre chiuse, sicuramente scorrevano logaritmi e formule matematiche. La futura prof.! Dormiva con la pacifica immobilità di un Buddha eppure, Alessia lo sapeva, le sue palpebre si sarebbero spalancate sugli occhi ancora acquosi di sonno mezzo secondo prima che la sveglia suonasse. E al primo squillo Carolina sarebbe rotolata fuori dalle coperte; al secondo, in un solo rapido movimento avrebbe afferrato la vestaglia e ficcato i piedi nelle pantofole; il terzo squillo l’avrebbe seguita in corridoio, fino alla porta del bagno.
Alessia ficcò la testa sotto il cuscino, cercò di riafferrare il sogno. Già troppo lontano. Ma non importava. Si sarebbe ripetuto, e presto. Accadeva da mesi, ormai.
*
Prima di entrare in cucina, si scrutò furtivamente nello specchio dell’ingresso. Era così diversa dalla sua matronale e brevilinea sorella! Sottile, con i fianchi stretti e una grazia di danzatrice in ogni gesto, e lunghi capelli lisci, di un castano lumeggiato da fili biondi. I capelli di Carolina, invece, erano crespi e opachi, inamidati dalla messa in piega.
Alessia sorrise complice alla propria immagine. Quale miglior prova. Lei non apparteneva a quella famiglia. Ma doveva continuare a fingere, almeno ancora per un po’.
Compose il volto minuto in una maschera di sedicenne assonnata, ed entrò in cucina.
Carolina era già lì, e dondolava con la sua gravità pachidermica nel breve spazio tra fornelli e lavandino.
Carolina aveva un ingannevole aspetto placido: palpebre sempre a mezz’asta su globi oculari un po’ sporgenti, un sorrisetto saccente sulla bocca carnosa, e tanti soffici cuscinetti di cellulite disposti ad arte su tutto il corpo, a celare gli spigoli del carattere. Con gesti sbrigativi versò latte e caffè nella tazza e la porse a sua sorella.
«Spicciati, che mi fai fare tardi.»
Alessia si guardò attorno nella piccola cucina. Ditate d’unto sugli sportelli dei pensili, presine non coordinate agli asciugapiatti: l’assenza di una madre era evidente.
«Papà non viene a casa per mezzogiorno» continuò Carolina versando detersivo liquido color cedrata sui piatti della sera precedente ammonticchiati nell’acquaio. «Ha un pranzo di lavoro.»
Alessia non fece commenti; in silenzio, scartò il plum cake allo yogurt.
Alzando la voce per sovrastare lo scroscio dell’acqua, Carolina disse ancora: «Nemmeno io ci sarò. Questo pomeriggio ho lezione. Puoi andare al fast food se non ti va di cucinare».
Come le adolescenti della pubblicità, a gonfiarsi la pancia di Coca-cola e patatine bisunte. Alessia annuì. Il plum cake era cotone tra lingua e palato.
*
Ogni battito di ciglia, come lo scatto di un otturatore fotografico. Click, click, click. Istantanee del Porto Antico nella luce piatta di una mattina di foschia. Click: l’edificio degli ex Magazzini del Cotone, snaturato dal restauro, disteso come un dolmen di cemento per tutta la lunghezza del molo. Click: le Mura del Barbarossa, pietra vetusta sopravvissuta al processo di modernizzazione dell’area portuale. Click: Porta Siberia, massiccia eppure immateriale, come lo scenario di cartapesta di un film in costume. Click: la bianca struttura del bigo, l’ascensore panoramico, che sembrava alzarsi dall’acqua verde come un fascio di pallide canne.
Mentre camminava lungo il molo, Alessia lasciò scivolare lo sguardo verso il mare aperto. Il grigiazzurro del cielo, troppo annacquato, sembrava sbavare oltre la linea appena percettibile dell’orizzonte. Niente onde. La mattina appariva immobile. Quasi.
Alessia si fermò; si voltò adagio verso la città, con il movimento aereo di una pattinatrice in un axel al rallentatore. Alzò lo sguardo.
Il profilo della grande strada sopraelevata tranciava a metà lo sfondo di vecchie facciate scolorite dal salino. Il traffico, sostenuto ma fluido, scorreva via come un interminabile centopiedi di metallo.
Alessia socchiuse gli occhi, cercando di escludere ogni senso che non fosse l’udito.
