La casa degli oggetti di Jorge Dorado

La casa degli oggetti (Spagna, Argentina, Germania, 2022)
Regia: Jorge Dorado. Soggetto e Sceneggiatura: Natxo López. Fotografia: David Acereto. Montaggio: Carlos Egea, Pablo Zumárraga. Musiche: Eric Claus Kuschevatzky. Interpreti: Álvaro Morte (Mario), China Suárez (Sara), Verónica Echegui, Zorion Egueileor, Gabriele Andrada, Pepa Gracia, Daniel Aráoz (Ochoa). Paesi di Produzione: Spagna, Argentina, Germania, 2022. Durata: 108’. Titolo originale: Objetos. Titolo Internazionale: Lost & Found.

Jorge Dorado, regista iberico specializzato in thriller (Mindscape, 2013), gira un originale film ad alta tensione con protagonista un uomo di nome Mario, impiegato in un ufficio oggetti smarriti, che un giorno si trova davanti una valigia rinvenuta sul fondo di un fiume contenente resti umani. Mario si mette a indagare, scopre un giro di prostituzione diretto da un gruppo di pericolosi criminali capeggiato da un turpe medico che procura aborti e libera dai figli (nati per incidente) le ragazze costrette a lavorare per la banda. Mario ha un passato burrascoso, amico e amante di una poliziotta, abbandonato dalla moglie, ha perso la possibilità di avere un figlio e fa di tutto perché una ragazza incontrata per caso non debba rinunciare al neonato. Finale imprevedibile e cruento che non racconto. Un film molto compassato, girato con ritmi da cinema d’autore, ricco di un crudo realismo, pieno di effetti crudi e macabri. Dorado non si limita a girare un thriller, vorrebbe raccontare – grazie a una storia nera che non concede scampo allo spettatore – la forza dell’amore e il desiderio di paternità, persino il senso di giustizia che alberga in ciascun individuo. Il film non è omogeneo, soffre di momenti stanchi e ripetitivi, la sceneggiatura spesso mostra la corda, alcune soluzioni sembrano forzate, ma le ambizioni alte lo salvano, perché il regista vuol mandare un grande messaggio di amore e di solidarietà. Alla fine riesce nell’obiettivo preposto e si fa apprezzare più nelle intenzioni che nei risultati, grazie anche a una colonna sonora drammatica e a una fotografia cupa, che diventa solare nei grandi paesaggi latino americani della seconda parte. Molto bravo l’interprete principale, Álvaro Morte, nei panni dell’impiegato agli oggetti smarriti che si trova coinvolto in una spirale di assurda violenza. Consigliato per chi ama l’horror e il thriller psicologico, anche se la pellicola non è immune da difetti, soprattutto per una trama troppo lineare e per la semplicità delle soluzioni narrative.

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Dario Piana e Le morti di Ian Stone

