La neve copre tutto

Per coloro che hanno il senso della poesia la neve può significare purezza, candore, pace, malinconia. Per i cultori dello sport la neve è una eccellente scusa per lasciare la città e andare a sedersi davanti a un caminetto insieme con altri sciatori. Ad uno cresciuto in campagna come Harold Olide la neve ricordava un fantastico e delizioso mondo di sogni. Perché quando era bambino una nevicata significava che poteva stare in casa nella calda e accogliente fattoria, a leggere, a giocare, a sognare.
Quella sensazione persisteva in lui sebbene ormai da 25 anni non avesse più messo piede in una fattoria, occupato com’era ad arrampicarsi su, sempre più su, verso le cime direzionali della Compagnia Peyton, metalli all’ingrosso.
I giornali avevano previsto da cinque a otto centimetri di neve e quando Harold era salito sul treno che dalla periferia lo portava a New York, la neve cominciava già a cadere. A mezzogiorno quando usci dall’ufficio per far colazione con un cliente, si capiva che una grossa nevicata era in corso, una vera e propria bufera di neve. Ne erano già caduti dieci centimetri e diventava sempre più fitta. A metà del pomeriggio la segretaria annunciò ad Harold, che la città cominciava ad essere paralizzata; i treni erano zeppi di gente che tentava di partire prima dell’ora di punta creando cosi un’ora di punta anticipata e intralciando ancor più il servizio.
Quando telefonò a sua moglie verso le quattro del pomeriggio, Harold Cilde sentì che le strade erano bloccate e che ella non avrebbe potuto aspettarlo alla stazione con la macchina. E poiché Harold doveva già far tardi per una riunione, decise che avrebbe trovato alloggio in un albergo e passato la notte in città. Disse alla segretaria di fissargli una camera e andò al convegno.
 
Sulla lista nera
Era una importante riunione dei dirigenti della Compagnia. Harold aveva con sé tre grosse pratiche. Una riguardava l’indagine fatta per scoprire uno sconosciuto dipendente che da tempo e sistematicamente sottraeva denaro alla Compagnia. La seconda pratica riguardava la vendita di materiali a una dittatore sud-americano, vendita alla quale egli si era opposto ma senza riuscire a far valere la propria opinione di fronte all’amministratore. La terza pratica conteneva proposte di licenziamento di otto persone, due delle quali avrebbero partecipato alla riunione, già sapendo di essere sulla lista nera.
Nella Compagnia, il signor Harold Clide aveva fama di accanito lavoratore. Non era un sentimentale e si era fatto molti nemici. Ma non se ne curava troppo perché aveva poca stima dei suoi simili. Questo suo atteggiamento gli aveva già procurato alcuni fastidi.
A quarantacinque anni Harold Clide aveva fatto molta strada. Era entrato nella Compagnia come autista, era poi passato all’ufficio vendite e come venditore aveva trionfato. Con tutta evidenza era sulla buona strada per occupare posti molto alti, forse il più alto nella ditta, perché continuava a salire di gradino in gradino: dalle vendite alla produzione, alla ricerca, all’ispettorato generale, su su, sempre più su. Era intelligente, leale, onesto e lavoratore accanito.
La grande nevicata ritardò l’arrivo del presidente e gli altri rimasero seduti al tavolo della conferenza chiacchierando di cose minori. Tutti salvo Harold che approfittò dell’attesa per telefonare a una succursale e sistemare alcune faccende.
Alle cinque del pomeriggio l’autista del presidente telefonò per dire che la macchina aveva avuto un incidente e la riunione fu rimandata. Harold tornò al telefono e parlò con Washington per sentire che piega prendeva la vendita della merce al dittatore. La cosa minacciava di provocare un incidente internazionale.
Mentre egli telefonava gli altri se ne andarono e quando tornò in ufficio non c’era più nessuno, salvo la sua segretaria.
– Non riesco a trovarle una camera, signor Clide – disse miss Bardley; – gli aeroplani non possono decollare, i treni sono zeppi e molta gente pernotta in città. Ho tentato per più di un’ora e mezzo.
– Va bene – disse Harold, – troverò un rimedio. Vada pure a casa, signorina, altrimenti rimane bloccata anche lei.
– Non ho premura – disse miss Bardley, – continuerò a cercare.
 