La prima volta in cui aveva percepito il suono era novembre, verso sera. Camminava in fretta, diretta in libreria per ritirare un libro che aveva ordinato, “I canti di Maldoror” di Lautréamont. Il vento soffiava dal mare; teso, ma non violento.
Quando, d’improvviso, l’aveva udito. Aveva un timbro così familiare che lei si era fermata di colpo, come se qualcuno l’avesse chiamata per nome.
Naturalmente non era così. Ma ugualmente si era guardata attorno. Gli edifici fieristici, abbandonati e scuri; la grande scatola di vetro e cemento che ospita l’acquario; le insegne dei pochi esercizi installati in quel cimitero di belle speranze che secondo le intenzioni degli architetti sarebbe dovuto divenire un’avveniristica zona commerciale.
Nulla di vivo, a parte il mare.
Alessia si era voltata verso la sopraelevata, tendendo l’orecchio. Aveva ascoltato le auto incunearsi nel vento con il consueto gemito ferruginoso; i fari sforbiciavano il compatto tessuto dell’illuminazione stradale; insegne colorate singhiozzavano sui muri degli antichi palazzi… Non seguivano il ritmo del suono.
Alessia aveva già sentito parlare del misterioso “canto della sopraelevata”, ma lo considerava una leggenda metropolitana, niente di più. Il vento rifratto dalla grande struttura di cemento e acciaio: questa la spiegazione razionale del fenomeno. Ma Alessia ne comprese all’istante l’assurdità.
Quello era un canto; non un rumore che a tratti, incidentalmente, si modulasse in suono. Ma un canto vero e proprio, a più voci, variegato e complesso. E non nasceva dalla soprelevata. Veniva dal mare. La struttura di acciaio e cemento si limitava a fungere da amplificatore, da decodificatore, rendendolo accessibile alle orecchie degli abitanti della terraferma. Perché quella polifonia non scaturiva da gole umane. Aveva esattamente la stessa cadenza del canto delle sirene nei suoi sogni.
*
«È quasi una settimana che non vai a scuola.» La voce di Carolina, acuminata di stizza, trafisse Alessia a tradimento, mentre cercava di sgattaiolare non vista in camera sua. «Ho trovato sulla segreteria un messaggio della tua prof. d’italiano.»
Alessia si strinse nelle spalle e cercò di raggiungere la porta della sua camera da letto, ma la sorella le sbarrava il passo. Sembrava riempire tutto il corridoio. «Papà sta facendo un mucchio di sacrifici perché tu possa studiare!» La consueta litania accusatoria. «E tu così lo ripaghi!»
Senza dir nulla, Alessia sgusciò tra la parete e quel blob fremente che era sua sorella, badando a non sfiorarla, e raggiunse la porta della propria stanza.
«E neanche ti degni di rispondere!» Parole che suonavano come sputi. E poi il colpo basso; quello che, secondo Carolina, avrebbe dovuto farla piegare su se stessa, piangente e umiliata come una Maria Maddalena pentita. «Ah, se la mamma ti vede da lassù…»
Non avrebbe cambiato le cose, così come non aveva mai saputo, o voluto, cambiarle quando ancora stava al mondo. Troppo difficile da gestire, quella figlia silenziosa, enigmatica come una creatura degli abissi più profondi. Troppo diversa dalla concreta e rassicurante figlia maggiore. La madre non avrebbe mai sentito la mancanza di Alessia. Alessia non sentiva la mancanza di sua madre.
Scivolò in camera.
*
Con la sicurezza di una cieca nata, trovò al buio gli interruttori dei faretti. Dai quattro angoli della stanza, un morbido chiarore sottomarino dilagò su mobili e pareti. Alessia aveva sostituito le comuni lampadine con altre verdi e azzurre, così che quella sua porzione privata di mondo sembrava davvero rubata all’oceano. La tapparella, accuratamente chiusa, teneva a bada gli importuni bagliori della notte cittadina.
Gettò lo zainetto sul letto, tra pupazzi di stoffa e cuscini colorati, e si avvicinò alla scrivania. Dal nascondiglio segreto, sotto l’ultimo cassetto, trasse il suo diario.
Non era un diario come lo si intende comunemente; lei non sentiva alcun bisogno di raccontare a se stessa la piattezza della quotidianità. Quelle pagine erano preziose. Anche se il quaderno era di carta riciclata, aveva comunque lontane origini nella morte di un albero. Non doveva andare sciupato. Lo sfogliò. Le pagine le frusciavano sotto le dita con il suono di onde tra la sabbia.
