Il dio serpente di Piero Vivarelli

Il
dio serpente (Italia,
1970)

Regia:
Piero Vivarelli. Soggetto: Piero Vivarelli. Sceneggiatura: Ottavio
Alessi, Piero Vivarelli. Fotografia: Benito Frattari, Francesco
Alessi. Montaggio: Carlo Reali. Musiche: Augusto Martelli.
Scenografia: Giuseppe Aldrovandi. Costumi: Maria Pia Lo Savio.
Trucco: Orietta Melaranci. Produttore: Alfredo Bini. Casa di
Produzione: Finarco. Durata: 94’. Genere: Esotico-erotico.
Interpreti: Nadia Cassini (Paola) – doppiata da Ludovica modugno,
Beryl Cunningham (Stella), Galeazzo Benti (Bernard), Sergio Tramonti
(Tony), Evaristo Marquez (Dio Serpente), Claudio Trionfi, Juana
Sobreda.

Il dio serpente è un film che è rimasto nell’immaginario erotico di molti ragazzi degli anni Settanta. Bene ha fatto nel 2005 la Storm Video a rimetterlo in circolazione nella sua versione integrale. La pellicola è distribuita da Mondo Home Entertainment e contiene pure i trailer delle parti che furono censurate. Il dio serpente è un film scritto e diretto da Piero Vivarelli, che per la sceneggiatura si avvale della preziosa collaborazione di Ottavio Alessi; il montaggio è di Carlo Reali, la stupenda fotografia di Benito Frattari, mentre dirige la produzione Lucio Orlandini per conto di Alfredo Bini. Il film si ricorda anche per l’ottima colonna sonora composta da Augusto Martelli che uscì nel quarantacinque giri Djamballà ed ebbe un clamoroso successo di vendite. Dario Baldan Bembo intraprese un contenzioso legale per i diritti sulla musica, asserendo che si trattava di una sua creazione originale. Protagonista indiscussa del film è una sensuale Nadia Cassini (Paola), che aveva appena debuttato con una piccola parte ne Il divorzio di Romolo Guerrieri (1970), ma che questa volta ottiene il lancio definitivo. Accanto a lei ci sono Beryl Cunningham (Stella), Sergio Tramonti (il fidanzato Tommy) e Galeazzo Bentio (il marito). Ricordiamo Evaristo Marquez nei panni del Dio Serpente quando assume sembianze umane. Il critico Paolo Mereghetti lo definisce un film modesto, un epigono da dimenticare di un genere di film inaugurato nel 1968 da Ugo Liberatore con Bora Bora. Non condivido. Ritengo Il dio serpente un film importate come atmosfera esotico-erotica, un buon lavoro che documenta i riti vudù e i culti sincretici dei popoli caraibici. Il film gode di una stupenda ambientazione esotica a Santo Domingo, comincia con una panoramica aerea della città tra baracche, fiumi, mare, miseria e ricordi di un passato sotto i conquistadores. Un sottofondo di musica cubana, le note di una rumba molto sensuale, accompagnano lo spettatore in un’atmosfera tropicale fotografata con grande bravura. Vediamo spiagge bianchissime e un mare stupendo, atolli corallini, indigeni che corrono e fanno l’amore sulla sabbia, posti di sogno. La trama si racconta in poche righe. Nadia Cassini (Paola) è in vacanza ai Caraibi con il marito Galeazzo Benti, conosce Beryl Cunningham (Stella) che la mette in contatto con il culto del Dio Serpente (Djamballà), ma la donna se ne invaghisce a tal punto che diventa un’ancella consacrata al suo amore.  