Troppo lusso
La signorina Bardley non era una bellezza, però non era nemmeno orribile. Aveva una certa tendenza a superare il peso medio, si pettinava con un paio d’anni di ritardo sulla moda, ma possedeva qualità che la rendevano preziosa per Harold. Era, come lui, onesta, intelligente e instancabile.
Alle sette di sera fu evidente che non si trovava alloggio. Miss Bardley aveva telefonato perfino alle tane di pulci dei bassifondi di New York. Disse a Harold che non c’era niente da fare.
– Ho tentato tutto, signor Clide. La città è colma. Adesso rinuncio e vado a mangiare se lei permette.
Harold pensò che tanta lealtà meritava un premio. Le offrì di cenare con lui. Miss Bardley accettò, dopo averci pensato un momento. Harold telefonò a sua moglie, le comunicò la situazione e la informò che se proprio non trovava alloggio avrebbe preso il treno delle 11 di sera. Sua moglie gli consigliò di telefonare ai Warner, loro amici, e chiedere ospitalità. Egli tentò ma in casa Warner nessuno rispose.
Harold e la signorina Bardley cenarono in un ristorante italiano, tranquillo e appartato. Ne aveva scelto apposta uno fuori mano per evitare di essere visto con la segretaria. Non che ci fosse qualcosa di male, ma la gente ha sempre la tendenza a pensare al peggio.
Harold bevette i suoi soliti due bicchieri. Miss Bardley fece altrettanto. Poi si concessero una bottiglia di vino. E quando uscirono dal ristorante si sentivano entrambi piacevolmente allegri.
Fuori c’erano più di trenta centimetri di neve. La città era stranamente silenziosa. Poche automobili tentavano di sfidare la bufera e quelle che ci riuscivano passavano silenziose sulla neve.
– Oh Dio! – esclamò Harold. – Mi pare di essere ai bei tempi, nella mia vecchia campagna.
Guardò le scarpe di miss Bardley.
– Ma lei si prenderà una polmonite con quelle scarpine – disse. – Dove abita?
– Nella Cinquantaseiesima Strada Est – rispose la segretaria.
– Ecco un tassi! – esclamò Harold e si tuffò nella neve per tentare di fermare la vettura. Ci riuscì e per quasi tutta la strada dovettero ascoltare le lagne dell’autista che descriveva le sue difficoltà a guidare con quelle strade. Harold commentò che aveva visto affari da centomila dollari conclusi con meno chiacchiere di quante non ne facesse lui, l’autista, per guadagnarsi la mancia. Allora il tassista, offeso, si chiuse in un dignitoso silenzio.
– E adesso dovrò andare a cercare un alloggio – disse Harold quando stavano per arrivare da miss Bardley. – Forse a quest’ora i miei amici Warner saranno rientrati.
– Può telefonare da casa mia – propose la segretaria. – Non vorrei che fosse costretto a girare a vuoto, e magari a rimanere senza riparo.
– Sì, buona idea, verrò a telefonare – disse Harold, – i miei amici non abitano lontano da qui. E se sono in casa posso andarci a piedi.
Diede una generosa mancia all’autista e salì con la signorina Bardley.
Era una casa nuova e moderna. L’appartamento di miss Bardley, sebbene piccolo, era ammobiliato con lusso. Harold notò vagamente che era più di quanto una segretaria potesse permettersi.
– E’ bello qui – disse guardando in giro.
– Grazie rispose miss Bardley. – E’ una casa in condominio, Mio padre mi ha lasciato un po’ di denaro; altrimenti non avrei potuto permettermelo.
 
Un uomo da pescare
Harold telefonò ai suoi amici, ma non c’erano. Miss Bardley preparò un paio di bibite al rum ed entrambi sedettero bevendo e discorrendo di cose banali finché arrivarono a parlare di ciò che avevano in comune, cioè del lavoro alla Compagnia.
– Scommetto che non è riuscito a combinare niente oggi alla riunione – disse la segretaria.
– Proprio niente – confermò Harold e, un po’ per il vino e per il rum, un po’ perché la casa era accogliente e miss Bardley simpatica, si sentì in vena di confidenze: – Eppure avrebbe potuto essere una riunione molto interessante – aggiunse.
– Se non sbaglio lei era in vena di dar battaglia – disse la donna.
– Eh, ci sono tanti bubboni che stanno per scoppiare.
– Davvero?
– Lo sa? – disse Harold abbassando la voce come per fare una confidenza. Sono sicuro che nella Compagnia c’è un falsario. C’è uno che sta truffando e intascando denaro. Ci sono ammanchi. Forse sono fatture falsificate o cose del genere.
– Ma davvero?! – esclamò miss Bardley curvandosi in avanti per ascoltare. – Ma sa chi è? – Le sue dita che reggevano una sigaretta, ebbero un leggero tremito.
– Può essere una sola persona – disse Harold. – Certo non avrei fatto nomi oggi. Ma volevo chiedere l’autorizzazione a far venire controllori dall’esterno.
– Ne ha già parlato a qualcuno?
– No – disse Harold.- Nessuno sa niente finora. Ho preferito tenere la cosa per me finché non riuscivo a pescare l’individuo. Forse non avrei detto niente neppure a lei se non fossi venuto qui. E’ per principio, lei mi capisce.
– Oh, lo sa che io non parlo, signor Clide – disse la segretaria. Si alzò d’improvviso e andò alla finestra. – Nevica ancora – osservò.
– Proverò di nuovo a chiamare i Warner – disse Harold.
 