Poesie, canzoni, fotografie, ritagli di giornale, disegni. Il mare respirava in ogni singola parola, ogni tratto di matita, ogni immagine.
La descrizione del suo segno zodiacale, ritagliata da una rivista di oroscopi: tutta la mutevolezza dell’acqua in malinconie inesplicabili e altrettanto immotivati attimi di gioia; la pigrizia della luna che si specchia sul mare in bonaccia; la tenacia del mollusco che nessuna tempesta strapperà dallo scoglio; l’arrendevolezza dell’alga che s’abbandona alle correnti.
E poi due, tre pagine piene di riproduzioni di quadri di René Magritte: il mare piceo, screziato di spuma e saette de “La traversata difficile”, con i suoi velieri sperduti e fragili; le onde verdi sovrastate dal ciclopico masso sul quale il “Castello dei Pirenei” sembra germinare come una casuale verruca; e ancora un burrascoso oceano ritratto nell’atto di ingoiare un altro vascello, ma dominato in primo piano dal torso di una Venere di Milo adorna di gemme e morbide ombre carnose. E infine il suo preferito, “L’invenzione collettiva”: una sirena spiaggiata, bizzarra creatura ribelle a ogni icona leggendaria, con capo di pesce e gambe di donna.
E brani letterari, ricopiati con calligrafia nitida, appena sporcata da qualche involontaria ghirlanda infantile, che raccontavano delle sirene e di tutte le altre Figlie delle Acque, creature degli oceani o dei laghi, abitatrici di grotte sottomarine e anse di fiume.
Le perfide incantatrici nate dal sangue di Acheloo, al cui richiamo soltanto Ulisse seppe resistere, e che soltanto la lira incantata di Orfeo seppe azzittire; insidiosi demoni meridiani che nell’ora senz’ombra acquietano i venti e creano miraggi, approfittando della sonnolenza dei mortali per sedurli; e le Oceanidi “dalle sottili caviglie” di cui racconta Esiodo; le Memnosini, figlie delle sirene e dei soldati del faraone annegati nel Mar Rosso, compositrici di canzoni popolari; Scilla l’Abbaiatrice, che trascina le navi contro gli scogli; e Loreley, con la sua arpa d’oro e la voce d’argento, che perdette se stessa per pietà d’un mortale; Adrika, maledetta dal dio Brahma; la Dama del Lago, custode di Excalibur; Melusina costruttrice di castelli. Quei miti erano quasi tutti negativi, e in essi le sirene venivano viste come crudeli seduttrici, affamate d’anime di annegati. Falso, anche se logico dal punto di vista degli umani che non comprendevano e non sapevano vedere la realtà attraverso la trasparenza dell’acqua. I vortici dei fiumi e dei laghi non sono che porte d’accesso a un’altra dimensione; e gli abissi marini non sono luoghi insidiosi, né bui. Alessia lo aveva appreso dai libri di scuola: una delle poche cose utili che la cultura istituzionalizzata le avesse insegnato.
Gli abissi marini assomigliano alla notte nella savana: stelle, lucciole, e occhi di predatori. E lei, subito, aveva amato quelle profondità e i suoi abitatori, furtivi e indifferenti al mondo di superficie, sconcertanti come incubi mitologici, adorni delle arcane luci dei fotofori. Nei suoi sogni la vipera marina snudava i denti acuminati; il linofrine dondolava la sua lanterna, trascinandosi dietro la bizzarra escrescenza a forma di radice; e lo stomia boa incedeva lungo le correnti con la solennità di un drago giapponese, nello splendore adamantino delle sue squame esagonali.
E ancora, altri frammenti letterari e poetici che cantavano l’oceano e i suoi abissi: brani tempestosi di Byron e Lautréamont, le liriche salmastre di Montale, gli orrori ancestrali di Lovecraft e il vorace Maelstrom di Poe. E poi, in un accostamento che non si curava d’irriverenza, testi di canzoni: dall’insinuante “acqua azzurra peccaminosa e piena di desiderio” di “Wishful sinful” dei Doors al malinconico “Mare d’inverno” cantato da Enrico Ruggeri.
