Il vecchio amico Jerry

Quello era il luogo ideale per un delitto. E anche per una bella scampagnata domenicale, come si usa oggigiorno; molti possono permettersi una gita in carrozza, anche le famiglie tutt’altro che nobili.
Se ne vedono a dozzine, per queste strade quasi dimenticate, nei giorni festivi, carrozze che appartenevano un tempo a nobili oggi decaduti e il cui denaro e le cui proprietà hanno cambiato tasca, per trasferirsi in quelle di politicanti avventurieri o neo–ricchi, commercianti o anche piccoli negozianti.
Non c’è che dire, i tempi sono cambiati, e la visita a un castello è oggi prerogativa di molti. E’ facile notare maggiordomi di vecchio stampo abbassarsi ad allungare la mano al visitatore foruncoloso, che un tempo avevano il compito di cacciare, anzi, di far cacciare dagli stallieri, a pedate giù per il sentiero.
La mia famiglia, in tanto disordine sociale e in tanta confusione di privilegi e di distribuzione delle cariche e degli onori, ha saputo mantenere, per grazia di Dio, un certo considerevole distacco da questa marmaglia di pirati della nobiltà. E non sarà mai detto che i Duchi di Homoshire debbano seggere a tavola con villani rifatti o con stallieri arricchiti.
Anche se i tempi sono cambiati – e mai la storia dei costumi conoscerà l’ollotalio di tanta promiscuità indigesta – i Duchi di Homoshire, me compreso, non sono cambiati e, statene certi, non cambieranno mai.

Vorrei sentirle le grasse risate di Jerry, il fantasma di famiglia, che degnamente è ospite del nostro castello dai tempi fastosi della corte del Galles e delle gesta encomiabili dei briganti della foresta che, a un dato momento, seppero, nel loro grezzo spirito, riconciliare la saggezza dell’amor patrio e della divinità regale, tanto da scagliarsi contro i nemici della corona e di offrire ai nobili e a Sua Maestà Serenissima un trono tanto glorioso quanto minacciato per la sua assenza.
Vorrei sentire le grasse risate del Duca Jerry, morto precipitando nel pozzo delle spade da lui stesso costruito…!
Vorrei sentirle, se i Duchi di Homoshire sedessero alla mensa di briganti e di stallieri, o magari concertassero, con meschinità e disonore, un matrimonio tra una delle loro figlie e un arricchito avventuriero della costa, solo per risanare i forzieri che il tempo e la decadenza hanno voluto copiosamente vuotare…
Il nostro castello, terribile nella sua possenza, tetro ma pur tanto affascinante e munito di ogni necessaria e superflua comodità, ha oggi asciutto il canale che lo circonda. Il ponte levatoio è stato tolto, per volontà del povero mio padre, e al suo posto un ponte largo e in pietre, concede il passaggio sia ai villani del feudo che alle carrozze degli amici e dei nemici.
Perchè anche i nemici sono bene accolti – almeno, accolti senza timore – nel castello dei Duchi di Homoshire…
Un tempo i nemici accorrevano in armi, assediavano e apprestavano le torri, mentre entro le mura si alzava acre l’odore dell’olio bollente, e della pece. E correva sangue, allora, tra nemici e nemici.
Oggi è più facile che corra sangue tra amici e amici.
Perchè tra amici, con grande sprezzo e con conservazione dei rapporti di cordialità e di interesse, si usa ancora, in abbondanza, sfidarsi a duello: duelli che fanno scorrere sangue sì, ma che difficilmente lasciano cadaveri sul terreno.
Mentre tra nemici la lotta si fa di molto meno cruenta. Per nulla cruenta, anzi!
I nemici arrivano con le loro carrozze, sorridenti. lo sono ad accoglierli, sorridente come loro. E’ uno scambio d’inchini, un affinarsi di grazie e di complimenti.
Poi si cena assieme – meglio seggere a mensa coi nemici che coi villani rifatti – e si parla, mentre il maggiordomo e i domestici apprestano le stanze e gli appartamenti loro riservati.

***

E qui comincia la guerra, affatto cruenta, ma pericolosa, e parecchio, tra nemici e nemici. La guerra del pettegolezzo e delle protezioni, del nepotismo e dei favoritismi, che mina la nostra sana società e squarcia, nella lotta tra nobili, larghe ferite che permettono agli avvoltoi e agli sciacalli della borghesia facili prede e facili ambizioni di conquista e di ascesa nel nostro ambiente.