Allarme
Questa volta i suoi amici erano in casa e gli offrirono una camera.
– Il problema è risolto – disse Harold tornando dalla segretaria. – Non mi resta che ringraziarla, signorina.
– Era il meno che potessi fare – ella disse. Fece pausa, poi aggiunse: – Signor Clide, vorrei chiederle un grosso favore: potrebbe andare in negozio per me? Avrei bisogno di un po’ di biscotti e del latte per la colazione.
– Ma certo – disse Harold, mi faccia una nota di quello che le occorre.
Miss Bardley scrisse una lista.
– Mi farebbe comodo anche un po’ di rum – disse. Ho consumato per le nostre bibite tutto quello che avevo in casa. – Prese la borsa per cercarvi denaro, ma Harold non lo accettò.
Non appena Harold fu uscito, miss Bardley corse al telefono e formò un numero.
– Jim – disse. – Non ho potuto chiamarti perché il signor Clide è venuto da me dopo che abbiamo cenato insieme.
– Oh, ma bene! Spero che vi sarete divertiti.
– Jim, ascolta; non ti ho mai chiesto dove prendi tutto il denaro che hai, ma stasera il signor Clide ha detto che chiameranno un controllore dei conti dall’esterno.
Dall’altra parte del filo Jim non parlò.
Con voce drammatica la segretaria aggiunse: – Jim, sei tu quella persona?
– Dov’è Clide adesso? – chiese Jim.
Ella gli raccontò delle compere, e che poi Clide sarebbe andato a dormire dagli amici.
– Cerca di trattenerlo quando ritorna – disse Jim, – dammi il tempo di arrivare lì. Quando sarò di sotto ti telefonerò.
– Che cosa vuoi fare, Jim?
– Non so. Forse gli parlerò.
– No – disse miss Bardley, – lo sai com’è, lo conosci.
– Troverò un rimedio – ribatté Jim. – Quando telefonerò ti dirò che cosa fare. Ma cerca di trattenerlo finché arrivo.
Quando Harold ritornò coi viveri e il rum, la signorina Bardley insisté perché bevesse un punch per riscaldarsi, prima di tornare sulla neve.
Parve ad Harold di notare che nel frattempo in parte le lampade del salotto erano state spente e che nella casa c’era una romantica penombra, ma non disse niente. Quando sedette sul divano miss Bardley gli si mise accanto. Quando si accese una sigaretta, il ginocchio di miss Bardley sfiorò il suo. Quando accese una sigaretta anche lei, le loro mani si toccarono.
L’eventualità di una simile scenetta era passata per la mente a Harold già quando erano scesi insieme dal tassì, ma egli l’aveva subito respinta. Adesso ci ripensava. Questa ragazza non era una vamp, ma possedeva una certa forza di seduzione, naturale e, un po’ primitiva. A lui, ragazzo di campagna, questo particolare non sfuggiva. Se ne era già accorto quando la aveva assunta:
– A che cosa pensa? – chiese d’un tratto miss Bardley.
– Penso che sto diventando vecchio – disse Harold – perché dopo venticinque anni di assenza dalla fattoria mi ritrovo a giudicare le cose col metro campagnolo.
– Che cosa vuol dire?
– Vuol dire che non debbo lasciarmi trasportare dalle nostalgie; che questi sono altri tempi e altri luoghi.
La guardò negli occhi. Era quasi bella. Un po’ triste, ma quasi bella. Avvicinò il volto al suo.
– Bisogna che vada – disse, – i Warner mi aspettano.
Si alzò e andò alla finestra. Pensò che doveva anche telefonare a sua moglie.
– Non può… non può restare… ancora un pochino?
Anche miss Bardley si era avvicinata alla finestra. Giù nella strada ella vide una macchina nera che conosceva bene. L’automobile si fermò sul lato opposto. Un uomo ne scese e scivolando e incespicando nella neve si avviò in fretta verso l’angolo dove c’era una cabina telefonica. Anche a quella distanza ella riconobbe Jim.
 
« Ci penserò io »
Dopo un momento Harold si avvicinò a lei e le mise una mano sulla spalla.
– Vorrei restare… davvero… ma…
Il telefono trillò e la donna andò a rispondere.
– E’ ancora lì?
– Sì.
– Sono giù nella cabina. Puoi lasciarlo andare adesso.
– E poi?
– Ci penserò io.
– Che cosa intendi?
– Ascolta – disse Jim a bassa voce – tutti quegli assegni che io ho preparato, lui li ha firmati. Se lui non c’è risulterà che è stato lui. Capisci?
Miss Bardley, non rispose. La sua mente rifiutava di pensare con chiarezza a ciò che stava per accadere.
– E’ ubriaco? – domandò Jim.
– Non proprio.
– Cerca di farlo bere ancora un po’. Sarà più facile.
– Va bene.
Miss Bardley riappese e tornò alla finestra dove Harold guardava i fiocchi che continuavano a cadere.
– Una bufera di neve mi dà un senso di irreale, di fantastico. Tutto sembra diverso.
– Eppure sotto la neve ogni cosa rimane come prima – disse la donna.
– Certo, ma diventa difficile separare l’apparenza dalla realtà. E poi, in fondo, che cos’è la realtà? – aggiunse Harold, reso filosofo dal vino e dal rum.
– Preparo un altro punch – propose miss Bardley, e Harold non rifiutò. Approfitto della pausa per telefonare a sua moglie. Le disse che aveva trovato alloggio dai Warner.
– Dove sei adesso?
– In un bar – disse Harold.
Anche in campagna continuava a nevicare. I bambini erano a letto. Tutto era in ordine.
Era tornato accanto alla finestra quando miss Bardley portò i bicchieri. Stettero lì in silenzio a guardare la neve, ognuno assorto nei suoi pensieri. Harold guardò la segretaria e nella tenue luce vide che alcune lacrime le scendevano sulle guance.
 
Tragica passeggiata
Non poté resistere a quelle lacrime. Depose il bicchiere e la prese fra le braccia. Era soffice, calda e ubriaca. La sua casa, i Warner, la Compagnia… tutto sembrava lontano e dimenticato. Ma la signorina Bardley non portava bene i liquori. Si addormento fra le sue braccia, in piedi, vicino alla finestra. Harold la depose delicatamente sul divano, trovò una coperta e gliela stese sul corpo. Poi in punta di piedi uscì dall’appartamento.
Giù nella strada erano passati i carri spazzaneve e avevano accumulato montagne di neve verso i marciapiedi. Dall’altra parte della strada egli vide una macchina nera che era rimasta bloccata dalla neve accumulata sul lati della via. L’automobilista a bordo era in difficoltà. Non riusciva a metterla in movimento: le ruote giravano a vuoto nonostante gli sforzi del guidatore.
Il primo impulso di Harold fu quello di accorrere in aiuto. Ma poi ci ripenso: era già tardi e l’impresa era difficile. Si avviò in fretta verso la casa dei Warner senza accorgersi che l’automobilista bloccato lanciava su di lui furibonde occhiate e manovrava disperatamente i congegni della macchina recalcitrante.
Harold era ormai a metà strada, tra poco avrebbe raggiunto il caldo appartamento dei suoi amici. Camminando si inebriava dell’aria pura, dei candidi fiocchi che gli accarezzavano la faccia.
Ma cominciava ad avere i piedi umidi. Portava scarpe basse e la neve gli entrava nelle caviglie. Giunto a una curva, nello scendere dal marciapiedi fece un salto per superare la barriera di neve. Ma scivolò. Cadde all’indietro e batté con la testa contro la colonnina di ferro di una pompa antincendio. Il colpo gli fece perdere i sensi, scivolò giù dal marciapiedi e il suo corpo rimase quasi sepolto sotto la massa di neve. Pochi minuti dopo tornò a passare la macchina spazzaneve e sospinse verso il marciapiedi una nuova massa di neve che seppellì del tutto il povero Harold.
 
