Trap di M. Night Shyamalan

Trap (Usa, 2024)
Regia: M. Night Shyamalan. Sceneggiatura: M. Night Shyamalan. Fotografia: Sayomphu Mukdiphrom. Montaggio: Noëmi Preiswerk. Musiche: Herdís Stefánsdóttir. Scenografia: Debbie DeVilla, Brittany Morrison. Costumi: Caroline Duncan. Produttori: M. Night Shyamalan, Marc Bienstock, Ashwin Rajan. Produttore esecutivo: Steven Schneider. Case di Produzione: Warner Bros. Pictures, Blinding Edge Pictures. Distribuzione (Italia): Warner Bros. Italia. Genere: Thriller, Giallo. Anno: 2024. Paese di produzione: Usa. Durata: 106′. Interpreti: Josh Hartnett (Cooper), Ariel Donoghue (Riley), Saleka (Lady Raven), Hayley Mills (dottoressa Josephine Grant), Alison Pill (Rachel), Jonathan Langdon (Jamie), Mark Bacolcol (Spencer), Marnie McPhail (mamma di Jody), Kid Cudi (The Thinker), Russ (Parker Wayne), Marcia Bennett (Madre di Cooper), Lochlan Miller (Logan Adams), M. Night Shyamalan (Zio di Lady Raven).

Cooper è un vigile del fuoco e padre di famiglia che realizza il sogno di sua figlia Riley: portarla al concerto della sua cantante preferita Lady Raven. Il pomeriggio procede bene fino a quando Cooper nota un esagerato spiegamento di forze di polizia. Chiede spiegazioni quindi a James, un commesso addetto alle vendite allo stand dei gadget, il quale gli dice che il concerto è una trappola per catturare Il Macellaio, un serial killer che da tempo terrorizza la città con dodici vittime all’attivo. L’FBI è venuta a sapere che tale killer sarebbe stato presente al concerto. Riley comincerà a notare gli strani atteggiamenti di suo padre ma l’uomo riesce a ingannare anche sua figlia in modo abile e calcolato. In alcune scene invece appare agitato e pensieroso proponendole di andare a curiosare in giro con l’unico scopo di trovare una via di fuga dall’edificio. Riuscirà comunque nel suo intento sfruttando la passione della figlia per la popstar ed entrando in contatto diretto con quest’ultima… ma sarà l’inizio della fine per Cooper che vedrà la sua vera identità venire allo scoperto.

M. Night Shyamalan torna alla regia a un anno dal suo ultimo Bussano alla Porta (datato 2023) con questo thriller semplice ma ricco di sostanza. Senza troppi giri di parole, il regista rivela quasi subito allo spettatore chi è l’assassino nel film in quanto non vuole giocare sulla suspense come se fosse un giallo poliziesco ma bensì concentrare l’attenzione sul personaggio. Il macellaio ci apparirà più che altro come un astuto “Arsenio Lupin” capace di svignarsela e farla franca facilmente ingegnandosi come può sfruttando l’ambiente circostante e la sua capacità di interagire con le persone (risparmiandoci di mostrare i suoi omicidi con dei flashback, il che risulta positivo visto il contesto trattato). Il merito della riuscita di tale personaggio sta nell’azzeccata scelta dell’attore, tale Josh Hartnett (Halloween 20 Anni Dopo, The Faculty, Il Giardino delle Vergini Suicide, Pearl Harbor, Sin City, 30 Giorni di Buio, Oppenheimer… giusto per citarne alcuni) che ci offre una performance convincente e si cala perfettamente nei panni del pazzo omicida nonostante abbia avuto sempre ruoli da bravo ragazzo nella sua carriera. Il film è anche una scusa da parte del regista (che interpreta un cameo come zio di Lady Raven) per pubblicizzare la figlia cantante Saleka (nei panni di Lady Raven) facendola dunque debuttare nel mondo del cinema affidandole il ruolo di personaggio chiave nella parte finale del film. Il finale, che tenderà a movimentarsi con una frenetica caccia all’uomo e allo stesso tempo con un inseguimento tra gatto e topo, risulta ben coordinato e studiato grazie a una sceneggiatura solida ma non troppo impegnativa che risponderà a tutti gli interrogativi che si è fatto lo spettatore durante la visione.

Il regista questa volta abbandona il suo essere visionario offrendoci un prodotto più concreto, quasi a trattarlo come un fatto realmente accaduto. Intrattiene senza annoiare. Seppur possa sembrare a tratti prevedibile, è comunque un film valido e meritevole di visione.

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Le donne al balcone – intervista a Noémie Merlant

Le donne al balcone, l’ultimo film di Noémie Merlant è appena uscito nelle sale italiane. Per l’occasione pubblichiamo un’intervista all’attrice regista.

La sinossi del film
Durante una torrida estate a Marsiglia, tre giovani inquiline di un vivace condominio spiano dal balcone del loro appartamento la vita di un attraente vicino di casa.
Ma quando l’uomo le invita a casa sua per un drink a tarda notte, le conseguenze saranno terrificanti e deliranti e le tre amiche dovranno escogitare una soluzione rocambolesca per uscire dai guai e rivendicare la loro libertà.

Come sei giunta a un film che unisce commedia, horror, il surreale e argomenti così sensibili come il sessismo e la violenza sessuale? Da cosa sei partita?
Ho iniziato a scrivere da sola circa quattro anni fa. Sono partita da uno spunto reale: in quel momento dovevo uscire di casa, fuggire da una situazione che non mi faceva sentire realizzata. Mi sono rifugiata presso le mie amiche, tra cui Sanda Codreanu, che nel film interpreta Nicole. Viveva con le sue sorelle che sono anche mie ottime amiche. Ho vissuto per diversi mesi in questa sorta di gineceo, era una dinamica di vita diversa. Non avevo mai vissuto da sola e mai con altre donne, e questo mi ha fatto molto bene. Ci sono stati molti confronti tra noi, sui nostri sogni, sui nostri traumi, sui nostri desideri e sull’oppressione patriarcale. C’era un ragazzo che viveva dall’altra parte della strada – niente a che fare con il vicino del film – lo abbiamo visto che ci guardava, era curioso della nostra libertà, della nudità consentita tra di noi, che non era una nudità di seduzione, ma piuttosto quella di una fiducia ritrovata, di corpi che si rilassavano. Ho voluto partire da questo per il film, con una forte pulsione liberatoria di addentrarmi nell’umorismo, nel cruento, nell’eccesso, nell’assurdo, nel fantastico… Insomma, in una commistione di generi che riflette la pluralità dei messaggi: la denuncia delle oppressioni, ma anche e soprattutto la valorizzazione onirica della liberazione.

Questo mix di generi è una delle caratteristiche principali del film. Come spieghi questa scelta stilistica?
È uno stile che amo e che mi tocca particolarmente, e che in fondo mi somiglia. Questo mi è sembrato il modo più interessante per descrivere il femminile ed esplorare tutto ciò che avevo da raccontare. Volevo un mix di forme e colori, un film libero ed esuberante che rasentasse il cattivo gusto e la volgarità, pur conservando l’umorismo, una certa poesia e temi forti che mi stanno molto a cuore: l’intimità femminile, lo stupro, le sue conseguenze e l’oppressione patriarcale. Ho subito immaginato il film come una farsa punk sfrenata, ma doveva prendere vita con personaggi con cui potessimo identificarci. Quindi ho preso spunto dalla mia esperienza. Gli abusi che subiscono i personaggi, li ho subiti anche io. Filmarli usando l’umorismo era l’unico modo per rappresentarli e prendere distanza dai quei momenti. Per me l’umorismo e la satira sono armi forti. Quindi oltre a essere liberatorio, spero che sia anche un film che faccia bene, che faccia ridere e pensare.

La sceneggiatura è cofirmata da Céline Sciamma. Com’è nata questa collaborazione?
Céline Sciamma ne ha seguito lo sviluppo da lontano fin dall’inizio. Poi si è offerta di aiutarmi a scrivere il film, con un entusiasmo che mi ha commosso. Non abbiamo mai smesso di parlarne dai tempi di Ritratto della giovane in fiamme. Tra noi era già in corso un dialogo, lei conosce molto bene il mio mondo, capisce la mia personalità e anche il mio modo di scrivere, che è abbastanza esuberante e destrutturato. Il processo di scrittura è stato molto fluido, Céline mi ha proposto cose senza impormi nulla, comprendendo le mie intuizioni: il mio desiderio di esplorare il genere, la commedia, il lato un po’ folle, i fantasmi, che per me erano essenziali. Senza togliermi nulla, mi ha permesso di affermare le mie decisioni e di rafforzarle. Mi ha anche aiutato a consolidare la struttura per permettere al film di essere più libero, di arricchire i personaggi, le loro traiettorie e di sviluppare, credo, un rapporto di sorellanza poetico.