***

lo e il conte di Abeesher – che eravamo cresciuti assieme, giovinetti nel castello, con gli stessi maestri d’arte, allievi nell’Accademia reale, spericolati cavalieri nelle partite di caccia alla volpe – siamo piuttosto coalizzati. Coalizzati in una unica fortissima corazza preposta ai colpi della malignità dei nobili nostri Pari e della Corte, che disertiamo con sommo piacere, preferendovi i convegni organizzati nei nostri castelli, con la partecipazione delle scomunicate ballerine del «Opel Hall», che si accontentano, senza maggiori pretese o ambizioni, della nostra compagnia non del tutto spregevole e dei nostri ormai pochi denari.

***

Fu discutendo, quella sera, mentre quel buontempone del fantasma Jerry (Duca Jerry Homoshire, prego) stava rovesciando candelabri e armature nella stanza chiusa del castello (quella che dalla sua morte gli è stata riservata, con molta abbondanza di cimeli, proprio come lui la desiderava in vita…), discutendo con Phil Abeesher, che nacque l’idea.
-Sì, non mi spiacerebbe… L’ho visto, quello zotico. E’ tronfio e pretenzioso. E’ piuttosto sicuro di se, no?, come se tu…
-Sì, esattamente, come se io gli dovessi qualcosa. Gli debbo qualcosa, infatti, e una cifra piuttosto rilevante, mio buon Phil. Come ne dobbiamo tutti, oggigiorno, chi più e chi più ancora, noi nobili, a qualche villanzone cui abbiamo concesso il privilegio d’accogliere qualche manciata di sterline…
Phil rise in sordina. E mi fissò:
-Così quel villano si è presentato a scuotere. A pretendere la sua sporca manciata di monete, no?
-Sì. Le vuole tutte. Una sull’altra, fino all’ultima; e anche gli scellini e i penny.
-E tu?
-Io sono fuori di me. Non lo dò a vedere, perché non mi é concesso dal mio rango, ma dentro… Dentro so io cosa ho provato. «Sono venuto per quel suo piccolo debito, signor Duca. Le necessità mi stringono, signor Duca». Sempre le necessità, per questi villani. «Che debito? Di che andate cianciando, voi?». S’è fatto umile e dimesso. «Di quelle trecento sterline con vossignoria…». Gli ho riso in faccia, sprezzante. «Oh! Che sbadato (ho quasi gridato, piuttosto convincente) quelle trecento luride sterline… Embè?». «Embé, vossignoria, ne avrei urgente necessità, perché mia figlia Catherina (ha calcato su quella th posticcia) ha da ultimare il corredo, confidando negli occhi e nell’interesse di qualche grazioso signore».
Capito, Phil, la villana Catherina farebbe a meno delle trecento luride sterline. Le porterebbe in dote, agli occhi e all’interesse di qualche grazioso signore».
-E allora, carissimo?
-Allora? Sprezzante gli ho risposto che simili sciocchezze mi infastidivano e che passasse pure a ritirare i suoi denari, fra due giorni, dal mio maggiordomo.
-E il maggiordomo ha i denari?
-Il maggiordomo, poveraccio… Da mesi non ritira il salario. E’ un tradizionalista, per fortuna. E non osa chiedere. Anzi, quasi mi compiaccio ritenere che non voglia; ansioso, pari di noi (pari nell’intento, belle inteso, carissimo…) di ristabilire le distanze tra noi nobili e loro plebei… Non si usava, or sono meno di cent’anni, passare salari a maggiordomi e servi, caro Phil, tu ben lo sai! Ma i domestici pare preferiscano, in gran parte, la vita fuori del castello, per loro di molto più dispendiosa, ma reclamata dalle loro donnine risorte e ambiziose. Non ho una sterlina, insomma, Phil carissimo. Non una sterlina e neppure un penny. Il qual difetto mi infastidisce alquanto, perché gli armigeri e i dignitari di Sua Maestà hanno da tempo perso il senso dell’onore. E sarebbero capaci di valutare maggiore l’interesso dello zotico che il mio. E giungere al castello a pignorare. La plebe avanza, Phil carissimo, e bisognerebbe porvi qualche rimedio. L’idea che ti ho esposta sarebbe delle migliori, se tu volessi degnarti, per accondiscendermi quale amico, di scendere a trattare con simile plebaglia.
-La cosa mi sorride, carissimo. Perchè una lezione ben la meritano, lo zotico e sua figlia Catherina.