« Tutta colpa sua »
Harold Clide giaceva incosciente sotto una pesante coltre bianca alta più di un metro. Verso le sei del mattino il portinaio della casa di fronte uscì con una pala e ripulì alla meglio il marciapiedi e, senza saperlo, gettò altra neve sul corpo di Harold.
 
Nel breve istante in cui riprese i sensi Harold sentì soltanto una specie di sonnolenza è un vago benessere. Sì, la neve portava veramente un senso di pace.
Gli uffici della Compagnia Peyton si aprirono come al solito il giorno dopo, sebbene alcuni impiegati non si presentassero. Miss Bardley comunicò di essere indisposta. Fu soltanto verso mezzogiorno che la signora Clide chiese di Harold e diede l’allarme. Verso le cinque del pomeriggio fu chiamata la polizia.
Due giorni dopo una squadra di manovali incaricati dello sgombero della neve, scoprì il corpo di Harold Clide. Era venerdì. La settimana successiva i giornali ebbero molto da dire sul conto della Compagnia Peyton. Il defunto Harold Clide, dicevano le notizie, era stato un falsario. Grossi ammanchi erano stati scoperti, ottenuti con documenti falsificati che portavano la sua firma. Pochi giorni dopo scoppiò l’incidente della vendita di metalli proibiti al dittatore sud-americano. I dirigenti della Compagnia affermarono che la colpa era di Harold Clide, morto di recente.
Alla successiva riunione dei dirigenti, alcuni delegati dichiararono che la diminuzione delle vendite era dovuta alle continue interferenze di Harold Clide. L’acquisto di una fabbrica poco redditizia fu attribuito a Harold Clide. I tappeti degli uffici della direzione, che erano costati cari e non avevano dato buon esito, erano stati approvati verbalmente a quanto si disse dal defunto Harold Clide.
E così Harold Clide si portò via la colpa di molte cose storte, perfino delle mollette di metallo che non tenevano bene e delle quali erano stati acquistati centomila pezzi.
 
Da quella finestra…
La signora Clide vendette la casa, incassò l’assicurazione e si trasferì in California. La Compagnia Peyton, in un impulso di giusto sdegno, tentò di bloccare il pagamento della liquidazione di Harold, ma Jim Powel, il contabile, riuscì a far prevalere la sua opinione e la vedova ricevette il denaro.
Miss Bardley non tornò più in ufficio; diede le dimissioni per motivi di salute. Dopo qualche mese anche Jim lasciò la Compagnia e iniziò un lavoro in proprio, ed ebbe fortuna. Otto mesi più tardi la signorina Bardley lo incontrò per la via. Si guardarono ma nessuno dei due si fermò e non si salutarono.
Lontano, nella fattoria dove Harold era cresciuto, i suoi ex-amici che non si erano mai mossi dalla campagna si raccontarono storie raccapriccianti sul conto di coloro, che lasciano la dolce vita della campagna per avventurarsi nella giungla della città.
Quasi esattamente un anno più tardi ci fu un’altra bufera di neve, a New-York. Durante la notte miss Bardley si avvicinò alla finestra e guardò lo spettacolo. Non si sa che cosa significasse per lei la neve. Forse anche per lei significava pace, perché a un certo momento aprì la finestra e si gettò di sotto. La trovarono il giorno dopo, morta, con un sorriso sulle labbra.
 

NOTE
Racconti rari riscoperti da Sergio Bissoli. Il 18 dicembre del 1960 La Domenica del Corriere aggiunge una novità: un racconto presentato da Alfred Hitchcock.
Questi racconti proseguiranno quasi ininterrottamente per tutto il 1961 e 1962. C’era sempre la foto di Hitchcock (come nell’immagine qui sotto), spesso diversa, con la scritta: “Hitchcock presenta”, titolo del racconto e nome dell’autore.
Alcuni di questi racconti sono strani, originali e meritano di essere ripubblicati. Ne abbiamo scelti 5 o 6.
Il 29 gennaio del 1961 appare questo La neve copre tutto di Earl Faltz. Pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

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Gioco infinito

Una notte di agosto mi trovo di passaggio in un paese di campagna.

Nella via principale stanno alcune persone sedute davanti alle vecchie case. La notte è umida e fosca.

Raggiungo a piedi la mole nera e mastodontica della chiesa in periferia e sto per tornare quando odo le note dolci di un organetto. Proseguo fino alle chiuse di un fiume e intravedo
in mezzo a un campo una giostra luccicante che gira, con della gente intorno.

Attraverso una piazzetta circolare immersa nell’ombra della chiesa. Nel cielo le costellazioni dell’estate si sono spostate più a ovest.

Da sotto un arco si passa in un lungo androne che sbocca vicino al campanile. A sinistra si stende il cimitero con grosse lapidi fuori uso appoggiate lungo il muro in attesa di essere
rimosse. In mezzo a un grande spiazzo la giostra piena di lustrini gira al suono di una musica un po’ triste.

Sull’erba sotto le lampadine colorate si scatena a ballare una biondina. Ha il vestito rosso e corto e lo sguardo acceso. Ogni tanto invita i presenti ad avvicinarsi per fare
uno strano gioco. Fuori dall’alone di luce della giostra la notte è scura come un forno.

Un ragazzo del gruppo si avvicina emozionato mentre lei ride bella e provocante.

Il gioco è questo: il ragazzo deve ripetere i gesti che lei compie per prima.

Si mettono l’uno di fronte all’altra.

La ragazza alza lentamente il braccio e il suo bel volto assume un’espressione seria e concentrata. Gli posa una mano sopra la testa e anche il ragazzo mette la sua mano sulla
testa di lei.