Una delle protagoniste, Nicole, è una scrittrice e sta seguendo un corso di scrittura online. Mette tutto in discussione: le regole, gli schemi prestabiliti… Anche tu ti approcci in questo modo alla scrittura?
Nicole – grazie a un’improvvisazione di Sanda – dice nel film: “Preferisco sbagliare con un’idea mia piuttosto che avere ragione con quelle degli altri”. Questo è il mio modo di pensare. Mi piace l’idea che l’assunzione dei rischi sia un percorso che porta alla scoperta di sé. Allontanandomi da metodi e idee già collaudate, ho avuto l’impressione di raggiungere una forma di sincerità, di onestà che mi sembrava necessaria visti gli argomenti che volevo affrontare in questo film. Volevo divertirmi con i canoni dello “sguardo maschile”, della donna-oggetto, della donna misteriosa, e aggirare le classiche dinamiche narrative che portano ai conflitti… Cercare di reinventare certi canoni significa arrivare a un punto di rottura: è questo ciò di cui il film parla anche attraverso il personaggio di Nicole. Esci dal tuo balcone, esci dalla tua zona di comfort. Invertire le prospettive, metterci nei panni degli altri, riappropriarci delle nostre storie, come quelle di violenza sessista e sessuale. Ho voluto, ad esempio, non spettacolarizzare lo stupro di Ruby solo per rendere più credibile la sua versione, ma di filmare invece lo stupro coniugale subito da Élise, che descrive una situazione così poco raccontata e così poco compresa.

Le tre protagoniste del film hanno ciascuna una personalità molto forte, che viene rivelata nel corso del film. Come hai creato questi personaggi?
Pensando alla trama, ho voluto iniziare prendendomi il tempo necessario per presentare i tre personaggi in modo che potessimo capire bene la personalità di ciascuna di loro: i loro problemi, la gioia di vivere dell’una, i sogni impediti dell’altra ecc., in modo da rendere più autentico lo shock dello stupro. Inoltre, in un altro momento, perdiamo momentaneamente di vista uno dei tre personaggi. Céline mi ha aiutato molto in questo. Avevamo bisogno di questa “sparizione”, di sentire una mancanza quasi organica.
Mi è piaciuto molto scrivere un film con tre personaggi principali, che si traducono da un lato in una dimensione di gruppo, come una sorellanza, e dall’altro in un viaggio individuale attraverso il quale ognuna dovrà conquistare la propria libertà.
Nicole, è una scrittrice utopica e sognatrice. È in costante contraddizione interna tra il suo bisogno di essere sé stessa e i vecchi doveri che la società le impone, come il desiderio di piacere, di essere guardata e ascoltata dagli uomini. Questa donna resta sul balcone a scrivere e non esce più perché il mondo le è ostile, ma attraverso la scrittura cerca di inventare un mondo nuovo, dove la vita è più bella. Mi piace l’idea che possiamo chiederci se la storia del film non sia in realtà quella che lei sta scrivendo.
Ruby è una camgirl libera e appassionata. All’inizio del film la vediamo impegnata in una “troppia”, con una donna e un uomo. Era importante mostrare un personaggio che si assume le sue responsabilità, è felice, viva e ridefinisce le leggi dell’amore. È una donna che ama ciò che fa, che si impone, che disturba e che non si lascia condizionare. Dopo la tragedia subita, continua a essere il motore della propria vita, grazie in particolare alle sue amiche che le credono e la supportano.
Élise è un’attrice un po’ insicura e ansiosa. Arriva in crisi a casa di Nicole e Ruby vestita da Marilyn Monroe. Attraverso di lei ho voluto parlare di una figura che si sente soffocata e paralizzata, un ruolo che ci è sempre stato assegnato: quello della donna misteriosa, devota, materna e irreale. Nei miei sogni vedo Marylin ritrovare i suoi amici, in un luogo dove può sentirsi al sicuro, viva e libera da questa figura mitica che le impedisce di essere sé stessa. Questo è il percorso di Élise e mi tocca profondamente. Marilyn esiste solo attraverso il desiderio maschile, è stata plasmata da lui e per lui. Quindi è stato divertente e liberatorio giocare con questo personaggio.

Hai girato questo film in condizioni completamente diverse rispetto a Mi Iubita Mon Amour. Con un tempo di riprese più lungo e con più mezzi. Come hai vissuto questo cambiamento?
Ho girato il mio primo film da dilettante in due settimane e con solo due persone nel team tecnico. Qui ho avuto a disposizione un team completo, mesi di post-produzione… Essendo una persona piuttosto ansiosa, ho sentito addosso un’enorme pressione ma alla fine trovo che sia stata sana e costruttiva. Questi mezzi mi hanno permesso anche di avere più tempo per pensare e provare, per mettere in campo idee più complesse nella messa in scena e nella direzione artistica. Per ammorbidire questa pressione, o almeno umanizzarla, mi sono circondata di persone che già conoscevo: Sanda, il mio produttore Pierre Guyard, che mi ha accompagnata durante la post-produzione del primo lungometraggio, Céline, che è rimasta in contatto con la produzione durante tutto il processo creativo, Armance Durix al suono e Evgenia Alexandrova alla fotografia, alla quale ora sono molto legata. Non mi sono mai sentita persa.

Quali sfide hai affrontato con Evgenia Alexandrova, la direttrice della fotografia, e con il team in generale?
Sapevo di voler offrire allo spettatore un viaggio esuberante e spingermi oltre nella direzione estetica del film, dei costumi, dei colori, delle ambientazioni… Oltre alla storia che a volte flirta con l’horror, altre volte con la favola, la forma doveva seguire l’eccesso e la farsa. Volevo provare a giocare con la nostra immaginazione e rovesciare gli schemi. La prima parte del film è più morbida, colorata e gioiosa, come se ci stessimo addentrando in una commedia romantica ispirata al cinema di Almodóvar. Un mix esplosivo di colore, eccesso e vitalità che permette alle protagoniste di atteggiarsi anche con volgarità e, così facendo, trovare il loro spazio. Questa “sana volgarità” imponeva anche di filmare le donne in una certa rilassatezza, per evitare la sessualizzazione dei corpi. Mi piacciono questi personaggi colorati, donne molto caratterizzate, che parlano ad alta voce. A volte sono quasi caricature dei personaggi dei fumetti. Nella seconda parte, quando andiamo a casa del vicino, volevo che il film virasse verso il thriller, il fantasy, il gore. Volevo una fotografia che virasse verso il verde, per esprimere angoscia pur mantenendo la linea della comicità, dell’assurdo. Avevamo in mente lo stile dei thriller coreani e giapponesi, come The Wailing o The Chaser di Na Hong-jin o Ichi the Killer di Takashi Miike. Infine, Tarantino e Grindhouse – A prova di morte o tutti i film cruenti che guardavo da piccola con mia sorella, i film di fantasmi che mescolano i generi, soprattutto con molto umorismo. Alcune scene sono state molto “orchestrate”, coreografate e montate, altre invece sono state girate con la macchina da presa a mano, come ad esempio le scene notturne. Un altro grande riferimento di cui abbiamo discusso molto con Evgenia è stato Le margheritine di Vera Chytilova, in cui le donne sono state riprese nella loro intimità come non si era mai visto prima.

Come per il tuo primo film, anche qui eri dietro e davanti alla macchina da presa. Come influisce questa situazione sul tuo modo di recitare?
Come regista, ho meno tempo per guardare le inquadrature, pensare e prendere le distanze dal set. E come attrice non ho tempo per analizzare ogni performance. Avevo però preparato così tanto il mio personaggio fin dalla scrittura che sapevo bene come avrei dovuto interpretarlo, quindi mi sono concessa cose più esuberanti. E poi, quando recitavo, sentivo il film crescermi dall’interno, e ho osato spingermi dove non avrei mai immaginato da regista.