***

La carrozza splendente di Phil Abeesler, conte serenissimo e mio ottimo amico e vicino, fermò cigolando dinnanzi alla casa in Drummond Street.
Un servo di servi di casa Daal (mio vilissimo creditore) fu al portone e si inchinò al cocchiere, servo di nobili, il quale annunciò la visita di cortesia del conte di Abeesher al <nobile> Thomas Daal.
Il servo di servi si sentì orgoglioso e non fece in tempo ad avvisare il suo <signore> che già questi si era precipitato sin giù dalle scale e, per l’emozione e per l’invidia che suscitava nei neo-ricchi suoi vicini e concorrenti, giunse a baciare le mani del Cocchiere servo di nobili e quasi anche al maggiordomo, servo di servi.
Il mio buon amico Phil Abeesheer riuscì a trattenere il sorriso che lo premeva e a mantenere un contegno distaccato e di circostanza, sforzato nella cadenza della voce, che si mostrava abilmente deferente; quasi oserei dire, ossequiosa.
-Nella mia qualità di caro amico e di lieto messo del nobilissimo e serenissimo Duca Homoshire, sono oltremodo onorato, mio nobile signore, di trasmettervi un suo messaggio di lode e di profonda ammirazione, oltre che per voi (come di già ben sapete) per il soavissimo fiore che si appella Catherina e che vostra figlia è, qual bacio di rugiada su di un fiore, alla prima alba del creato.
Il vecchio, paonazzo, non capì un sol battito nè un accento del forbito dire del mio ottimo amico e tacque, non sapendo che dire, che articolare, confuso e salito, in un attimo, al settimo cielo. Temeva di poter rispondere a sproposito e fece di tutto, anzi molto più di tutto, per profondersi in inchini e riverenze che non so come poterono fare a non suscitare una clamorosa inopportuna risata del caro Phil, tanto e tanto portato alla ilarità e allo scherno.
-Ho quindi l’altissimo onore, nobile signor Daal, di porgervi il caldo invito del mio caro amico, il nobile Duca dì Homoshire, a che voi vi degnate, con la vostra splendida pupilla Catherina, d’essere suoi ospiti graditi al castello, per una cena cui io stesso come amico conciliante, vorrò essere presente; il nobile Duca sarà ben lieto, inoltre, di ospitarvi nell’appartamento degli ospiti per questa notte, affinché gli sia dato modo, modo gradito, di approfondire una conoscenza cui egli tiene particolarmente e che desidera coltivare al fine di giungere a eventuali accordi soddisfacenti per ambedue le casate.
Altro, continuo ed estenuante profondersi di inchini e di ossequi del villano che accettò così l’invito.
L’invito offertogli da quel buontempone di Jerry (Duca Jerry Homoshire), degno fantasma del castello di famiglia.

***

-Jerry, indubbiamente, ha fatto un bel lavoro… un ottimo lavoro, caro amico.
I cadaveri sgozzati di Thomas Daal e di sua figlia Catherina giacevano sorridenti in quel lago di sangue, in cui pareva fossero annegati.
Phil era d’accordo. Lo scherzo era pienamente riuscito…

***

Le carceri di Sua Maestà sono accoglienti, in genere, e anche confortevoli, per la plebaglia.
Non possiamo dire altrettanto per un nobile di Homoshire.
I tempi cambiano, è vero, dobbiamo ammetterlo. E cambiano in peggio.
Tra ventiquattrore, anzi, meno ventiquattrore, sarò impiccato. Da un pezzente di boia. Ciò che mi scoccia è di non avere figli.
Di lasciare il mio caro castello in mano a chissà quale commissione che permetterà alle comitive e alle carrozze lunghe gite domenicali nelle mie proprietà. Di lasciare che le cose continuino a depravarsi, che la plebe rimonti le secolari distanze.

***

La mia cella è spaziosa; anche arieggiata.
Dalla finestra, graziosamente scalfita dal tempo, con le sbarre arrugginite, vedo la mia forca.
La forca che Sua Maestà ha innalzato ai suoi figli migliori, in ossequio ai tempi che corrono e che volgono a favore della plebe… Pazienza…

***

Qualcosa si muove. O è una mia impressione?… No, è lui. Il mio vecchio amico Jerry (Jerry Duca di Homoshire) che mi sorride.
-Ci rivedremo presto, caro nipote!
-Dici?
-Sì, caro nipote: ti ho voluto con me. Lo scherzo è riuscito, no?
-Riuscitissimo, Jerry.
-Bene: la forca ti aspetta. Una morte violenta. Violenta come la mia, carissimo. Saremo in due, a divertirci, nel nostro castello, d’ora in poi.
-In due?
-Sì, in due, carissimo… Arrivederci.

***

Arrivederci.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Il vecchio amico Jerry” di Peter C. Arnold, apparso nel 1962 in “Terrore 2”, collana edita da Gino Sansoni Editore.
Peter C. Arnold è uno pseudonimo di Pier Carpi. Nato a Scandiano Reggio Emilia 1940. Morto a Viadana (Mantova) nel 2000.