Adesso la ragazza abbandona lentamente la mano fino a posargliela sulla spalla.

Il ragazzo a questo punto ha uno scatto nervoso e si tira indietro. Il campanile alle nostre spalle batte undici sonori rintocchi.

La giostra gira, gira, semivuota e la musica si perde nella notte.

La ragazza chiama un altro. Questo dapprima indeciso finalmente acconsente.

I gesti si ripetono ma con più tensione e senso si attesa nelle facce dei presenti. Tutti seguono in silenzio il gioco. É come se dovesse accadere un prodigio da un momento
all’altro.

La mano sulla testa. Poi sulla spalla destra… Sulla sinistra…

Ma anche costui a questo punto si ritrae prima che il gioco sia finito.

“Chi viene, chi viene al suo posto?” grida la ragazza. Si muove tutta ed è nuda sotto il vestito rosso stretto attorno al suo corpo. É eccitante e pericolosa.

Un nuovo giocatore spinto dagli amici si avvicina. Si dimostra guardingo anche se non riesce a trattenere la sua curiosità.

Lei, come prima ha smesso di ridere e messasi di fronte a lui lo guarda negli occhi. Si scioglie in un movimento lento fino a posargli la mano sul capo, ed è come se compisse
un rito…

Il ragazzo ripete il gesto. Ora si sposta sulla spalla destra… L’espressione di lei è di furberia e lascivia. Piano sulla spalla sinistra… Sul fianco…

Un urlo di terrore esplode fra di noi. La musica muore con una nota sfiatata… Le luci ondeggiano.

Nuove grida e rumori di passi che si allontanano di corsa. Sono scaraventato a terra e rimango nell’oscurità per non so quanto tempo.

Quando mi rimetto in piedi cammino alla cieca perché il buio è assoluto intorno a me. Ora c’è un grande silenzio e si ode solo il coro lontano dei grilli.
Provo a spostarmi in tante direzioni ma non riesco a raggiungere il muro ed è impossibile uscire.

Nei fumi dell’alba la campagna si stende irreale davanti a me. Il terreno è fradicio di umidità e i miei vestiti sono tutti infangati.

Non c’è più nessuno, nemmeno la giostra. Sull’erba calpestata ci sono solo alcune tracce nere di bruciato.

NOTE DELL’AUTORE
Scritto nel 1983, ispirato a un evento autentico, in una notte di Agosto, nel piccolo paese di Monavicina.
Questo racconto è presente nella raccolta: Racconti Mistety, Editore Lulu.com

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Poker in quattro

Ci trovavamo tutte le sere intorno al tavolo illuminato, al centro, dalla luce lattea della lampada. Essi entravano quasi senza né salutarmi, né rivolgermi frasi cortesi.
Effettivamente non ce ne era bisogno.

Noi ci vedevamo soltanto per giocare a poker e ciò durava sino al mattino all’alba, ogni notte.

Non ho mai saputo i nomi dei miei compagni tranne i piccoli nomignoli che nascono intorno ai tavoli da gioco: Mano d’oro, Cip, Piatto Doppio.

Se debbo dire il vero non conoscevo nemmeno bene le loro fisionomie perché, quando entravano, la stanza era già nella penombra con l’unica macchia abbacinante al centro,
diretta sul tavolo verde, e quando sedevano la banda d’ombra del paralume nascondeva i loro volti sino al mento.

Era consuetudine di mesi, ormai.

Essi giungevano, picchiavano con moderazione alla porta ed entravano in silenzio in fila indiana: prima Piatto Doppio, grosso e tarchiato, poi lo scheletrico Cip e quindi il gobbetto
Mano d’Oro.

L’unico a dire qualcosa, e ciò non accadeva mai tanto spesso, era Piatto Doppio che brontolava: SERA, e si metteva a sedere al suo solito posto. Gli altri lo imitavano e
solo una volta Cip disse:

– Giochiamo anche la notte di Natale, bella roba.

Mano d’Oro sogghignò.

Poi cominciavamo a distribuire le carte e il gioco prendeva man mano il suo ritmo e la sua tensione.

Era ormai tanto tempo che giocavamo insieme che si può dire nessuno vincesse né perdesse. Le forze erano equilibrate; ognuno sfoggiava il suo carattere di giuoco.

Il fumo delle sigarette, perché tutti fumavamo in gran copia, si addensava sotto il paralume e, dopo pochi minuti, ci vedevamo attraverso una nebbia azzurrina come se fossimo
immersi in un acquario.

Poi all’alba Mano D’Oro diceva: giro fisso.

Facevamo le ultime puntate rischiose, quindi i conti; ognuno pagava e i tre, in fila indiana, così come erano entrati, se ne andavano.

Piatto Doppio, dalla soglia, brontolava, senza voltarsi: GIORNO.

La porta si chiudeva con garbo alle loro spalle.

Ma una sera non vennero. Il fatto che ciò fosse accaduto dopo tanto tempo, mi mise in subbuglio. Sapevo che erano di una puntualità cronometrica e già un ritardo
di dieci minuti mi doveva convincere che non sarebbero più venuti. Invece attesi tutta la notte.

Prima camminai avanti e indietro nervosamente. Poi sedetti al tavolo iniziando un interminabile solitario.

Ogni tanto tendevo l’orecchio a spiare i rumori per le scale. Il fruscio di un gatto o il picchiare lieve del vento contro le imposte mi faceva sobbalzare e spingere, ancora con
maggiore tensione, i miei nervi fuori della stanza.

Il vento fresco dell’alba, che agitava le tende della finestra, mi spinse verso la camera da letto. Mi gettai così vestito, abbattuto da un’amarezza senza confini, sul
materasso e dormii.

Solo più tardi compresi perché essi non erano venuti.