Beryl Cunningham è perfetta nel ruolo di indigena, soprattutto per i tratti negroidi molto marcati, ma anche Evaristo Marquez è credibile come negro gigantesco che rappresenta la forma umana del dio. La pellicola si inquadra nel genere esotico-erotico, il più tipicamente italiano, legato alla scoperta di lontane culture e conseguenza dei primi viaggi aerei, che portavano a sognare di paradisi tropicali dove regnava una completa libertà sessuale. Sono film che alla base contengono sempre un atteggiamento razzista e paternalista, con il mito del buon selvaggio che vive bene  perché non conosce la civiltà. Il contenuto erotico la fa da padrone e di solito c’è un europeo (maschio o femmina non ha importanza) a caccia di sensazioni nuove, che scopre il vero senso della vita tra le braccia di un’indigena. Il dio serpente contiene in più l’elemento magico e misterioso, che si amalgama bene con le ottime parti erotiche che al tempo scandalizzarono i solerti censori. Il film entra subito nel vivo della sua parte misteriosa quando Paola e Stella diventano amiche e l’europea vuole conoscere la fortezza spagnola, il regno degli zombi, morti che continuano a vivere senz’anima, schiavi del Dio Serpente chiamato Djamballà. Paola vuole scoprire il mistero e si avventura da sola sulla spiaggia della roccia nera dove vede un enorme serpente che si avvicina minaccioso. Non ci sono serpenti a Santo Domingo, ma è Djamballà che si materializza e si avvicina alla ragazza, lui è il dio dell’amore e pretende obbedienza. Vivarelli ci fa entrare nel vivo delle credenze sincretiche quando ci presenta la figura del brujo (stregone), che divina il futuro e confeziona amuleti, disegnando cerchi magici sul terreno. La figura del prete cattolico è ancora più emblematica di come le popolazioni caraibiche vivono il cristianesimo. Il parroco porta la statua di Gesù Bambino nelle case del villaggio perché tutti la possano vedere e poi dice: “Adorano Gesù e fanno i riti magici. Ma sono due cose così diverse?”. In una scena successiva vediamo che durante i festeggiamenti natalizi l’immagine di Gesù Bambino è circondata da simboli vudù. Il prete commenta: “Sono bravi, un po’ rumorosi ma bravi. Dio è con loro, lo amano così. Sono più religiosi di noi perché credono davvero al loro dio. Io devo far dimenticare che dei bianchi li hanno portati qui in catene molti anni fa”. Il regista ci spiega come sono nati i culti sincretici: una fusione di religiosità cattolica importata a forza dagli spagnoli e di culti animasti che venivano dagli schiavi africani. Il film presenta anche interessanti e realistiche cerimonie vudù dove si adora il Dio Serpente tra cerchi di farina bianca, candele votive, canti evocativi, tamburi insistenti e balli sensuali. La fotografia è stupenda, il colore locale è reso molto bene con frequenti immagini di spiagge tropicali e di mercati cittadini, ma anche di ruderi precolombiani e di fortezze spagnole. Il rumore del mare, il vento tra le fronde delle palme, i bambini che gridano, il caldo e la sensualità della gente, sono elementi importanti di una pellicola girata con cura e fotografata con bravura. Piero Vivarelli ci fa conoscere i riti vudù, le possessioni, gli zombi privi di anima, i culti nati dagli schiavi africani a contatto con la repressione dell’Inquisizione spagnola. Un film da riscoprire. Rivisto tagliatissimo su Cielo. Consigliato procurarsi il DVD uncut.