Dario Piana (1959) nasce a Milano, ma è naturalizzato britannico, si interessa di materie classiche e artistiche durante il liceo, infine frequenta l’Accademia d’Arte di Brera. Scrive e disegna fumetti dal 1972 al 1978, quindi lavora per un’agenzia pubblicitaria: la J. Walter Thompson. Nel 1983 lascia l’agenzia ed entra in una piccola società di produzione dove si fa le ossa nel montaggio, suono, effetti speciali, video e postproduzione. In quel periodo, compie esperienze come regista di una serie di spot pubblicitari a basso costo. Nel 1985 si associa a Claudio Mancini, produttore esecutivo di numerosi film di Sergio Leone, e a Danilo Donati, vincitore di due premi Oscar e art director di Federico Fellini.
Nel corso della sua carriera, Dario Piana ha realizzato 350 spot pubblicitari, lavorando in tutto il mondo e ottenendo premi e onorificenze tra cui due Leoni d’Oro, tre Leoni d’Argento e quattro Leoni di Bronzo al Festival Internazionale della Pubblicità di Cannes.
Nel cinema ricordiamo Sotto il vestito niente 2 (1988), sequel del giallo di successo di Carlo ed Enrico Vanzina, non certo un film memorabile, un’opera girata come se fosse un collage di spot pubblicitari, a base di belle modelle assassinate da un folle serial killer. Per questo ci ha sorpreso non poco vederlo alla regia di un horror insolito e interessante nel quadro asfittico della cinematografia italiana contemporanea come Le morti di Ian Stone (2007). Interpreti tutti statunitensi: Mike Vogel, James Bartle, Andrew Buchan, Christina Cole, Michael Dixon, Jason Durran, Michael Feast, Jaime Murray, Marnix Van Den Broeke. Nel 2007 la pellicola è stata presentata al Fantasy Filmfest e all’After Dark Horrorfest. Scritto da Brendan Hood e prodotto, fra gli altri, da Stan Winston. Dario Piana gira un film all’americana con grande attenzione alla forma, anche perché la produzione è anglo – statunitense.
Ian Stone (Mike Vogel) è un ragazzo americano che gioca a hockey su ghiaccio e ama la sua fidanzata, Jenny Walzer (Christina Cole). Una sera, mentre torna a casa in auto dopo aver perso una partita di hockey, trova davanti alla sua auto un essere immobile che giace accanto ai binari della ferrovia. Si avvicina e viene aggredito, portato a forza sui binari dove viene investito da un treno in corsa. Ian si sveglia in un ufficio ma le cose sono leggermente diverse da come le ricordava. Jenny è sempre lì, non è più la sua fidanzata ma solo una collega di lavoro mentre Ian vive con una donna misteriosa di nome Medea (Jaime Murray). I binari del treno e l’incidente non sono stati solo un sogno, perché la vita di Ian prende una piega sempre più sinistra. Il ragazzo è cacciato da terribili demoni chiamati I Mietitori che ogni volta lo catturano, lo uccidono e lo fanno rinascere per ucciderlo ancora. Tutto questo perché un tempo è stato uno di loro, ma li ha traditi e si è innamorato di una ragazza. Un demone lo aiuta a capire che deve fare di tutto per difendere il suo amore e non deve far finire Jenny nelle mani di Medea che guida i demoni, perché soltanto l’amore della ragazza lo potrà salvare. La tensione è molto buona, i momenti di suspense sono notevoli, gli attori più che professionali e gli effetti speciali non presentano sbavature. La fotografia notturna aggiunge mistero alle inquietanti presenze che vengono dagli inferi e si nutrono della paura umana come se fosse una droga. I Mietitori dispongono di un tentacolo a forma di falce che toglie la vita e aspira la paura dalla bocca della vittima. Ogni volta che l’orologio si ferma i demoni arrivano e possono colpire improvvisamente, perché coesistono con gli umani, ma vivono in una diversa dimensione spaziotemporale. Ci sono alcuni elementi splatter, del tutto giustificati dalla tematica e inseriti in momenti fondamentali dell’azione. Molto interessanti i flashback e le parti oniriche con i ricordi dei protagonisti, sono ottime pure le sequenze in cui fanno incursione i demoni sotto forma di spiriti del male che terrorizzano e diventano corporei. La musica è intensa e accompagna i momenti topici della vicenda, senza essere mai sovrabbondante né cercare di prendere il sopravvento. La parte finale è notevole, gli effetti speciali raggiungono il massimo quando Ian assorbe l’energia di un amico demone e l’amore per la sua donna lo fa diventare potentissimo. Nella lotta tra Ian e Medea il ragazzo vince per amore: “Ti amo, Jenny”, sussurra mentre la riporta in vita e la loro esistenza riprende dalla partita di hockey. La pellicola termina con Ian, ormai un potente ammazza demoni, che fa fuori un Mietitore individuato tra la folla. Si tratta di una produzione ricca che può permettersi effetti speciali e ambientazioni credibili, ma pure la storia è originale e il regista guida gli attori con grande intelligenza. Il taglio fumettistico della vicenda ci ricorda che Dario Piana viene dalla tavola disegnata, ma in questo caso rappresenta un valore aggiunto. Il film è visibile su Rai Play, dopo alcuni passaggi serali su Rai 4. Peccato che Dario Piana non abbia fatto molto altro in campo cinematografico, se non il terzo titolo della saga The Lost Boys (The Thirst, 2009), che non abbiamo visto. Il suo lavoro principale sono gli spot pubblicitari.