Souheila Yacoub e Sanda Codreanu hanno composto il resto del trio di protagoniste. Puoi parlarci di queste scelte?
Mentre scrivevo pensavo già a Sanda, perché è una donna che mi ispira moltissimo nella vita. È un’attrice eccellente che ha fatto molto teatro e che ha un’unicità che mi tocca enormemente. Per Nicole, aveva bisogno di qualcuno che avesse una fisicità particolare e una timidezza sincera mentre affermava le sue idee.
E poi, al di là di questo, il film parte da lei, da casa sua. Penso che non si vedano spesso attrici di questo tipo nei film. Le ho chiesto di ispirarsi a Kwak Do-won in The Wailing e a Whoopi Goldberg in Ghost, aggiungendo sfumature farsesche. Sanda ha partecipato molto alla scrittura dei dialoghi del suo personaggio. Ha un senso del ritmo che permette alla scena di svolgersi rapidamente.
Per il personaggio di Ruby ho visto molte attrici durante il casting, ma quando Souheila ha fatto alcune prove, mi è sembrata la scelta più ovvia. È molto istintiva, integra, sincera. C’è un lato genuino e vibrante in lei. Il suo ruolo lo abbiamo cercato e costruito insieme.

E la scelta di Lucas Bravo per il ruolo del vicino?
Per questo personaggio cercavo un uomo dal fisico attraente, ma soprattutto un bravissimo attore, capace di passare da uno stato emotivo all’altro, in grado di affascinare queste ragazze così come di metterle a disagio. Lucas ha una presenza scenica incredibile e stravolge l’immagine che noi tutti abbiamo conosciuto con la serie Netflix Emily in Paris. Per me la qualità più grande di un attore è non aver paura di giocare con l’autoironia.

Il vicino che affascina le protagoniste di professione fa il fotografo. Il dramma avviene durante una sessione fotografica con una di loro. Questo rapporto è l’inverso di quello tra il tuo personaggio e quello di Adèle Haenel in Ritratto della giovane in fiamme. Che effetto ha su di te il tema della musa e del pigmalione?
Ho iniziato come modella e quello che succede a Ruby l’ho scritto basandomi sulla mia esperienza. Ci sono storie vere e aneddoti presi dalla realtà un po’ ovunque nel film, come le modelle di cui il fotografo dice di voler catturare l’anima nonostante siano nude e con un sacco in testa! Sullo sfondo di questo discorso del fotografo e del suo rapporto con l’arte, c’è l’idea di possesso, di dominio, di una certa idea di creazione e tirannia per cercare di “catturare l’essenza”. Questo esiste ancora tra molti artisti. Grazie a persone come Céline Sciamma ho scoperto che si poteva creare arte in modo completamente diverso. Questo è ciò che sostiene il personaggio di Nicole nel suo rapporto con la scrittura. È un’altra idea della ricerca della verità, del significato delle cose. È complicato perché tutta la nostra società è fondata su questa dinamica, su questa gerarchia.
È difficile creare un’opera collettiva come un film ma è un’esperienza che mi da tanto. Ci deve essere sempre un conducente, ma bisogna mantenere uno sguardo orizzontale, un dialogo e aprirci alla possibilità di dire che “non sappiamo”, alla possibilità di sbagliare e di accogliere le proposte degli altri, ecc.

Gli uomini presenti nel film sono tutti “problematici” e “opprimenti”. Era intenzionale?
Sì, è proprio questa la particolarità del film, una sorta di incubo… Come se, nel corso di una giornata, tutti gli uomini si fossero messi d’accordo. Questo è stato portato all’estremo, per adattarsi al tono generale del film. Questo film parla di violenze e aggressori e non volevo cadere nel politically correct con uno o pochi uomini che si distinguessero dagli altri. Nel mio film gli aggressori e gli oppressori occupano tutto lo spazio, e non vediamo, non sentiamo gli altri, “quelli buoni”, quelli che capiscono e non abusano… Dove sono loro? Questa è la domanda che forse volevo porre. Volevo anche mostrare che, come nel caso di Paul, il marito di Élise, possono esserci amore, incomprensione e voglia di cercare di capire, anche in un rapporto tossico. Tuttavia, mi piace l’idea che possiamo provare tenerezza per lui in alcune scene. Perché gli aggressori non sono sempre mostri, spesso non lo sembrano affatto, a volte possono nascondersi dietro apparenze molto diverse dalla realtà. Spero che le persone riusciranno a capire perché Élise riusciva a immaginare una vita con lui in passato, perché lo amava. E perché ora non può più farlo.

NOÉMIE MERLANT
Noémie Merlant è una regista e attrice francese.
Ha collaborato in veste di attrice con molti prestigiosi registi tra cui Céline Sciamma (Ritratto della giovane in fiamme, 2019), Jacques Audiard (Parigi, 13Arr. Les Olympiades, 2021), Todd Field (Tár, 2022) e più recentemente con Audrey Diwan (Emmanuelle, 2024). Sarà inoltre nel cast di Duse, il nuovo film di Pietro Marcello, accanto a Valeria Bruni Tedeschi.
Nel 2023 ha vinto un Cesar per la Migliore Attrice per la sua interpretazione in L’innocente di Louis Garrel. Dopo aver diretto diversi cortometraggi, Noémie Merlant ha scritto e diretto un primo lungometraggio nel 2020, Mi Iubita Mon Amour, presentato nella selezione ufficiale del Festival di Cannes. Il suo nuovo film, Le donne al balcone – The Balconettes, in cui è protagonista insieme a Souheila Yacoub e Sanda Codreanu, è stato presentato al Festival di Cannes 2024 nella sezione Midnight Screenings.

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A Different Man al cinema

Oggi esce nei cinema A Different Man, il nuovo film di Aaron Schimberg.

Sinossi
Edward, aspirante attore, si sottopone a un intervento medico radicale per trasformare drasticamente il suo aspetto. Ma il suo nuovo volto da sogno si trasforma rapidamente in un incubo, perché perde il ruolo che era nato per interpretare e diventa ossessionato dal desiderio di recuperare ciò che è stato perso.