Infine, i versi che più amava. Essenziali eppure evocatori, appartenevano a una antica ballata irlandese: “Sono un uomo sulla terra, sono un Silkie in mare”. Silkie, creature d’acqua e mistero, che una volta all’anno lasciano la loro dimora sottomarina per unirsi a femmine umane, e generare dei figli. “E avverrà in un giorno d’estate / quando il sole splende su ogni muro / verrò a prendere il mio bambino / e gli insegnerò a nuotare tra la schiuma…”
Doveva essere accaduto così. Squame lucenti sotto la luna, in una notte d’estate; dalle scure acque del porto fino alla piccola casa sulla collina. Ma la leggenda, questa volta, non aveva conclusione. Nessun Silkie si era mai ricordato di venirla a prendere.
*
Sotto il sole, il mare è turchese e lapislazzuli. L’orizzonte, teso come un arco, scaglia dardi di spuma nel cielo.
La bellezza delle onde in un’aria purificata dal temporale! La bambina la respira a fondo; poi s’incammina verso la riva.
L’ombra di un gabbiano la sfiora. L’acqua le lambisce le caviglie.
“Tu sei più bello della notte. Rispondimi, Oceano. Vuoi essermi fratello?”1 . “Sì”, canta un’onda ai suoi piedi.
E la bambina si lascia scivolare nell’azzurro.
*
«Oh, ma mi stai ad ascoltare?»
Alessia distolse lo sguardo dalla finestra. Carolina, seduta dall’altra parte del tavolo, srotolava in fretta i bigodini che aveva tenuto in testa per tutta la notte. I riccioli rigidi le contornavano il viso in una acconciatura stile Medusa.
Alessia sorrise. «Dicevi?»
Carolina sospirò rumorosamente. «Che quando esci da scuola, passi a prendere il pane. Io non faccio a tempo.»
Alessia annuì e tornò a fissare la finestra. Il mattino aveva colore di pioggia.
*
I delfini hanno sul muso un eterno sorriso, che non è davvero un sorriso; ma agli umani non importa, amano credere che i delfini siano sempre felici, anche quando li obbligano in una finzione d’oceano accerchiata da occhi sgranati. Ma, probabilmente, Cleo era davvero felice. E sembrava l’immagine della vita stessa; vivace e giocosa, guizzava nello spazio ristretto della vasca accanto a sua madre. Era nata in cattività, inconsapevole delle vastità verdeazzurre. O qualcosa, nel suo DNA, secerneva malinconia a ogni grido di gabbiano?
Desiderare, e non sapere cosa. Nostalgia di spazi mai conosciuti.
Alessia guardò la piccola delfina avvicinarsi alla parete di vetro. Il suo sorriso, così vicino… Alessia alzò la mano destra, accennando un saluto. Mi riconosci? O per te non sono che un volto tra i tanti? Abbiamo mai nuotato fianco a fianco, in un’altra vita?
*
«Avevi promesso e invece hai marinato la scuola anche oggi. E dov’è il pane?»
Alessia si strinse nelle spalle.
«Sei stata in giro tutto il giorno! Si può sapere dove sei andata a cacciarti?»
«All’acquario.»
«Mi prendi in giro?»
Già, la verità suona sempre così falsa. In piedi accanto al frigorifero, Alessia chiuse gli occhi, attendendo con masochistico languore lo schiaffo. Che Carolina la colpisse pure con quella sua mano larga e tozza; lei non avrebbe sentito nulla. Uscita dall’acquario, aveva vagato talmente a lungo nella piovosa sera invernale, imbibendosi gli abiti e la mente di acqua e oscurità, da divenire acqua e oscurità lei stessa. Acredine e violenza non potevano toccarla.
Carolina non la colpì. Forse la sua mente logica aveva recepito l’invisibile mutazione occorsa nella sostanza della sorella; o probabilmente pensava che uno schiaffo non fosse necessario, bastava la durezza della voce.
«Fila in camera tua! E cambiati quei vestiti, sono tutti bagnati!»
Alessia sorrise al proprio segreto. Quel lieve orlo di umidità in fondo alla veste. Il solo indizio che permette di riconoscere un’Ondina da una comune mortale.
*
La musica si dilatava nella stanza come un’onda gonfiata dal vento, e la voce galleggiava in superficie, lieve come spuma. Modulava parole su una solenne cadenza di cante honde, ed era eco in una cattedrale, lontano richiamo al fondo di una grotta.