Il giorno prima un Pastore Battista aveva preso in affitto l’appartamento sotto al mio e, prima di entrare in casa, aveva asperso davanti al portoncino, con una breve preghiera,
dell’acqua benedetta.

Essi non sarebbero più venuti.

I loro spiriti maledetti avrebbero vagato in altri luoghi, meno santi, alla ricerca di un tavolo di poker dove ci fosse solamente il quarto.

NOTE
Racconti rari riscoperti da Sergio Bissoli. Poker in quattro è il secondo e ultimo racconto giovanile di Pino Belli. Dopo non ne possediamo altri. Apparso sul numero 1 de I racconti di Dracula prima serie nel dicembre 1959. Questo racconto era in fondo, per riempire le ultime pagine, altrimenti bianche. Breve ma suggestivo e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

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Troppe corna in questo affare

Terenzio era spagnolo, almeno così diceva, ed ogni qual volta mi fermava, sbarrandomi la strada all’angolo del Palazzo della Prefettura, si sbracciava ed agitava, testa,
mani e corpo, per avvalorare le sue dichiarazioni di nazionalità. Sul principio, per quanto costui intercalasse varie parole di castigliano di cui conoscevo il senso, ero convinto fosse Italiano e Abruzzese per giunta.

Cosa facesse, di preciso non lo sapevo.

Mi era comparso una sera, all’improvviso, davanti, mentre me ne tornavo a casa dopo aver lasciato l’Ufficio.

– Signore gradisce un corno della fortuna?

Ero sopra pensiero e mi fermai non a guardare i corni, perché questi oggetti non mi interessavano, ma con l’occhio vuoto attratto dal colore rosso. Poi mi ero riscosso ed
avevo detto:

– Lasciatemi in pace buon uomo – o qualcosa del genere o, forse di più brusco e stizzito.

Terenzio parve colpito dal mio modo di fare e scappò via giù per il vicolo, con tale furia che mi voltai incuriosito.

Così, la sera seguente, quando me lo vidi nuovamente di fronte all’angolo del tetro palazzo, mi fermai. In un certo senso ero dispiaciuto di averlo spaventato a quel modo.
Ma Terenzio, non sembrava portarmi alcun rancore, anzi, man mano la mia benevolenza aumentava, nel vedermelo ogni sera davanti, piovesse o nevicasse o tirasse una fredda aria da tagliar la pelle, egli diventava sempre più
insistente e petulante.

Non so quanti corni di varie dimensioni, persino dorati, comprai da lui.

Ed ogni volta che uscivo dal mio ufficio, perché spesso facevo tardi la sera, me lo ritrovavo di fronte sempre più intraprendente ed audace. Una sera non potei fare a
meno di dirgli:

– Terenzio stai esagerando; non devi abusare della mia pazienza.

– E’ quello che desidero signore.

– Come sarebbe a dire, Terenzio?

– Desidero che voi perdiate la pazienza.

Lo guardai e lui, con un grande sorriso, che gli allargava la faccia olivastra, mi faceva ciondolare davanti agli occhi il mazzo pendulo, il grappolo, dei corni rossi.

Alzai le spalle. Me ne andai con un senso di rancore.

Poi tutto accadde qualche giorno dopo la notte della vigilia di Natale.

Ero fuori di me perché il mio direttore generale, per un banale incidente di archivio, mi aveva trattenuto fino a tardi ed a casa mi attendevano i miei per la cena.

Terenzio era fuori. Uno spolverio di neve sottile rendeva l’aria silenziosa e attenta.

– Buona sera signore.

– Vattene Terenzio, ho fretta.

Mi sbarrava il passo petulante più del solito ed agitava le braccia lunghe e nere sulla controluce del lampione.

– Vattene, ho fretta.

– Avete fatto tardi signore, questa sera. Vorrei mostrarvi…

Ero fuori di me, cercai di avanzare ma lui muoveva le braccia come un grande fantoccio scosso da sussulti.

-Ascoltate signore.

-Vattene, maledetto.

Mi fermai di colpo. Non potevo credere alla mia ira, alle mie parole. Mi volsi lentamente a Terenzio, quasi a chiedere scusa; ma lui con un beato sorriso, inchinandosi davanti a me
con autentica aria da castigliano disse:

– Grazie signore. Da quando mi avevate chiamato buon uomo, nessuno più mi voleva nel mio mondo. Secondo gli altri (e qui rise) ero diventato un demonio di seconda mano, troppo
onesto.

– Grazie signore; buon Natale.

E facendo ciondolare lungo il fianco il grappolo dei corni rossi si avviò giù per la strada e scomparve.

NOTE
Racconti horror rari riscoperti da Sergio Bissoli. Troppe corna in questo affare di Pino Belli è apparso in due brevi puntate nel numero 1 de I racconti di Dracula dicembre 1959 e nel numero 2 gennaio 1960.
Presentiamo qui un grande, grandissimo Autore, ma è ancora poco definirlo così. Ha scritto centinaia di horror, gialli, supernaturale e anche guerra, spionaggio e altro ancora, sotto molti pseudonimi. Ha girato film e ha avuto una vita molto avventurosa. Questo breve racconto (ormai introvabile) fa parte dei suoi lavori giovanili. I capolavori devono ancora arrivare. Il genio deve ancora sbocciare. Eppure, una minuscola parte del suo genio si intravede già qui…

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Io sono il pazzo che sa

Fermai l’auto proprio quasi in riva al precipizio.

– Perché ci fermiamo qui? – mi chiese Shara.

Io non risposi e aprii la portiera; Shara mi stava fissando. Con i suoi occhi allucinati. Mia moglie non era più la stessa, da più di due anni. I suoi occhi azzurri avevano
assunto un cipiglio quasi inesplicabile, assente nello sguardo.

Con la gamba poggiata a terra rimasi a guardar fuori. C’era una fitta nebbia, che andava sfacendosi.