Un thriller fuori dal comune
A Different Man di Aaron Schimberg, provocatorio e audace, racconta la storia di un uomo che si sottopone a una trasformazione radicale. Un thriller cupo e divertente che esplora il complesso rapporto tra chi siamo e come ci vede il mondo.
Il film segue le vicissitudini di Edward, un solitario newyorkese a cui viene offerta l’eccezionale opportunità di cambiare radicalmente l’aspetto del suo volto e quindi di rinascere a nuova vita. Tuttavia, questa svolta avrà conseguenze del tutto impreviste e anche se all’apparenza la sua esistenza viene completamente rivoluzionata, in realtà non sembra essere cambiato niente. Certo, fisicamente è diventato A Different Man, un uomo diverso, ha cambiato pelle per ricominciare da capo lasciandosi alle spalle una vita che non gli appartiene più, ma uno scherzo del destino gli impedisce di essere chi voleva diventare e viene travolto da una nuova realtà che diventerà presto un vero e proprio incubo.
Caratterizzato da un umorismo cupo e da una tensione paranoica degna di un grande noir, il film rivela una potente visione da parte del regista newyorkese Schimberg che non ha praticamente precedenti. Schimberg entra a pieno titolo nel novero dei cineasti americani che fondono con maestria la suspense comica con la ricchezza di idee tematiche e la voglia di raccontare storie che guardano il mondo da angolazioni diverse e inattese.
Per quanto destinato a diventare un classico, A Different Man di Schimberg sfida i limiti della narrazione come solo un film di oggi può fare. Ambientato in un mondo appena sopra le righe, in cui una procedura medica fittizia e inquietante permette di rimodellare la testa di un uomo, il film crea un’atmosfera intensa che rimanda a una miriade di riferimenti e storie di persone distrutte dall’immagine riflessa nello specchio: personalità perdute, maschere, imposture, doppioni ingarbugliati. La storia è intrisa della vertiginosa illogicità di un brutto sogno. Ma oltre ai brividi, sotto la superficie si cela un’esplorazione della bellezza, dell’attrazione, del successo, dell’apparenza e del concetto sfuggente di chi siamo veramente.
Quanto è malleabile il sé? Quanto è inseparabile dalle apparenze e dalle percezioni? Cosa deve cambiare davvero in una persona per modificare il suo destino? E cosa succede quando vediamo qualcun altro prendere il nostro posto nel ruolo che pensavamo sarebbe spettato a noi? Un turbinio di interrogativi alimenta il crescente senso di smarrimento che il film coltiva con cura, mentre l’invidia, il rimpianto, la gelosia e la frustrazione alterano il destino di Edward tanto quanto il cambiamento radicale del suo aspetto.
Schimberg scava nel profondo con svolte narrative precise e sferzanti, sovvertendo le aspettative in modo subdolo e offrendo dialoghi carichi di emozione. Il regista non nasconde il suo amore per i film di genere, una passione che si percepisce nei dialoghi comici e scoppiettanti e in uno stile cinematografico che esalta il noir e il buio della notte. Le pareti del suo ufficio sono tappezzate di poster degli innumerevoli horror della RKO di Val Lewton, di una bellezza inquietante. Ma per Schimberg, optare per un film di genere è semplicemente il modo più adatto per invitare il pubblico a intraprendere un viaggio incantato e a incontrare personaggi mai visti prima sullo schermo, per riflettere su chi siamo come esseri umani, come veniamo percepiti dall’esterno e cosa desideriamo al di fuori della nostra realtà.
Fin dall’inizio della sua fortunata carriera, Schimberg si dedica a esplorare le zone d’ombra, spesso controverse, del volto e delle sue sfaccettature, soffermandosi su ciò che implica per una persona essere bella (o bestia presunta) e su come lo sguardo della macchina da presa, spesso espressione di desiderio, riesca a superare questi preconcetti. Non a caso, il suo film precedente, Chained for Life, è stato definito “un film fondamentale sulla rappresentazione di quei gruppi che Hollywood preferisce tenere a distanza”.
Con A Different Man Schimberg utilizza questi temi non solo per costruire la suspense, ma anche per affrontare il nodo della natura precaria dell’identità, per stimolare una difficile conversazione sulla rappresentazione vera e fasulla e per ridere della nostra perenne ossessione a inseguire qualcosa che non abbiamo (e che magari un tempo avevamo).
“Non è un argomento facile da affrontare in una conversazione e lo è ancora meno in un film, che è soggetto dal punto di vista commerciale ai più elevati standard di bellezza”, ammette lo sceneggiatore e regista.
Per Schimberg il tema è profondamente personale. Lui stesso ha sofferto di labbro leporino (labiopalatoschisi) bilaterale ormai corretto, un’esperienza che ha lasciato il segno sul suo modo di vedere il mondo. “Tra le deturpazioni facciali, la mia è una delle più comuni, eppure ho visto solo rappresentazioni negative o offensive di persone come me. Mi sono sempre chiesto: come posso rappresentare una persona come me in modo positivo o almeno realistico e in linea con la mia esperienza?”.
Inizialmente, quando si è seduto a scrivere A Different Man, Schimberg pensava a una rivisitazione de Il dottor Jekyll di Rouben Mamoulian, il grande classico horror “Pre-Code” del 1931, incuriosito dal senso di liberazione che si prova quando ci si perde in un personaggio. “Pensavo a una storia in cui un uomo sfigurato guarisce per qualche ora ogni notte e si gode la vita come una persona normale”, racconta il regista. “Anche se quest’idea si è rivelata poco fattibile, il concetto di fondo mi è rimasto comunque in testa”.
Poi Schimberg è rimasto affascinato, per quanto improbabile possa sembrare, dalla commedia drammatica Wonder del 2017, interpretata da Julia Roberts e Jacob Tremblay, che racconta la storia di un ragazzino che si trova a fare i conti, sui banchi di scuola, con le malformazioni cranio-facciali della sindrome di Treacher Collins. Non essendo uno che si ferma alle apparenze, Schimberg ha iniziato a chiedersi se non ci fosse una storia più profonda nascosta dietro al famoso best-seller per ragazzi di R. J. Palacio che ha ispirato il film.
“Narra la leggenda che l’ispirazione le sia venuta un giorno mentre era in gelateria insieme a suo figlio”, racconta Schimberg, riferendo l’aneddoto spesso raccontato dall’autrice Palacio. “Videro un bambino dall’aspetto strano, suo figlio si spaventò e lei si rese conto di non avere la più pallida idea di come gestire la situazione, un’esperienza che la portò a dubitare delle sue capacità di essere genitore e perfino dei suoi valori morali. Così decise di scrivere il libro per dire alla gente che quando vedi qualcuno dall’aspetto sfigurato, magari ha una personalità assolutamente fantastica.”
Spinto dalla sua innata curiosità, Schimberg sentiva il bisogno di saperne di più e di scoprire cosa provava quel ragazzino sfigurato nella gelateria, che è diventato così una musa suo malgrado.
“Pensavo a come si sarebbe sentito quel bambino se fosse andato al cinema e si fosse ritrovato a guardare il trailer di un film in cui c’è un bambino che gli assomiglia, interpretato da un bambino che in realtà non gli assomiglia per niente”, spiega Schimberg. “Vede insomma la sua vita come se la immagina quella mamma che è rimasta turbata dal suo aspetto. È stato allora che ho iniziato a pensare a un film su un uomo che sospetta che la sua vita sia lo spunto di un fenomeno in stile Wonder. È praticamente sicuro che la storia sia basata su di lui, ma nessuno gli crede”.
Quando Schimberg ha tirato le fila di queste idee disparate sono nati Edward, l’attore newyorkese la cui faccia cambia completamente grazie a un farmaco sperimentale, e il suo alter-ego Guy, attore molto fotogenico e stella nascente del palcoscenico rimasto a lungo nell’ombra ma finalmente sul punto di farcela. Per quanto sia efficace la sua radicale trasformazione esteriore, Guy continua a sentire la necessità di sostituire il suo nuovo volto bello e carismatico con una maschera che simula il suo aspetto precedente, oscillando tra due identità, incapace di convivere con sé stesso o meglio con i suoi due sé. Come se non bastasse, il destino ha in serbo uno scherzo crudele: la sua nuova vita comincia ad andare a rotoli, mentre l’attore sfigurato che lo interpreta in uno spettacolo teatrale ottiene un successo straordinario.
Schimberg racconta che, mentre scriveva la sceneggiatura, un altro episodio che lo ha portato a riflettere ancora di più sulle conseguenze indesiderate per chi si prefigge di cambiare radicalmente la propria vita. Ricorda infatti di aver incontrato una vecchia conoscenza che gli sembrava completamente diversa da come se la ricordava. Questa donna gli ha spiegato che aveva deciso di dare una svolta alla sua vita adottando una personalità completamente diversa e liberandosi una volta per tutte della timidezza, che un tempo la rendeva adorabile, per adottare uno stile più aggressivo. Gli ha detto che non voleva più essere considerata una persona arrendevole, perché la cosa rappresentava un ostacolo sul piano personale e professionale.
Schimberg è rimasto sbalordito pensando che quella donna aveva deciso di rinunciare ad alcuni aspetti di sé che invece secondo lui la rendevano attraente. “Mi sono chiesto cosa ci stesse guadagnando e cosa ci stesse perdendo”, riflette Schimberg. “E poi, lei chi era in realtà? Era entrambe le versioni? Nessuna delle due? E poi mi sono chiesto se io sarei riuscito a cambiare così radicalmente la mia personalità”.
Tutti gli elementi inquietanti di A Different Man hanno cominciato così a prendere forma. L’esistenza ansiosa e complicata di Edward prima della trasformazione. Il suo appartamento angusto e squallido, con una perdita dal soffitto che continua inesorabilmente a ingrandirsi. Una misteriosa e seducente vicina di casa che improvvisamente si interessa a lui in modo civettuolo, diventando la sua unica amica e dando una svolta alla sua vita. Un miracolo della medicina moderna che gioca con le sue fantasie di reinvenzione di sé, che comporterà però conseguenze impreviste. E l’occasione per Guy, appena nato, di brillare nel ruolo di protagonista della sua vita, un ruolo che crede di essere l’unico al mondo in grado di capire davvero.
Poi arriva il sorprendente terzo personaggio del film, l’uomo che spinge la storia in una dimensione ancora più complessa e stratificata, in un’irresistibile stanza degli specchi dove l’uno si riflette nell’altro: Oswald, un altro attore affetto dalla stessa patologia ma così straordinariamente sicuro di sé, talentuoso e autentico da rubare rapidamente e inequivocabilmente la scena a Edward. Quando Oswald assume il ruolo di Edward, diventando una star amatissima, Guy finisce in una spirale distruttiva che avrà su di lui un effetto devastante.
“In un certo senso, Edward viene privato della sua identità due volte”, spiega Schimberg a proposito del colpo di scena che dà la svolta al film. “E allo stesso tempo, diventa una sorta di impostore che si confronta con qualcosa di vero e autentico. C’è una sorta di passaggio del testimone, dagli attori che recitano fingendo la disabilità ad attori disabili che recitano il ruolo che vogliono recitare”.
Il cinema si è sempre prestato a sondare l’abisso tra l’apparenza e l’identità interiore, tra la finzione e la lacerante verità, e A Different Man appartiene a una piccola ma vitale tradizione di film sulla totale ricostruzione del viso. L’elenco comprende film intramontabili come il classico horror Occhi senza volto di Georges Franju, la parabola sul trapianto di faccia di Hiroshira Teshigahara, lo straziante thriller fantascientifico degli anni ‘60 Operazione diabolica di John Frankenheimer, il thriller d’azione degli anni ‘80 Face/Off – Due facce di un assassino di John Woo e La pelle che abito di Pedro Almodóvar, favola di un chirurgo che fa esperimenti su un prigioniero nel suo scantinato.
Ma per quanto strizzi l’occhio ai suoi predecessori, A Different Man prende una direzione nuova e audace, analizzando le radici del pregiudizio legato all’aspetto del volto a mano a mano che il pubblico segue la storia di Edward.
L’ambizione senza compromessi, la sceneggiatura decisa e i grandi rischi strutturali e tematici del film hanno immediatamente attirato l’attenzione di Christine Vachon della Killer Films, la leggendaria produttrice il cui lavoro pionieristico è cominciato con un primo lungometraggio, Poison di Todd Haynes del 1991, pietra miliare del cinema queer. Quando la Killer Films ha deciso di collaborare con Vanessa McDonnell, produttrice e partner di lunga data di Schimberg, il progetto ha cominciato rapidamente a prendere forma. Ora la questione era trovare tre attori audaci e coraggiosi, uno dei quali difficilmente riconoscibile.