Il dio serpente di Piero Vivarelli

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La decima vittima di Elio Petri

La
decima vittima (1965)
di Elio Petri

Regia:
Elio Petri.
Soggetto:
The Seventh Victim di Robert Scheckley.
Sceneggiatura:
Elio Petri, Tonino Guerra, Ennio Flaiano, Giorgio Salvioni.
Fotografia: Gianni Di Venanzo. Montaggio: Ruggero Mastroianni.
Scenografia. Piero Poletto. Costumi: Giulio Coltellacci. Musiche:
Piero Piccioni. Produttore: Carlo Ponti. Case di Produzione:
Compagnia Cinematografia Champion, Les Films Concordia. Interpreti:
Marcello Mastroianni (Marcello), Ursula Andress (Caroline), Elsa
Martinelli (Olga), Salvo Randone (il professore), Massimo Serato
(l’avvocato), Milo Quesada (Rudi). Luce Bonifassy (Lidia), Jacques
Herlin (gestore Masoch Club), Evi Rigano (una vittima), George Wang
(una cacciatrice). Genere: Fantascienza; Commedia Grottesca. Origine:
Italia/Francia. Distribuzione: Interfilm. Durata: 90’.

Un film di fantascienza dove il fantastico è soltanto un pretesto per parlare di politica, società dei consumi, pubblicità, televisione invasiva e aggressività umana. Elio Petri non è regista di genere, anche quando gira un piccolo horror come Un tranquillo posto di campagna lo fa con la consapevolezza di usare il tema per comunicare idee antisistema con le armi della commedia grottesca. L’ambientazione è incentrata in una Roma del prossimo futuro (anche se le prime sequenze sono girate per le strade di New York), soprattutto Eur e zone marine di Ostia, in una società che ha abolito le guerre, ma che – per sfogare l’aggressività – si è inventata un gioco assurdo e mortale. Il Ministero della Grande Caccia seleziona i partecipanti a una lotta senza esclusione di colpi dove il ruolo di cacciatore si alterna a quello di cacciato e lo scopo è quello di resistere a dieci cacce consecutive, per ottenere onori e ricchezza. Protagonisti una bellissima Ursula Andress (recente bond girl) nei panni della cacciatrice americana Caroline – nata da una fecondazione artificiale e vincitrice di ben nove cacce – e un ossigenato quanto indolente Marcello Mastroianni, che sfoggia anche nella finzione il nome di battesimo. Non solo, viene apostrofato da moglie e amante con lo stesso accento con cui lo chiama Anita Ekberg ne La dolce vita, inoltre è angustiato da problemi economici e sentimentali, sia con la moglie (dalla quale sta divorziando) che con l’amante Elsa Martinelli che vorrebbe sposarlo, oltre a dover nascondere gli anziani genitori improduttivi dalle grinfie governative. Tra gli attori citiamo il grande Salvo Randone in una breve parete da allenatore di cacciatori, in versione quasi cyberpunk. Alcuni temi (la vecchiaia improduttiva) saranno ripresi da Ugo Tognazzi ne I viaggiatori della sera (1979), un fantascientifico tratto da un romanzo di Umberto Simonetta, girato per fare critica sociale oltre che cinema di genere. La decima vittima, invece, deriva dal racconto breve The Sevent Victim di Robert Sheckley, ambientato in una scenografia avveniristica che rimanda alla pop art e alla pittura di De Chirico. Sceneggiatura che funziona scritta niente meno che da Guerra, Flaiano, Salvioni e Petri, rivista da Ernesto Gastaldi (non accreditato), uomo di fiducia di Ponti e grande esperto di fantascienza. Alcuni hanno scritto che la sola cosa datata del film sarebbe la colonna sonora, mi permetto di dissentire perché la musica jazz di Piero Piccioni è molto incisiva, così come è perfetta la canzone di Mina (Spiral Waltz) che scorre sui titoli di coda. Scenografie suggestive curate da Piero Poletto, a base di installazioni viventi, come i due jazzisti che suonano immersi nella bianca luce dell’Eur, quartiere romano in espansione fotografato benissimo da Gianni Di Venanzo. Elio Petri si produce in un alternarsi di primi e primissimi piani dei due protagonisti, con alcuni evocativi (ma non compiaciuti) piani sequenza. Un film distopico – come si usa dire oggi – avanti per i tempi che risulta molto attuale e che non è facile vedere, soprattutto su grande schermo, come è capitato a noi grazie al Cineclub Molino Cult di Grosseto. Ma l’elemento base del film è la commedia grottesca – che in Italia ha avuto continuatori solo con Marco Ferreri e in qualche pellicola di Pupi Avati -, la critica alla società contemporanea, alla pubblicità invasiva, a un mondo alla deriva del consumismo più becero, dove tutto è mercato, persino la religione. Da notare, a tal proposito, la riunione dei tramontisti, convinti da un Marcello (che si finge santone) a piangere di fronte al tramonto sulla spiaggia di Ostia in cambio di denaro. Inoltre il gioco mortale viene ripreso dalle televisioni in diretta mondiale; ogni caccia è buona per pubblicizzare un prodotto, dopo l’uccisione della vittima predestinata. Lieto fine imposto dalla produzione, che Elio Petri non vorrebbe, ma al suo quarto lungometraggio non riesce a opporsi, quindi accetta quella che lui stesso definisce una pagliacciata finale. La decima vittima resta una vibrante satira del capitalismo dilagante e della società contemporanea, un film caratterizzato da un tono scanzonato, sempre in bilico tra thriller e dramma, anche se la commedia umana conserva un posto in primo piano. Moderno come pochi, invecchiato benissimo, resiste senza problemi al passare del tempo. Da rivedere senza pregiudizi.

La decima vittima di Elio Petri locandina

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