Risalii in auto.

– Andremo in quel castello, Shara. E ti prego di non fare la bambina. Non devi temere nulla.

Shara continuava a fissarmi, ora atterrita.

– Ma perché, perché, Bab? Non vedo la ragione perché si debba andare a passare due mesi in un posto tanto tetro…

Alzai le spalle.

– Per te, Shara. Perché devi convincerti che non c’è nulla di diverso, tranne le comodità moderne, in un castello della Scozia… Nulla di diverso da un qualsiasi
albergo di secondo ordine.

– Voglio – gridai – voglio che tu te ne convinca. E che la smetta di crederti in balia di forze misteriose, di atteggiarti continuamente a martire e a perseguitata. Sono tuo marito,
Shara. E voglio il tuo bene.

– Tu vuoi uccidermi, Bab.

La nebbia saliva. Veniva dal fondo del precipizio e nascondeva alla vista il baratro. Ondeggiava, ondeggiava, e svaniva al contatto della pineta, che circondava completamente il monte.

Alla sommità del monte, il castello.

– Perché ti sei fermato qui? – insistette Shara.

La guardai.

– Hai visto quel castello?

– Sì, lo vedo. Bab… ma…

– Non cominciare, Shara, ti prego…

– Ma non vorrai…

Alzai le spalle e scesi dall’automobile.

Sempre alle solite. Shara avrebbe cominciato a tremare, e a piangere, se le avessi detto che era appunto quel castello, la meta del nostro viaggio. Perché « sentivo »
che dovevamo fermarci lì.

Le mollai un ceffone. Ed ella si ritrasse.

IL DONNONE

La strada era scomoda e scoscesa, stretta, tutta a sassi, quasi dimenticata. Si infilava nel fiume di pini, e pareva un budello morto, che stesse a imputridire in un mazzo di rose.

Il profumo della pineta era intenso.

Fermai l’auto di colpo. Il cartello arrugginito lo avevamo di fronte.

« Proprietà privata – diceva per quanto era decifrabile – vietato il passaggio agli estranei ».

« Noi non siamo estranei », pensai. E schiacciai l’acceleratore.

Addossata al muro col portone principale del castello, notai una casupola di mattoni nuovi e calce, serrata in modo provvisorio da un’avvicendarsi d’assi e di spranghe. Fermai
l’auto proprio di fronte a quella casupola.

Si udì l’abbaiare rabbioso di un cane. Shara rabbrividi. Ma non si strinse a me. Diffidava di me, da qualche tempo; forse cominciava a temermi, a odiarmi; e non voglio immaginare
quali pensieri contorti ballassero per la sua mente agitata.

Il donnone si era intagliato improvviso, di fronte al grande portone del castello. Doveva pesare un quintale e qualcosa, e traballava nella sua mole.

Mi avvicinai a lei, mentre Shara volle restare nell’auto.

Il cane uscì ululando da dietro un cespuglio vicino: bastò un gesto del donnone a calmarne la furia. Si accovacciò ai suoi piedi, fremente, puntandomi gli occhi
sanguigni addosso e ringhiando.

– Non avete letto il cartello, forestiero? – mi disse con aria distaccata e insieme diffidente il donnone.

– Sì, l’ho letto. Ma sono venuto egualmente non per contravvenirlo ma bensì per parlare col proprietario di questo castello…

La risata del donnone fu chiassosa e prolungata, cattiva.

– Il padrone?, – ghignò falsamente divertita.

Poi vi fu un attimo di strano silenzio. E di nuovo il cane riprese a ringhiare.

Era un « lupo ». Straordinariamente grosso anche per la sua razza, dal pelo fulvo misto a nero, la coda lunghissima, ferma.

– Il padrone?… Ah! Ah! Il padrone è lui.

E l’indice del donnone indicava il lupo.

Non sapevo cosa dire. Sentivo un brivido percorrermi la schiena. Come se quella madornale affermazione potesse racchiudere un terribile segreto, una orribile verità.

– Non siete molto divertente, signora… Comunque non riuscite a divertire me. Sarà perché ho viaggiato molto, perché la sera è prossima e la stanchezza
comincia a pungermi con maggiore insistenza… Io e mia moglie vorremmo affittare questo castello e trascorrervi due mesi di riposo… Potete dirmi se ci è possibile parlare con qualcuno che possa accondiscenderci?…

– Vostra moglie?…

Il donnone si avvicinò alla Ford, visibilmente incuriosita. E si chinò a guardare Shara.

– Siete bella, signora… Molto bella…

Shara la fissava terrorizzata. Più terrorizzata del solito.

I riflessi del tramonto erano sempre più rossi e giocavano con troppa insistenza coi pini e coi merli del castello.

Il donnone si voltò a me.

– Voi vorreste trattenervi qui per due mesi?…

– Sì, ve l’ho detto…

Accarezzò il pelo del cane, senza staccare lo sguardo da me.

– Siete i benvenuti, allora…

Ma il suo sorriso non era convincente.

– Non mi piacciono i misteri, signora, dissi piuttosto seccato; siete voi la padrona del castello?…

– No, non sono io… Ma il padrone è assente. Ha molto lavoro e conduce delle ricerche un po’ ovunque. Ritorna spesso, ma solo per trattenersi una notte e riprendere i suoi
viaggi. Sono convinta però che sarà lieto di avervi come ospiti…

– No, signora, noi non ci siamo intesi… Volevamo affittare il castello, non abusare della vostra cortesia e della vostra ospitalità…

Il donnone continuava a sorridere.

– Pagherete il vostro affitto… Ma quando incontrerete il padrone. Io curo i suoi interessi, in sua assenza, e posso disporre. Sono certa che lui vi accoglierà volentieri. Dovrete
lasciare però due stanze a sua disposizione: tutto il resto del castello sarà vostro, per due mesi… Io vivo in questa casupola… Mi piace qui. Ci vivo col cane…

Fu allora che Shara prese a gridare.