Un capitolo su Dario Piana è nella mia STORIA DEL CINEMA – volume 5:
https://www.amazon.it/Storia-cinema-horror-italiano-Stefano/dp/8876066322

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Il signore del disordine di William Brent Bell

Il signore del disordine (Irlanda, Regno Unito 2023)
Regia: William Brent Bell. Soggetto e Sceneggiatura: Tom de Ville. Casa di produzione: Riverstone Pictures, The Machine Room, Bigscope Films, REP Productions 12. Titolo originale: Lord of Misrule. Genere: Orrore. Anno: 2023. Paese di produzione: Irlanda, Regno Unito. Durata: 104′. Interpreti: Tuppence Middleton (Rebecca Holland), Ralph Ineson (Jocelyn Abney), Matt Stokoe (Henry Holland), Evie Templeton (Grace Holland), Robert Goodman (Graham Nash), Rosalind March (Miri Tremlow).

Il signore del disordine – Lord of Misrule titolo originale – è un modesto horror britannico che ha il pregio di mettere in scena una storia truce e originale, che non fa sconti a nessuno in tema di orrore viscerale, ma che presenta alcune incertezze a livello di sceneggiatura. Ambientazione perfetta in un piccolo villaggio della campagna inglese, durante il periodo della Festa del Raccolto, una tradizione pagana invernale che ogni anno si rinnova. Il paese ha da poco tempo un nuovo vicario, una donna di nome Rebecca (Middleton), che si è trasferita in quel luogo sperduto insieme alla famiglia. Nel corso delle celebrazioni, sua figlia Grace scompare misteriosamente, tutti sembrano cercare dove sia finita, in realtà tutto non è come sembra. Rebecca scopre molte cose turpi nel passato del paese e deve scontrarsi con una forza malefica che va oltre le sue possibilità. Finale sconvolgente che non rivelo. Produzione irlandese e britannica per un horror insolito, claustrofobico e inquietante, che pesca a piene mani nelle leggende irlandesi e nei culti pagani, costruendo un clima palpabile di angoscia che cresce con il passare dei minuti. Il montaggio poteva essere meno compassato, perché 104’ sono tanti per le cose da dire, con qualche taglio di sceneggiatura forse l’azione ne avrebbe guadagnato, creando una maggior tensione. Tom de Ville è l’autore della storia, sia a livello di soggetto che di sceneggiatura, mentre la regia di William Brent Bell mostra mano ferma sia nella direzione degli attori sia nella scelta delle inquadrature, mai banali e scontate. Tra gli interpreti, tutti piuttosto bravi e ben calati nella dimensione da horror fantastico: Tuppence Middleton, Ralph Ineson, Matt Stokoe, Anton Valensi, Rosalind March. Un film poco visto al cinema che è ancora possibile apprezzare su Rai Play dopo un passaggio in Prima Tv su Rai 4, il canale digitale RAI dedicato al thriller e all’orrore.

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L’orto americano di Pupi Avati

L’orto americano di Pupi Avati (Italia, 2024)
Regia: Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati (romanzo L’orto americano, Solferino). Sceneggiatura: Pupi Avati, Tommaso Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Effetti speciali: Sergio Stivaletti. Musiche: Stefano Arnaldi. Scenografia: Biagio Fersini. Regista della Seconda Unità: Mariantonia Avati. Produttori: Antonio Avati, Gianluca Curti, Riccardo Suriano. Case di Produzione: DueA Film, Minerva Pictures, Rai Cinema, Mionistero della Cultura, Emilia Romagna Film Commission. Distribuzione (Italia): 01 Distribution. Interpreti: Filippo Scotti (il giovane scrittore), Rita Tushingham (la madre di Barbara), Robert Madison (maggiore Capland), Patrizio Pelizzi (giudice della Corte d’Assise), Romano Reggiani (il pubblico ministero), Cesare Cremonini (Ugo Oste), Massimo Bonetti (il presidente della Corte d’Assise), Andrea Roncato (maresciallo dei Carabinieri), Alessandra D’Amico (perito psichiatra), Nicola Nocella (paziente psichiatrico), Claudio Botosso (medico legale), Roberto De Francesco (Emilio Zagotto), Armando De Ceccon (Glauco Zagotto), Holly Irgen (giudice popolare), Monia Pandolfi (giudice popolare), Chiara Caselli (Doris), Luca Bagnoli (cancelliere), Morena Gentile (Arianna), Filippo Velardi (Pubblico Ministero), Francesco Colombati (psichiatra).