Indossare la maschera: Il casting
Uno dei primi sostenitori della sceneggiatura di Schimberg è stato l’attore Sebastian Stan, noto ai fan dell’Universo Marvel come il Soldato d’Inverno ma straordinariamente avventuroso nella scelta dei ruoli, che lo hanno visto spaziare da Jeff Gillooly, l’ex marito criminale e poco sveglio in Tonya, al batterista dei Mötley Crüe Tommy Lee in Pam & Tommy e al chirurgo cannibale in Fresh. Fin dall’inizio Stan si è tuffato anima e corpo in A Different Man partecipando sia come produttore che come attore nei due ruoli principali del film, strettamente legati ma ognuno con le sue diverse ansie esistenziali. Edward è squisitamente timido ed emotivamente riservato, mentre Guy, bello e di successo, nasconde dietro al fascino apparente una grande insicurezza e diventa sempre più alienato.
Per Stan recitare nei due ruoli ha comportato una serie di difficoltà. Per prima cosa, durante le riprese ha dovuto indossare protesi facciali ingombranti in una torrida estate newyorkese. Inoltre, ha dovuto scavare nella psiche fragile e complessa di un uomo la cui smania di cambiare vita lo porta a scivolare in una spirale inattesa di crisi e autodistruzione. Stan si è buttato a capofitto nel ruolo. “Sebastian ha capito che questo il film era perfetto per lui appena ha letto la sceneggiatura”, racconta Schimberg. “Non ha mai avuto alcun dubbio al riguardo.”
Stan parla della sceneggiatura di A Different Man come di qualcosa di diverso, qualcosa in cui non si era mai imbattuto, e sottolinea quanto sia raro che gli vengano sottoposti progetti di questo tipo. “Nessuno mi manda mai niente del genere”, dice. “Negli ultimi cinque anni o giù di lì, mi sono davvero orientato verso cose che mi sembrano sfidanti, che contengono un elemento di trasformazione. E non parlo solo di trasformazione fisica: a livello emotivo questo film rappresentava un territorio inesplorato per me. Come attore, ovviamente, è sempre preferibile perdersi nello specchio”.
Se si chiede a Schimberg, però, c’è qualcosa di ancora più profondo e psicologicamente affascinante nell’attrazione di Stan per il ruolo di Edward/Guy. “Sentivo che Sebastian avrebbe saputo esprimere una parte tormentata di sé che altri ruoli non gli hanno permesso di mostrare”, dice il regista, che è rimasto molto colpito dal totale coinvolgimento dell’attore. “Sebastian viene giudicato per il suo aspetto. Lo capisci quando cammini per strada con lui. La gente lo vede e proietta su di lui certe cose. E, naturalmente, molte persone ritengono che questa sia una cosa positiva, qualcosa a cui ambire. Ma essere famosi, essere belli in modo classico, può anche essere limitante”.
Con un consiglio insolito ma illuminante, Schimberg ha detto a Stan di considerare la sua fama come una via per esplorare l’oggettificazione sociale che Edward vive sulla sua pelle quotidianamente. Ricorda Stan: “Aaron mi ha detto: ‘Dovresti concentrarti su come ci si sente a essere una celebrità’. Non avrei mai pensato di affrontare la questione da questo punto di vista, ma lui mi ha detto: ‘Tu sai cosa vuol dire sentirsi costantemente sotto gli occhi di tutti’”.
Per comprendere meglio l’esperienza di Edward, Stan si è consultato con uno specialista di neurofibromatosi dell’Università di New York e ha assorbito le testimonianze personali di coloro che convivono con le deformità facciali. Il contributo più prezioso per rappresentare Guy, dice Stan, è arrivato da una conversazione con Elna Baker, la scrittrice e podcaster di This American Life, che pesava 265 chili al college e poi ne ha persi 110 in una clinica. Gestire il lato positivo del suo nuovo aspetto è stato più complicato di quanto avesse immaginato.
“Elna mi ha raccontato in modo molto onesto ciò che le è accaduto quando si è ritrovata a vivere nel mondo con l’aspetto di una persona come le altre”, dice Stan. “La sua identità è andata perduta, anche se all’inizio le sembrava di aver guadagnato qualcosa di enorme, una libertà che forse non era mai esistita. Ma questa situazione si è trasformata rapidamente in qualcosa di monotono. C’è stato un vero e proprio picco emotivo, come sulle montagne russe e come accade a Edward quando diventa Guy, e poi c’è stato un crollo”.
L’unico personaggio di A Different Man che conosce sia Edward che Guy – anche se non ne è consapevole – è Ingrid. La incontriamo per la prima volta come la nuova vicina di casa di Edward, una persona sorprendentemente avvicinabile e allegra che porta nella sua vita una gioia inattesa e quasi fastidiosa quando si confida con lui e condivide le sue speranze di diventare una drammaturga. Anni più tardi, dopo aver scritto un’opera teatrale ispirata al modo in cui vedeva Edward, Ingrid diventa la regista di Guy e si sente attratta dall’attore belloccio che sembra comprendere, in modo misterioso e intuitivo, il dolore di un personaggio basato sul suo amico di un tempo improvvisamente scomparso.
Schimberg e Stan avevano entrambi visto di recente l’interpretazione della norvegese Renate Reinsve in La persona peggiore del mondo e, per pura coincidenza, avevano entrambi pensato di scritturarla. Schimberg si chiedeva se valesse la pena provarci, visto che l’attrice era molto richiesta, ma Sebastian non ha avuto esitazioni: “Vale sempre la pena provarci, se è quello che vuoi”. Così le hanno inviato il copione e, pochi giorni dopo, lei ha detto di sì. “Mi ha talmente colpito la sua interpretazione in quel film”, ricorda Stan. “Ho pensato che avremmo dovuto chiamarla. E lei ha accettato”.
“La sceneggiatura mi è piaciuta da subito”, racconta Reinsve a proposito di quello che sarebbe diventato il suo primo film in inglese. “Non conoscevo affatto Aaron, ma mi piaceva il fatto che attingesse all’umorismo nero in maniera insolitamente tenera. E poi, quando ho visto Chained for Life, ho pensato: questo modo di fare cinema è proprio diverso. Mi piace partecipare a progetti che affrontano questioni interessanti”.
Schimberg ritiene che il ruolo di Ingrid sia quello più difficile del film ed è molto felice di aver trovato un’attrice all’altezza della situazione. “Credo che Renate abbia molto apprezzato il fatto di essere l’unica custode dei segreti di Ingrid”, dice il regista. “Un momento è seducente, poi è sarcastica, poi è sprezzante, poi è insicura. Entra nell’appartamento di lui e finisce per restare molto più del dovuto. La volta successiva, se ne va bruscamente. Come può la stessa persona essere tutte queste cose? Renate è riuscita a trovare la quadra. È anche una grande attrice comica e non ha si tira mai indietro”.
“Vedo Ingrid come una persona che cerca di trovare la sua strada nella vita”, racconta Reinsve, “ma come una vera norvegese, si vergogna e non crede veramente in sé stessa”.
È un tratto tipico dei norvegesi? “Oh, sì”, conferma. “In America ti dicono per tutta la vita che puoi essere quello che vuoi. In Norvegia, invece, ti dicono per tutta la vita che non sei meglio di nessun altro e che sei solo un elemento di un gruppo – il che, per certi versi, è positivo ma è anche limitante. Forse è venuta in America per trovare la fiducia necessaria per fare qualcosa. E poi, quando si trova davanti alla macchina da scrivere, riesce a cogliere un barlume della vita di Edward, che fa suo”.
Reinsve ha colto appieno la vorace smania di legami e la curiosità impulsiva di Ingrid, aspetti di cui ha dato prova in maniera eccellente in La persona peggiore del mondo.
“Ingrid è molto insicura e credo che ritrovi la stessa insicurezza in Edward, con cui si sente al sicuro”, dice Reinsve. “Credo che sia innamorata di Edward, ma non riuscirà mai ad ammetterlo a sé stessa, a causa dell’idea preconcetta della persona di cui pensa che dovrebbe innamorarsi. È questo che alimenta ciò che scrive su Edward. E quando incontra Guy, non capisce perché la sua interpretazione la colpisce così tanto, ma noi, il pubblico, sappiamo benissimo quale è il motivo. Accade tutto in maniera inconscia tra loro”.
La storia d’amore a tratti ironica tra Edward/Guy e Ingrid si trasforma in una sorta di “La bella e la bestia” al rovescio e allo stesso tempo si addentra nella difficile realtà odierna dell’identità performativa e della confusione sessuale. Ma a mettersi di traverso è la creazione più radicale di Schimberg: Oswald, l’attore che assomiglia a Edward ma che ha una tale disinvoltura da rubare la scena a tutti.
Schimberg ha scritto la parte di Oswald pensando alla star di Chained for Life, Adam Pearson. Arguto, di origine britannica e affetto da neurofibromatosi, Pearson si è fatto notare da Schimberg grazie allo straordinario debutto a fianco di Scarlett Johansson nel film fantascientifico Under the Skin di Jonathan Glazer.
“Avevo sentito che le sue scene erano improvvisate, quindi non sapevo che tipo di attore fosse davvero Adam”, ricorda il regista. “Ma quando l’ho incontrato, ho scoperto subito che è molto estroverso. Si trova a suo agio ad essere al centro dell’attenzione, è incredibilmente affascinante, molto acuto, una specie di uomo del Rinascimento. E ho anche scoperto che era in grado di fare cose più complesse rispetto a Chained for Life. Così mi è venuta voglia di scrivere un ruolo che mettesse in evidenza tutto il suo repertorio, una sorta di omaggio al suo talento”.
Pearson, presentatore della BBC e attivista per la disabilità, dice di essere entrato nel mondo della recitazione quasi per scherzo, presentando la sua candidatura per il film di Glazer: “È andata tremendamente bene o tremendamente male, dipende a chi lo chiedi”, dice ridendo.
La collaborazione con Schimberg ha dato vita a un ruolo di cui è particolarmente orgoglioso. “Questo personaggio è il più simile a come sono io lontano dalle luci del bellissimo carrozzone da circo che è l’arte”. Pearson dice di Oswald: “Aaron sa come scrivere per me e sa come sono nella vita reale. È sempre un bene ampliare la propria gamma di personaggi – come attore disabile, si corre il rischio di finire a recitare sempre la stessa parte. È stata una vera gioia partecipare a questo progetto e ritrovare tutta l’allegra brigata”.
L’attore è curioso di vedere quali spunti di conversazione susciterà A Different Man. “L’identità è un argomento così profondo e ricco con cui giocare, dal punto di vista narrativo”, dice. “Chi siamo dal di fuori? E chi siamo invece dentro? E cosa succede quando questi due mondi non procedono di pari passo? Non sono un grande fan del cinema che guida il pubblico per mano. Penso che gli spettatori siano molto più intelligenti di quanto si creda e questa cosa Aaron la sfrutta al meglio”.
Schimberg descrive il suo legame con Pearson in termini particolarmente teneri e lo descrive come una persona che lo ha colpito nel profondo. “Adam ha cambiato il mio modo di vedere il mio volto sfigurato, perché io ho sempre vissuto nel timore del giudizio degli altri”, dice il regista. “Ho sempre provato un senso di vergogna. Adam invece assume il controllo di come vuole essere percepito. E questo mi ha cambiato. Senza di lui letteralmente non esisterebbe A Different Man. Se Adam non avesse voluto farlo con me, non avrei mai neanche provato a realizzarlo”.
Dice Renate Reinsve di Pearson: “Adam è davvero divertente, è molto intelligente e comunica una grande energia. Quando entra in una stanza è lui a calamitare l’attenzione, ma è anche una persona profondamente umile. Ci siamo divertiti tantissimo insieme”.
Il rapporto carico di tensione tra Guy e Oswald, una miscela instabile fatta di vicendevole riconoscimento, di risentimento e di dubbi sulle scelte del passato, ha generato un’atmosfera elettrica sul set ed è stato la chiave di volta per arrivare all’effetto che Schimberg si proponeva di creare.
“Alla fine del film, hai la sensazione che Sebastian Stan sia geloso di Adam Pearson. Lo capisci. Lo senti”, dice Schimberg. “Ed è qualcosa che non credo si sia mai visto prima”.