“Yo; el otoño / Yo; el vespero / He sido un eco / Seré una ola / Seré la luna / He sido todo, soy io /… Soy la soñadora…”2
Parole di verità. Qualcuno le aveva scritte per lei; e per un altro migliaio di sognatori spiaggiati lungo le coste aspre della realtà.
*
Tutto è azzurro. Azzurro e luminoso.
Quasi sfiorando la sabbia, la bambina nuota sul fondo del mare, ed è come nuotare nel cielo. Forme lucenti le scivolano accanto, silenziose e lievi come fiocchi di neve; le alghe si muovono attorno a lei in una carezza.
Alza lo sguardo. La luce del sole le piove negli occhi come polvere di cristallo. Sembra che il cielo stesso si sia frantumato e cada lentamente attraverso l’acqua. Quei frammenti d’azzurro non possono ferirla. Si sciolgono in pura luce. Lì è al sicuro. Nessuno può farle del male.
Muove la coda d’argento e smeraldo, suscitando nuove correnti. Ride; un baluginio di perle e corallo bianco.
È a casa, finalmente.
*
Aveva trascorso un’altra intera mattina all’acquario, in un dialogo di sguardi e silenzi con la piccola delfina. L’immutabile sorriso era l’unica risposta di Cleo.
Ora Alessia passeggiava lungo il molo, davanti ai Magazzini del Cotone. Il Porto Antico era deserto, nel mezzogiorno piovoso. Pioveva così forte… Sembrava che il cielo tentasse di ricongiungersi alle acque, come al tempo del Caos.
Era passato un anno. Mentre camminava, Alessia chiuse gli occhi. La pioggia le scorreva sui capelli e sul volto, sulle palpebre chiuse, tra le ciglia.
Gli inseguitori erano dietro di lei. Ancora non li vedeva, ma li sentiva. I loro aliti affannati inquinavano la brezza salmastra. Ma lei non aveva più voglia di correre. Era inutile.
Una raffica di pioggia le tambureggiò sulle palpebre. Alessia si fermò di colpo, aprì gli occhi. Era giunta alla fine del molo.
L’acqua color dell’alga morta, agitata dal vento e la pioggia, ribolliva come la pozione venefica nel calderone di una strega.
Ma come possono le sirene vivere in tanto putridume? Come possono, soprattutto, cantare? Forse, quella voce che lei udiva non era che un ricordo imprigionato dal vento nel cemento; un’antichissima memoria incrostata come il sale sui muri delle vecchie case.
No. Loro erano là. E cantavano. Anche adesso.
Alessia tornò a chiudere gli occhi. Sentiva scorrere nelle vene correnti atlantiche, tsunami le squassavano il corpo. Barcollò sull’orlo di un abisso più profondo della Fossa delle Marianne, più insidioso del Triangolo delle Bermude.
Quante volte ancora l’avrebbero raggiunta, quante volte si sarebbe ripetuto quel terribile rituale di aliti fetidi sulla sua bocca, e mani sudice e crudeli che la frugavano… Senza che le sirene muovessero una sola squama d’argento per salvarla.
Cosa vi ho fatto? Perché mi rinnegate?
Era passato un anno. Un anno esatto. E lei si era stancata di aspettare.
Non mi prenderanno più.
Anche se al sogno seguiva sempre un risveglio, e nella realtà le sirene restavano sorde al suo grido d’aiuto. Erano là, da qualche parte tra l’orizzonte e la banchina frangiata di alghe: e cantavano; come nella storia di Ulisse, cantavano.
Non c’era che un modo per continuare a sognare.
*
«Si può immaginare come ci sono rimasta quando l’ho letto.» La professoressa Tota prese il foglio protocollo da una cartelletta e lo porse a Carolina che sedeva dall’altra parte della scrivania. La calligrafia nitida di Alessia si svolgeva sulla pagina senza cancellature o incertezze: il tema portava la data di dieci giorni prima. «Chiunque lo legga» continuò la professoressa aggiustandosi gli occhiali sul naso con la punta del dito medio, «potrebbe giurare che sua sorella abbia vissuto quella tremenda esperienza in prima persona».
Carolina scosse la testa, volse lo sguardo intorno come a cercare aiuto dalle impersonali pareti bianche. La pioggia percuoteva i vetri e finiva di spogliare il tiglio nel cortile della scuola.
«Assurdo! Lei sa come sono andate le cose!»
«Certo. Valentina Pozzi era una mia alunna. E la migliore amica di sua sorella.»