L’orto americano ci riporta alle atmosfere gotiche de La casa dalle finestre che ridono, girato in uno stupendo bianco e nero (fotografia del grande Cesare Bastelli), montato con la giusta suspense da un regista horror come Ivan Zuccon (107′ necessari) e accompagnato da una suggestiva colonna sonora di Stefano Arnaldi. Un film che mostra ancora una volta il tocco di Avati, tutto il suo stile, tra genere e letteratura, fantastico e minimalismo, suggestioni del passato e inquietante presente. Si parte da Bologna – città del cuore – nel 1945, in un’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo nel negozio di un barbiere vede una giovane ausiliaria statunitense e in un solo istante se ne innamora. Scopriamo che il ragazzo parla con i morti, non ha una psicologia stabile, molti lo ritengono squilibrato e viene internato per un certo periodo in manicomio, ma è anche uno scrittore con il sogno americano e appena possibile (nel 1946) si reca nello Iowa (l’America di Pupi Avati è quella, da sempre) grazie a uno scambio di case. Il caso vuole che la sua vicina sia la madre della giovane ausiliaria che l’aveva fatto innamorare, una ragazza chiamata Barbara scomparsa nel niente, che dall’Italia non ha mai fatto ritorno. L’orto americano è quello della vicina, dove nottetempo il ragazzo si reca per scavare, dopo aver sentito le voci dei morti, e tira fuori un contenitore di vetro con i genitali di una donna e come etichetta una misteriosa iscrizione. Il giovane scrittore torna in Italia, tra Ferrara e Comacchio, per dipanare il mistero di Barbara e ritrovare almeno il corpo della giovane ausiliaria scomparsa. Il mistero ha inizio e si risolve proprio tra le lande sperdute delle Valli di Comacchio, luogo avatiano per eccellenza, dove il ragazzo partecipa come spettatore al processo a carico di un losco individuo che avrebbe trucidato tre donne, forse anche la sua Barbara. Non tutto è come sembra, il resto va apprezzato in sala, perché siamo in presenza di un vero e proprio giallo hitchcockiano ambientato tra Roma, Ferrara, Ravenna, Forlì, senza dimenticare Davenport nello Iowa, altro luogo da sempre caro al regista. L’orto americano non è cinema horror, ma ci sono tutte le suggestioni del cinema di Avati prima maniera, ricreate grazie agli effetti speciali del grande Sergio Stivaletti (le vulve, gli arti amputati, il morto nella bara che si contorce…). Un film definibile come thriller nero, angosciante e macabro, molto gotico, vicino solo al cinema dello stesso Avati, con la sua poetica del puro che possiede poteri soprannaturali incomprensibili per la gente comune. Parlare con i morti, ascoltare le voci dei morti, croce e delizia dell’esistenza del giovane scrittore, condannato a non essere creduto e a essere considerato un folle. Molto bravo Filippo Scotti nei panni del protagonista, intensa Rita Tushinghan come madre di Barbara; troviamo nel cast presenze consuete del cinema di Avati come Massimo Bonetti (il giudice) e Chiara Caselli (Doris, la padrona della pensione ferrarese), ma anche Nicola Nocella che è un paziente del manicomio. Breve cameo per Andrea Roncato come maresciallo dei Carabinieri, incredulo di fronte al racconto del giovane scrittore. Ricordiamo anche Cesare Cremonini in una piccola parte. La sceneggiatura non perde un colpo, tra lo Iowa e Comacchio, con il sottile collante dei reperti anatomici rinvenuti nella boccia di vetro, scritta dal regista e dal fratello Tommaso, partendo dal romanzo omonimo edito da Solferino. Molto azzeccata l’idea di far recitare in inglese la parte americana, sottotitolando i dialoghi, e in italiano la parte ferrarese e bolognese. Scenografie d’epoca perfette, costumi senza la minima sbavatura, le atmosfere del primo dopoguerra sono verosimili e le immagini di repertorio lasciano il posto alla finzione scenica senza soluzione di continuità. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2024 come film di chiusura, rappresenta la summa del cinema nero di Avati, con citazioni al suo passato, da Zeder a Le strelle nel fosso, per finire con La casa dalle finestre che ridono, che viene fuori con prepotenza in certe situazioni angoscianti vissute in solitudine dal giovane scrittore e da un finale che immortala un inquietante scambio di sguardi consapevoli. Un film da vedere al cinema per apprezzarne tutto il fascino.