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Colui che non ti aspetti

Non sorridere al bambino dai riccioli d’oro; non toccare la sua guancia di porpora: il bambino dai riccioli d’oro è colui che non ti aspetti…

Era mezzogiorno in punto.
Un mezzogiorno afoso, come novecentonovantanove altri. E il signor Ashal non era tipo da perdersi a considerare il caldo o qualsiasi altra sfumatura del tempo. Si sarebbe stupito, ma non tanto, se quel mezzogiorno fosse stato freddo; quel mezzogiorno di ferragosto: non si stupiva più tanto di nulla, da quando gli uomini s’erano messi a lanciare certi ordigni nello spazio, anche con le bombe H inserite nelle capsule dei missili.
Per questo motivo il signor Ashal uscì lietamente dal suo ufficio. S’accomodò la cartella sotto il braccio e sgambettò allegramente, senza curarsi dei suoi cinquant’anni e della sua pancia piuttosto voluminosa, sul marciapiedi, a fianco di frotte di scolari che uscivano allora dalle lezioni.
Era un tipo distratto, Wewel Ashal. E si maledisse una volta di più. Si dette una forte pacca sulla fronte e si fermò di botto.
– L’appuntamento, mormorò, l’appuntamento: queste non sono cose da dimenticare…
E si avviò, con passo deciso, al Museo della Scienza.
Il vasto piazzale che dava all’ingresso del Museo, a quell’ora, era deserto. E il grande portone era chiuso. Ma lui non se ne curò. Proseguì del suo passo deciso e penetrò nel grande portale di noce, come se non vi fosse. Non si stupì minimamente di questo suo potere, il distratto Wewel Ashal; e quando il portone chiuso fu alle sue spalle, rimase immobile a osservare il limite del lunghissimo corridoio che gli si presentava.
Era curioso, quel dinosauro tuttossa che pareva sorridergli. E anche il ghigno di quell’uomo-scimmia imbalsamato, che lasciava intravedere esasperanti venature costrette dal tempo e dalla mano paziente dello scienziato.
Respirò due volte, e poi si compiacque dell’eco sinistro dei suoi passi, sul pavimento.
Camminò deciso verso il fondo e si trovò proprio al cospetto di un gigantesco Samurai scheletrito, raccolto con le forti ossa nella corazza, col teschio che gli sorrideva dall’elmo arrugginito. Qualche gioco di fili e di sostegni doveva permettere ai resti del valoroso guerriero di poter sostenere con tanta naturalezza, col braccio alzato nell’atto di colpire, la pesante, fredda scimitarra.
Lì si fermò. Consultò per un attimo l’orologio: mezzogiorno era passato da qualche minuto. « Pazienza, pensò; non sarà la fine del… ma si corresse subito, anche nel pensiero; pazienza, speriamo che non vi sia nulla di grave, per questo piccolo ritardo ».
L’altro, comunque, non aveva tardato. Ne sentiva la presenza, il buon Wewel Ashal, in quell’ambiente. Lo stesso diffuso odore di ciclamini, che s’era sparso attorno, impregnando l’aria e le cose, proprio come a casa sua, la sera prima.