Solo a New York: Trucco, riprese, musica e una scena di sesso indimenticabile
Teso come una corda, senza un fotogramma fuori posto, A Different Man evoca la sensazione inquietante e vertiginosa di un incubo assurdo che diventa sempre più angosciante. Schimberg ha cercato di creare un’atmosfera senza fronzoli, leggermente straniante ma avvolgente in ogni elemento della produzione, dalla colonna sonora ricca e ossessionante del compositore Umberto Smerilli alla fotografia in Super 16 millimetri del direttore della fotografia Wyatt Garfield. Il film è stato girato in 22 giorni nel luglio del 2022 e le riprese si sono svolte esclusivamente nell’East Village, l’Upper West Side e alcune zone di Brooklyn, riuscendo a tirar fuori la bellezza più ruvida e noir di New York anche grazie alla scenografa Anna Kathleen.
Fin dall’inizio Schimberg sapeva che avrebbe girato su pellicola, come ha fatto nei suoi film precedenti. “Ti costringe a essere pieno di risorse”, dice il regista. “Ci sono registi che usano magnificamente il digitale, ma io passerei al digitale solo se avessi una ragione estetica per farlo. Il mio istinto naturale mi porta sempre a usare la pellicola. Ne capisco la meccanica e so come utilizzarla”.
Un elemento nuovo per Schimberg era l’uso importante, creativo e sfaccettato delle protesi, sia per creare il personaggio di Edward che nell’ambito dell’opera teatrale che Ingrid ha scritto su di lui. Schimberg era determinato a far sì che il trucco di Stan fosse allo stesso tempo ricco di dettagli realistici dando però al pubblico qualche indizio, per quanto sottile. Il volto di Edward doveva non solo essere convincente ma anche rivelare, in un processo lento e terrificante, le fattezze di Guy che erano nascoste sotto la superficie. E poi, quando l’Oswald di Pearson arriva in scena, anche il suo volto doveva essere un richiamo a Edward.
“Edward doveva assomigliare ad Adam in modo tale che quando lui e il pubblico vedono Adam, è chiaro a tutti che è un richiamo a sé stesso”, dice il regista. “Questo aiuta a creare l’idea che Edward sia un impostore. Si sente messo da parte da qualcuno di più reale”.
È stato un azzardo affidare al trucco gran parte dell’energia tematica del film, ma non c’era altra scelta. Ripensando ai rischi che questo poteva comportare, Schimberg ride: “Non ho mai pensato troppo a fondo a come avremmo realizzato il trucco e la produzione del film è andata così in fretta che avrebbe potuto essere un vero disastro, il progetto avrebbe potuto naufragare. Ma a fare la differenza è stato Sebastian che ha pensato di coinvolgere Mike”.
Stan ha fatto subito il nome dell’artista che ha poi realizzato i complessi design delle maschere a tempo di record: Mike Marino, due volte candidato all’Oscar® e responsabile delle magie del trucco in The Batman, Il principe cerca figlio e The Irishman.
Marino è rimasto affascinato dall’audacia del progetto. “Mi è piaciuta molto la sceneggiatura”, afferma, e poi cita The Elephant Man di David Lynch, film famoso per i grandi effetti del trucco, dicendo che è stato il primo film che ha visto. “Avevo tipo quattro anni o giù di lì”, racconta. “Quel film mi ha colpito così tanto da bambino che solo molti anni dopo ho capito che si trattava di trucco basato su una persona reale. Quando sono cresciuto, mi sono reso conto di quanto fosse bella quella persona. L’empatia per il personaggio inizia dal momento in cui lo vedi. E ho provato la stessa cosa per la storia di Sebastian e Aaron”.
Dopo aver parlato con Stan, Marino ha accettato di partecipare al progetto. E spiega: “Per me il punto di partenza doveva essere l’intensità emotiva. Nel momento in cui vedi questa persona, devi essere completamente assorbito dal suo punto di vista. E loro erano molto aperti alle idee che avevo su come avrebbe dovuto e potuto essere”.
“Mike ci ha fatto davvero un favore, lanciandosi in questo progetto”, racconta Stan, “perché in quel periodo stava girando anche La fantastica signora Maisel. C’erano spesso giorni in cui dovevo andare a casa sua alle cinque o alle sei del mattino e lui mi truccava per primo, per poi andare sull’altro set. E poi passavano ancora tre, quattro ore prima di iniziare a girare”.
Per quanto si cercasse di velocizzare, l’applicazione del trucco di Stan richiedeva diverse ore, per cui non era possibile rimuoverlo durante un’intensa giornata di riprese di 16 ore, ognuna delle quali era caratterizzata da molteplici set. Per cercare di rendere ancora più autentica la sua performance, Stan ha iniziato a girare per le strade di New York completamente truccato per sondare le reazioni degli sconosciuti. “È stato molto importante per me vivere l’esperienza di uscire per strada e sentire l’energia che si muoveva intorno a me”, dice Stan. “Mi ha aperto gli occhi in molti modi”.
L’attore è andato alla sua caffetteria abituale, dove non è stato riconosciuto e la maggior parte dei clienti ha evitato il contatto visivo. “L’unica persona che mi si è avvicinata è stata una bambina”, ricorda l’attore. “C’era una bambina che giocava con sua madre e aveva, non so, forse sei anni. Si è avvicinata e mi ha detto: “Ma cosa ti è successo?”. Poi anche la madre è venuta da me e mi ha detto: ‘Mi dispiace tanto’”.
Marino ha capito bene perché Stan voleva uscire dal set ed entrare nel mondo reale, oltre che per testare l’efficacia del make-up e delle protesi: “Gli attori sono così abituati a essere adorati che molti di loro, in base alla mia esperienza, vogliono camuffarsi con il trucco”, dice Marino. “Anche Ryan Gosling ha sempre voluto avere il naso rotto o qualcosa del genere. Mi chiamava e mi diceva: ‘Possiamo fare questo? Proviamo anche quello’. Vogliono alterare il loro aspetto, ma non solo per nascondere la bellezza, penso sia più questione di capire come ci si sente a essere normali, perché essere una star non è la normalità”.
Stan ha fatto tesoro delle diverse emozioni che ha provato andando in giro per New York nei panni di Edward, che si sono riversate in ogni aspetto della sua performance. “Sentivo l’enorme responsabilità di capire il più possibile della sua situazione. Mi creava molta ansia l’idea di fare qualcosa che fosse così distante da me”.
Nonostante ciò, e nonostante il ritmo serrato del film, ad accompagnare la produzione c’era un grande spirito cameratesco. “Eravamo tutti molto in sintonia e ci siamo divertiti molto sul set”, racconta Reinsve.
Questo sentimento di fiducia reciproca portava tutti a dare il meglio di sé. Ciò è particolarmente vero per una delle scene più calde del film, quando Guy e Ingrid fanno sesso ma lui indossa una maschera da Edward, su insistente richiesta di lei. È un momento di grande potenza che è allo stesso tempo intriso di humor nero e carico di tensione, perché la storia si fa sempre più ingarbugliata e scivola verso una spirale di confusione emotiva riguardo all’identità e alla paura.
Di quella scena Reinsve racconta: “Provo una sorta di amore e odio per la frase di Ingrid: ‘Mettiti la maschera. È una mia creazione”. È così…”. L’attrice si interrompe e ride. “Penso che in quel momento lei si trovi esattamente in bilico tra il desiderio di giustificare quello che sta facendo con lo spettacolo teatrale e quello di tornare a qualcosa di reale, di vero. Ma visto come è arrivata a trovarsi in questa situazione, non può essere sincera. Quindi si sente persa”.
Stan ricorda la scena di sesso come psicologicamente impegnativa, anche se ammette che dovrebbe sempre essere così. “Le scene di sesso sono sempre molto difficili perché si vuole arrivare a un’intimità autentica senza esagerare ma senza troppe esitazioni”, spiega. “E questa scena di sesso ha 50.000 strati, capisci? Ti fa uscire di testa se ci pensi: ‘Mi chiedi di indossare una maschera. Ma allora cos’è che vuoi veramente?”. La maschera permette a entrambi di rilassarsi per un momento prima che tutte le altre idiosincrasie si insinuino nelle loro teste”.
Persino l’autore della scena non ha colto appieno l’intensità del momento finché non l’ha visto durante le riprese con Stan e Reinsve. “Durante quella scena il set era chiuso, ma io ero sdraiato sul pavimento sotto il letto e guardavo il monitor. Quando Sebastian è sceso dal letto, mi è passato sopra. Era tutto come nel copione, ma è stato solo mentre ero lì per terra a guardare la scena che ho iniziato a pensare: ‘Certo che questa scena è pazzesca. Che diavolo sta succedendo davvero?”. Schimberg ci ha riflettuto: “Magari Ingrid sta pensando a Oswald, che ha appena visto per la prima volta, o magari sta pensando a Edward, che le manca, o magari sta pensando di fare l’amore con il personaggio della sua commedia, non è affatto chiaro a cosa sta pensando. Neanche io sono riuscito a capirlo”.
Quando gli si chiede di dare una spiegazione, Schimberg rivela l’obiettivo che si cela dietro la regia ipnotica che fa restare vivi i personaggi e le idee di A Different Man ben oltre la fine del film. “Quando si ha a che fare con questo tipo di argomenti, bisogna escogitare la strategia giusta per cogliere il pubblico di sorpresa”, dice. “È così che si sollevano domande e si stimolano conversazioni più profonde su ciò che si è appena vissuto. Ed è quello che mi piace fare con i miei film”.