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La maschera di cera di Jaume Collet-Serra

La maschera di cera (Australia, Usa 2005)
Regia: Jaume Collet-Serra. Soggetto: Charles Belden. Sceneggiatura: Chad e Carey Hayes. Fotografia: Stephen W. Windon. Montaggio: Joel Negron. Musiche: John Ottman. Scenografia: Graham Walker, Brian Edmonds, Beverley Dunn. Costumi: Graham Purcell, Alex Alvarez. Trucco: Rosalina Da Silva, Jason Baird. Produttori: Robert Zemeckis, Joel Silver, Susan Downey. Case di Produzione: Warner Bros Pictures, Dark Castle Entertainment, Village Roadshow Pictures, Image Movers, Silver Pictures. Distribuzione (Italia): Warner Bros. Titolo originale: House of Wax. Paesi di Produzione: Australia, Stati Uniti d’America, 2005. Genere: Horror. Durata: 113’. Interpreti: Elisha Cuthbert (Carly Jones), Chad Michael Murray (Nick Jones), Brian Van Holt (Bo/Vincent Sinclair), Jared Padalecki (Wade Felton), Jon Abrahamsn (Dalton Chapman), Paris Hilton (Paige Edwards), Robert Ri’chard (Blake).

La maschera di cera rappresenta il debutto cinematografico del regista spagnolo (nordamericano per formazione) Jaumet Collet-Serra, che successivamente fonderà una casa di produzione e si farà notare con un film sul mondo del calcio, quindi altri horror e thriller di respiro internazionale, oltre a una pellicola di supereroi (Black Adam) e la serie televisiva The River. Il suo primo film viene addirittura prodotto dalla Warner Bros che investe molto a livello di effetti speciali e per ricostruzione di ambienti. La maschera di cera non ha niente a che vedere con l’opera teatrale classica di Charles Belden (citato nei credits come fonte per il soggetto) né con il romanzo di Gaston Leroux, sceneggiati per il cinema in numerose occasioni, così come niente è simile al film di Sergio Stivaletti del 1997, se non il finale catastrofico, tra le fiamme. In questo film la sola fonte di ispirazione è Horror Puppet (1979) di David Schmoller, lavoro che presenta una trama abbastanza simile. La storia vede protagonisti tre turpi fratelli, generati da una madre abominevole che coltivava il sogno di costruire un mondo popolato da statue di cera. I fratelli, una volta cresciuti, cercano di mettere in atto il diabolico piano in una città sperduta non segnata sulle mappe stradali, che poco a poco trasformano in un ambiente dove ogni persona è ridotta a una statua di cera. Un gruppo di sei ragazzi ne fa le spese, durante un viaggio che li vede accampati in una zona boscosa limitrofa alla città fantasma. Il proseguo della storia è facilmente intuibile, con uno dei fratelli che porta in trappola i malcapitati, gli altri due che cercando di catturarli e di trasformarli in statue di cera. Horror puro, ricco di situazioni macabre e di delitti efferati, per palati forti, con tagli di parti dei corpi umani, scuoiamenti, macabre operazioni a base di cera inserita nei volti. Alcune sequenze ricordano Halloween, soprattutto quando uno dei fratelli uccide con il coltellaccio e si muove a scatti, dimostrando una totale assenza di sentimenti umani. Inutile dire che anche Shining è citato a piene mani, tra porte sfondate – di cera o di legno fa lo stesso – e mannaie che si spingono a colpire la vittima. La maschera di cera non ha avuto un gran successo di pubblico, neppure la critica l’ha mai apprezzato più di tanto, anche se resta un buon prodotto di genere, che disturba al punto giusto e fa trepidare per la sorte dei protagonisti. Il regista dimostra di avere buon intuito per la suspense e – nonostante sia un’opera prima – maneggia a dovere le inquietanti soggettive e muove con perizia una convulsa macchina a mano. Sceneggiatura abbastanza prevedibile, difetto comune per simili soggetti; fotografia cupa per un film dal tono claustrofobico e dalla messa in scena angosciante; montaggio rapido che confeziona 113’ di pura tensione. Riprese in Australia, a Queensland, budget 40 milioni di dollari, incasso 70. Nel cast troviamo la famosa ereditiera Paris Hilton, che non sfigura, nonostante le molte critiche preconcette (Premio Razzie come peggior attrice dell’anno), in definitiva non le viene chiesto di recitare ne Il gattopardo di Visconti ma in un horror commerciale, cosa che riesce a fare in maniera discreta. Un film ad alta tensione che si lascia vedere, diverte e non delude gli appassionati del cinema horror più crudo e viscerale.

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