***

Era rientrato stanco e aveva acceso subito il televisore, la sera prima, Wewel Ashal, mentre s’accingeva a riordinare le carte della sua borsa, sul tavolo dello studio, in casa sua. Aperse il mobile-bar e ne trasse la bottiglia di cherry, semivuota. Se ne versò un parsimonioso goccetto in un bicchiere pulitissimo e occhieggiante e prese a centellinarlo, con calma; con la solita calma, insomma.
« Il lancio della bomba H tramite la capsula di un missile THOR non è riuscito ». La voce dello speaker, alla televisione, era alquanto monotona.
« Gli scienziati hanno provveduto a disintegrare la carica esplosiva contenuta nella capsula e il missile è svanito al largo delle isole di Pasqua ».
Wewel ingoiò brontolando l’ultimo goccio e spense l’apparecchio con rabbia.
« Fate pure, fate pure: ci ammazzerete tutti, borbottò; tutti ».
« Buonasera ».
Wewel si voltò di scatto. La vocina gli era parsa timida e bianca. Non vide subito il bambino che era seduto comodamente nella sua poltrona preferita, quattro volte più grande di lui.
Era un bel bambino. Gli occhi celesti, una lunga veste candida, con un delicato fregio nell’orlagione, in stile romanico, un fregio d’oro. Aveva riccioli lunghi e curiosamente, piacevolmente disordinati. Un sorriso magnifico, magnifico.
– Chi sei? – chiese Wewel.
Il bambino continuava a sorridere.
E Wewel non s’accorse nemmeno che non gli rispondeva, rapito com’era nella contemplazione del suo bellissimo volto. Delle sue manine rosee, che giocavano leggermente con l’orlo consunto della vecchia poltrona.
– Sei un angelo?… Un angelo… Ho sempre pregato per vedere un angelo. E mi hanno mandato il più bello…
Così dicendo Wewel prese ad avvicinarsi alla bella creatura, che continuava a sorridergli.
– Non avvicinarti, gli disse severo il bambino; – è meglio che non ti avvicini.
Ma Wewel non lo ascoltava. Le mani protese, sfiorò la carnagione rosea del bambino, ma ritrasse subito, violentemente, le mani. Aveva percepito qualcosa.
E ora il bambino non gli sorrideva più. Aveva gli occhi fissi su di lui, in un cipiglio severo, e il colore della sua pelle andava sempre più macerandosi.
E Wewel inorridì. Inorridì di quelle rughe chiassose e profonde, di quelle vene macilente e di quelle piaghe che andavano lentamente imprimendosi, lentamente e inesorabilmente, sul volto del fanciullo.
– Ti avevo detto di non avvicinarti.
– Sei un angelo? – Lo chiese con minor convinzione, ora, Wewel.
Il bambino sghignazzò, volgarmente. Mentre la peluria andava coprendo le sue guance e le sue braccia.
Allora Wewel notò il pus che andava raggrumandosi e propagandosi, con violenza, su quella carne che un attimo prima era rosa.
– Un angelo?
Solo allora Wewel si accorse di quello strano intenso odore di ciclamini, che arieggiava intorno. Annusò. E respirò a pieni polmoni di quell’aria. Il bambino continuava a fissarlo, immobile, mentre le sue carni subivano quel crescente processo di macerazione.
– Sei ammalato… Sei venuto da me a farti curare, fanciullo?
Il ragazzo continuava a sghignazzare. Ora era in piedi. E pareva ancora più piccolo di prima, più minuto, con la testa enorme, macabra per quelle vene e quelle rughe disgustanti, che gli si piegava in avanti.
La sua mano si alzò, lentamente.
– Sono venuto a prenderti, maledetto uomo. Io sono la morte.

***

Il giorno dopo quella conoscenza, la mattina presto, Wewel si alzò e si recò fischiettando in ufficio.
« Strano tipo, quel ragazzo: chi l’avrebbe mai detto che la morte era così? ».
Ma non ci pensò poi tanto, Wewel, quella mattina, perché le pratiche dell’ufficio non permettevano distrazioni: tre giorni per preparare a dovere la relazione sulla distribuzione dei cementi ai cantieri del lato est della città.
E il suo dovere doveva e voleva farlo sino in fondo, anche se sarebbe morto a mezzogiorno di quella stessa giornata.
Mezzogiorno. Per quell’ora doveva trovarsi al Museo della Scienza, in fondo al primo corridoio, di fronte allo scheletro di un guerriero Samurai con la scimitarra in mano.
« Sarà chiuso, a quell’ora », aveva replicato.
« Non preoccuparti », aveva risposto il ragazzo – vecchio; « passerai per il portone chiuso. Perché sarai già virtualmente morto ».
Wewel aveva sorriso.

***

E ora si trovava lì, a osservare il ghigno del Samurai scheletrito, a domandarsi il principio di gravità che permetteva a quella grossa, abnorme scimitarra d’essere sorretta dalla mano di un morto. E ad assaporare il gustoso profumo di ciclamini, d’intorno.
– Salve.
Wewel si voltò.
– Devi scusarmi il ritardo, disse impacciato; – ma non sono abituato a queste cose.
Il ragazzo dal volto rugoso di vecchio sorrideva. Se quello poteva dirsi un sorriso.
– Ho sempre saputo – proseguì sempre più timidamente Wewel – che si morisse in un modo diverso, e che la morte fosse vestita di nero, con un cappuccio consunto sul cranio di una vecchia megera, con in mano una falce simbolica, che…
Parlava e parlava il buon Wewel. E il ragazzo vecchio sorrideva.
Non sapeva, Wewel, che dal giorno prima erano trascorsi milioni di anni.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Colui che non ti aspetti” di Peter C. Arnold, apparso nel 1962 in “Terrore 4”, collana edita da Gino Sansoni Editore, e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.
Peter C. Arnold è uno pseudonimo di Pier Carpi. Nato a Scandiano Reggio Emilia 1940. Morto a Viadana (Mantova) nel 2000.

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