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L’orto americano di Pupi Avati

L’orto americano di Pupi Avati (Italia, 2024)
Regia: Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati (romanzo L’orto americano, Solferino). Sceneggiatura: Pupi Avati, Tommaso Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Effetti speciali: Sergio Stivaletti. Musiche: Stefano Arnaldi. Scenografia: Biagio Fersini. Regista della Seconda Unità: Mariantonia Avati. Produttori: Antonio Avati, Gianluca Curti, Riccardo Suriano. Case di Produzione: DueA Film, Minerva Pictures, Rai Cinema, Mionistero della Cultura, Emilia Romagna Film Commission. Distribuzione (Italia): 01 Distribution. Interpreti: Filippo Scotti (il giovane scrittore), Rita Tushingham (la madre di Barbara), Robert Madison (maggiore Capland), Patrizio Pelizzi (giudice della Corte d’Assise), Romano Reggiani (il pubblico ministero), Cesare Cremonini (Ugo Oste), Massimo Bonetti (il presidente della Corte d’Assise), Andrea Roncato (maresciallo dei Carabinieri), Alessandra D’Amico (perito psichiatra), Nicola Nocella (paziente psichiatrico), Claudio Botosso (medico legale), Roberto De Francesco (Emilio Zagotto), Armando De Ceccon (Glauco Zagotto), Holly Irgen (giudice popolare), Monia Pandolfi (giudice popolare), Chiara Caselli (Doris), Luca Bagnoli (cancelliere), Morena Gentile (Arianna), Filippo Velardi (Pubblico Ministero), Francesco Colombati (psichiatra).