«Alessia si sentiva colpevole. Io ho tentato di spiegarle…»
Aveva tentato, sì, Carolina: con tutta la sbrigatività del suo spirito pratico e un’alzata di spalle. “Se l’è cercata, dopotutto”. Insomma, una lite poteva anche succedere tra amiche del cuore. E Valentina era stata oltremodo imprudente a lasciare la pizzeria e incamminarsi da sola, sotto i portici di Sottoripa, a quell’ora di sera in cui tossici e malintenzionati d’ogni genere iniziano i loro giri. Con quella minigonna, poi… Valentina portava sempre gonne troppo corte. E si truccava come una puttanella. Sventata e incosciente. Nessuna meraviglia, se era finita violentata e ammazzata a coltellate a quindici anni.
Carolina sospirò. Sì, se l’era proprio andata a cercare.
*
L’acqua è notte. Priva anche della più piccola stella. Densa. Fredda. Alessia affonda nel buio. Niente coralli e perle, né opalescenti nemicti con cui adornarsi i capelli. Solo alghe in decomposizione e rifiuti. Catene d’ancora corrose. Molluschi invischiati nel catrame.
Il mare è morto. Morto! Niente accoglienti braccia di sirene, niente falci di corallo con cui difendersi dalla crudeltà degli umani. Gli umani hanno già vinto. Uccidendo il mare.
Alessia apre la bocca per urlare il suo sgomento. Una fetida sorsata di liquido nulla le inonda la gola e i polmoni.
*
La piccola delfina si svegliò. Aveva fatto uno strano sogno. Era una di quelle creature prigioniere aldilà del vetro e voleva fuggire, fuggire…
Un gabbiano, sorvolando la vasca, gridò.
Oceano, diceva il grido. Un dolcissimo suono senza senso.

(1) “I canti di Maldoror” – Lautréamont
(2) “La Soñadora” – Enya & Roma Ryan

L’AUTRICE
Gloria Barberi debutta nel mondo del Fantastico all’inizio degli anni ‘80 sulle pagine delle fanzines SF…ere e Pulp cui fanno seguito pubblicazioni su riviste e periodici sia amatoriali che professionali. Il racconto “La notte di san Valentino” è apparso in Francia nell’antologia “Cosmic erotica” successivamente edita in Italia da Fanucci. Presente anche in diverse antologie di autori vari edite da Il Cerchio (Rimini) a seguito di vittorie e piazzamenti al Premio San Marino.
È autrice di due antologie personali: Racconti Notturni edito da Primordia (MI) e Come le bambole di notte (Montedit, MI) e di alcuni romanzi: I Custodi apparso su The Dark Side n° 34; Le viscere del Diavolo (Diesel Extra); Lo specchio scarlatto (Diesel Speciale “Pastiche”).
Nel 1987 collabora alla trasmissione radiofonica “Galactica” di Radio Time di Scandicci (FI). Da qualche anno si occupa di teatro in veste di attrice/caratterista nella compagnia del Teatro Stabile San Giuseppe di Ruta di Camogli, del quale cura la pagina Facebook, ma anche di autrice. La pièce “Il palazzo della Notte” ha vinto nel 2001 il premio Città di Moncalieri ed ha partecipato in seguito alla rassegna Aquilegia blu (Torino, 2002) nell’interpretazione dell’attrice Franca Berardi.
Tra i premi conseguiti per la narrativa fantastica ci sono il Premio Italia, Lovecraft, Courmayeur e Repubblica di San Marino.
Negli anni ‘90 ha lavorato come traduttrice per la casa editrice Nord e per la rivista esoterica Primordia, oltre che per alcuni privati.
Appassionata anche di poesia, fa parte da diversi anni del gruppo di scrittura “Anna di Vienna” che prevede incontri a cadenza mensile su un argomento a tema e un reading/spettacolo a fine stagione, con lettura di poesie e prosa, siparietti teatrali, proiezioni video e musica dal vivo.
Nella primavera/estate del 2019 è uscito a puntate on line su Club Ghost il feuilleton “L’occhio sinistro di Horus” ispirato alla scoperta della tomba del faraone Tutankhamon, in seguito pubblicato dalla casa editrice Lindau di Torino con il titolo “La maledizione del faraone”.
Chi desiderasse approfondire queste notizie può cercare in rete, su Fantascienza.com e altri siti.

Sirena

Gloria Barberi

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