L’orto americano ci riporta alle atmosfere gotiche de La casa dalle finestre che ridono, girato in uno stupendo bianco e nero (fotografia del grande Cesare Bastelli), montato con la giusta suspense da un regista horror come Ivan Zuccon (107′ necessari) e accompagnato da una suggestiva colonna sonora di Stefano Arnaldi. Un film che mostra ancora una volta il tocco di Avati, tutto il suo stile, tra genere e letteratura, fantastico e minimalismo, suggestioni del passato e inquietante presente. Si parte da Bologna – città del cuore – nel 1945, in un’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo nel negozio di un barbiere vede una giovane ausiliaria statunitense e in un solo istante se ne innamora. Scopriamo che il ragazzo parla con i morti, non ha una psicologia stabile, molti lo ritengono squilibrato e viene internato per un certo periodo in manicomio, ma è anche uno scrittore con il sogno americano e appena possibile (nel 1946) si reca nello Iowa (l’America di Pupi Avati è quella, da sempre) grazie a uno scambio di case. Il caso vuole che la sua vicina sia la madre della giovane ausiliaria che l’aveva fatto innamorare, una ragazza chiamata Barbara scomparsa nel niente, che dall’Italia non ha mai fatto ritorno. L’orto americano è quello della vicina, dove nottetempo il ragazzo si reca per scavare, dopo aver sentito le voci dei morti, e tira fuori un contenitore di vetro con i genitali di una donna e come etichetta una misteriosa iscrizione. Il giovane scrittore torna in Italia, tra Ferrara e Comacchio, per dipanare il mistero di Barbara e ritrovare almeno il corpo della giovane ausiliaria scomparsa. Il mistero ha inizio e si risolve proprio tra le lande sperdute delle Valli di Comacchio, luogo avatiano per eccellenza, dove il ragazzo partecipa come spettatore al processo a carico di un losco individuo che avrebbe trucidato tre donne, forse anche la sua Barbara. Non tutto è come sembra, il resto va apprezzato in sala, perché siamo in presenza di un vero e proprio giallo hitchcockiano ambientato tra Roma, Ferrara, Ravenna, Forlì, senza dimenticare Davenport nello Iowa, altro luogo da sempre caro al regista. L’orto americano non è cinema horror, ma ci sono tutte le suggestioni del cinema di Avati prima maniera, ricreate grazie agli effetti speciali del grande Sergio Stivaletti (le vulve, gli arti amputati, il morto nella bara che si contorce…). Un film definibile come thriller nero, angosciante e macabro, molto gotico, vicino solo al cinema dello stesso Avati, con la sua poetica del puro che possiede poteri soprannaturali incomprensibili per la gente comune. Parlare con i morti, ascoltare le voci dei morti, croce e delizia dell’esistenza del giovane scrittore, condannato a non essere creduto e a essere considerato un folle. Molto bravo Filippo Scotti nei panni del protagonista, intensa Rita Tushinghan come madre di Barbara; troviamo nel cast presenze consuete del cinema di Avati come Massimo Bonetti (il giudice) e Chiara Caselli (Doris, la padrona della pensione ferrarese), ma anche Nicola Nocella che è un paziente del manicomio. Breve cameo per Andrea Roncato come maresciallo dei Carabinieri, incredulo di fronte al racconto del giovane scrittore. Ricordiamo anche Cesare Cremonini in una piccola parte. La sceneggiatura non perde un colpo, tra lo Iowa e Comacchio, con il sottile collante dei reperti anatomici rinvenuti nella boccia di vetro, scritta dal regista e dal fratello Tommaso, partendo dal romanzo omonimo edito da Solferino. Molto azzeccata l’idea di far recitare in inglese la parte americana, sottotitolando i dialoghi, e in italiano la parte ferrarese e bolognese. Scenografie d’epoca perfette, costumi senza la minima sbavatura, le atmosfere del primo dopoguerra sono verosimili e le immagini di repertorio lasciano il posto alla finzione scenica senza soluzione di continuità. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2024 come film di chiusura, rappresenta la summa del cinema nero di Avati, con citazioni al suo passato, da Zeder a Le strelle nel fosso, per finire con La casa dalle finestre che ridono, che viene fuori con prepotenza in certe situazioni angoscianti vissute in solitudine dal giovane scrittore e da un finale che immortala un inquietante scambio di sguardi consapevoli. Un film da vedere al cinema per apprezzarne tutto il fascino.

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La maschera di cera di Jaume Collet-Serra

La maschera di cera (Australia, Usa 2005)
Regia: Jaume Collet-Serra. Soggetto: Charles Belden. Sceneggiatura: Chad e Carey Hayes. Fotografia: Stephen W. Windon. Montaggio: Joel Negron. Musiche: John Ottman. Scenografia: Graham Walker, Brian Edmonds, Beverley Dunn. Costumi: Graham Purcell, Alex Alvarez. Trucco: Rosalina Da Silva, Jason Baird. Produttori: Robert Zemeckis, Joel Silver, Susan Downey. Case di Produzione: Warner Bros Pictures, Dark Castle Entertainment, Village Roadshow Pictures, Image Movers, Silver Pictures. Distribuzione (Italia): Warner Bros. Titolo originale: House of Wax. Paesi di Produzione: Australia, Stati Uniti d’America, 2005. Genere: Horror. Durata: 113’. Interpreti: Elisha Cuthbert (Carly Jones), Chad Michael Murray (Nick Jones), Brian Van Holt (Bo/Vincent Sinclair), Jared Padalecki (Wade Felton), Jon Abrahamsn (Dalton Chapman), Paris Hilton (Paige Edwards), Robert Ri’chard (Blake).

La maschera di cera rappresenta il debutto cinematografico del regista spagnolo (nordamericano per formazione) Jaumet Collet-Serra, che successivamente fonderà una casa di produzione e si farà notare con un film sul mondo del calcio, quindi altri horror e thriller di respiro internazionale, oltre a una pellicola di supereroi (Black Adam) e la serie televisiva The River. Il suo primo film viene addirittura prodotto dalla Warner Bros che investe molto a livello di effetti speciali e per ricostruzione di ambienti. La maschera di cera non ha niente a che vedere con l’opera teatrale classica di Charles Belden (citato nei credits come fonte per il soggetto) né con il romanzo di Gaston Leroux, sceneggiati per il cinema in numerose occasioni, così come niente è simile al film di Sergio Stivaletti del 1997, se non il finale catastrofico, tra le fiamme. In questo film la sola fonte di ispirazione è Horror Puppet (1979) di David Schmoller, lavoro che presenta una trama abbastanza simile. La storia vede protagonisti tre turpi fratelli, generati da una madre abominevole che coltivava il sogno di costruire un mondo popolato da statue di cera. I fratelli, una volta cresciuti, cercano di mettere in atto il diabolico piano in una città sperduta non segnata sulle mappe stradali, che poco a poco trasformano in un ambiente dove ogni persona è ridotta a una statua di cera. Un gruppo di sei ragazzi ne fa le spese, durante un viaggio che li vede accampati in una zona boscosa limitrofa alla città fantasma. Il proseguo della storia è facilmente intuibile, con uno dei fratelli che porta in trappola i malcapitati, gli altri due che cercando di catturarli e di trasformarli in statue di cera. Horror puro, ricco di situazioni macabre e di delitti efferati, per palati forti, con tagli di parti dei corpi umani, scuoiamenti, macabre operazioni a base di cera inserita nei volti. Alcune sequenze ricordano Halloween, soprattutto quando uno dei fratelli uccide con il coltellaccio e si muove a scatti, dimostrando una totale assenza di sentimenti umani. Inutile dire che anche Shining è citato a piene mani, tra porte sfondate – di cera o di legno fa lo stesso – e mannaie che si spingono a colpire la vittima. La maschera di cera non ha avuto un gran successo di pubblico, neppure la critica l’ha mai apprezzato più di tanto, anche se resta un buon prodotto di genere, che disturba al punto giusto e fa trepidare per la sorte dei protagonisti. Il regista dimostra di avere buon intuito per la suspense e – nonostante sia un’opera prima – maneggia a dovere le inquietanti soggettive e muove con perizia una convulsa macchina a mano. Sceneggiatura abbastanza prevedibile, difetto comune per simili soggetti; fotografia cupa per un film dal tono claustrofobico e dalla messa in scena angosciante; montaggio rapido che confeziona 113’ di pura tensione. Riprese in Australia, a Queensland, budget 40 milioni di dollari, incasso 70. Nel cast troviamo la famosa ereditiera Paris Hilton, che non sfigura, nonostante le molte critiche preconcette (Premio Razzie come peggior attrice dell’anno), in definitiva non le viene chiesto di recitare ne Il gattopardo di Visconti ma in un horror commerciale, cosa che riesce a fare in maniera discreta. Un film ad alta tensione che si lascia vedere, diverte e non delude gli appassionati del cinema horror più crudo e viscerale.

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