– Andiamocene, Bab, andiamo via di qui…

– Non fare la sciocca, Shara…

Poi mi voltai al donnone.

– Vi ringrazio, signora. Potremmo visitare il castello?

– Certo, signore, vi faccio strada.

Non feci a tempo a comprendere l’intenzione di Shara. Quando corsi verso di lei la Ford era già avviata e stava dirigendosi a velocità pazza giù per lo stretto
sentiero.

– Stupida!, gridai. Non dovevo fidarmi.

– Vostra moglie è piuttosto originale, no?

– Lasciate perdere. C’è un telefono, qui? Bisogna avvisare la polizia. Shara non sta bene e potrebbe commettere delle imprudenze. E’ in pericolo.

– Non ci sono telefoni, mi dispiace. Il paese più vicino dista trenta miglia, ma anche li non c’è telefono. Bisognerebbe andare a settanta miglia da qui. Là
c’è un posto di polizia… Ma al castello non abbiamo mezzi di locomozione. Nemmeno i cavalli. Il padrone ha la sua auto… Dobbiamo augurarci che arrivi questa notte. A lui potrete dare un messaggio… O altrimenti
dovrete attendere tre giorni, quando verrà il camioncino che ci porta i rifornimenti… Tre giorni non sono tanto tempo, signore… E non credo che vostra moglie vorrà commettere delle imprudenze… Tornerà
qui, stanotte stessa, vedrete, cheta cheta…

– Maledizione!

– Non prendetevela. Siete molto stanco. Volete vedere il castello e ritirarvi nella vostra stanza?…

***

Era una chiarissima notte.

Rimasi sdraiato a lungo, su quel trabiccolo di letto, nella vastissima stanza che non mi piaceva eccessivamente, anzi, che non mi piaceva affatto, ma che il donnone mi aveva imposto,
quasi imposto, con un mare di insistenze, tanto da farmela adorare; solo la scelta a lei gradita mi avesse liberato della sua opprimente presenza.

Una leggera brezza aveva cominciato a dare il colpo di grazia alla giornata afosa. Pensavo.

Dove s’era cacciata Shara?… Ero molto preoccupato per lei… Come poteva essere cambiata così, negli ultimi tempi? Come poteva, la mia dolcissima Shara, essersi chiusa
in quella corazza di odio e di terrore, che mi ossessionava?… E dove era corsa, ora, con tanta follia, sola…

Era stato uno choc, aveva detto il professor Samuel. Uno choc dalle origini inesplicabili, il cui effetto solo qualcosa di altrettanto violento e improvviso avrebbe potuto distruggere.

Io insistevo nel combattere le sue fissazioni, il suo terrore per la notte e per i castelli. Perché lei odiava i castelli. Volevo convincerla che non vi era nulla di strano,
di misterioso, in essi. E che la vita era eguale ovunque.

Fu riflettendo, nonostante l’ansia e le preoccupazioni, che mi addormentai. La stanchezza mi aveva vinto.

UNO STRIDERE D’ARTIGLI

Che ora poteva essere?

Perché m’ero svegliato di soprassalto, con tanta apprensione in cuore?

Sentii ringhiare, nel buio. La notte era più chiara. Non distinguevo nulla, nella stanza. Se non uno strano odore di betulle, intenso e quasi nauseante. Qualcuno, un animale
feroce, forse, stava azzannando la porta. Sentivo lo stridere rabbioso degli artigli, se artigli erano, contro il legno antico. E quel ringhiare affannoso… Quel ringhiare…

Il lupo!…

Mi alzai di scatto. Cercai l’accendisigari, in tasca, e l’accesi. La debole fiammella sparse un lieve chiarore. E allora solo vidi in tutto il suo sinistro squallore la mia
stanza. Quei tendaggi viola, e quelle torce affumicate, la cui fiamma, nel tempo, aveva affumicato i muri sgretolati. E quei quadri che pendevano alle pareti, quella vetrata dai riflessi stanchi e opachi!

Le zanne della belva continuavano nella loro foga.

Vinsi la paura per un attimo e afferrai una torcia, l’accesi con l’accendino e rimasi immobile, al cospetto della porta, ad attendere.

Il rumore di un’auto, nel parco, mi distrasse.

Mi feci alla finestra e agitai la torcia. Non vedevo quasi nulla; solo la sagoma di quell’auto che si era fermata, a fari spenti. Distinsi a fatica due sagome staccarsi da essa
e approssimarsi all’ingresso della torre ove era sistemata la mia camera.

Una violenta vampata della torcia mi bruciò la mano: mandai un grido e la fiaccola cadde, ondeggiando, dall’altezza di dieci metri, rischiarando per un attimo il buio sottostante.
Un attimo sufficiente a farmi scorgere in una delle due sagome la figura di Shara.

– Shara!, gridai.

Ma mi rispose una terribile risata.

***

L’affanno della belva, e lo stridere dei suoi artigli contro il legno cessarono di colpo.

Il buio, tutt’attorno, mi opprimeva, mentre non osavo accendere ancora una torcia. La mano bruciata mi faceva impazzire.

Mi gettai sul letto.

E venne l’alba.

IL SUO CADAVERE

Fu il terribile dolore alla mano e anche al braccio un dolore acuto che andava sempre più propagandosi, a destarmi.

Avevo la testa a pezzi: mi alzai a fatica, combattendo i terribili dolori che mi colpivano in ogni parte del corpo.

L’immagine della sera prima mi ritornò improvvisa alla mente e risentii il senso di terrore e di sgomento che mi aveva pervaso, nella notte.

Mi feci alla finestra e vidi l’auto. Una Buik ultimo modello, ferma innanzi all’ingresso della torre.

– Shara!, – gridai.

E mi precipitai giù per le scale, fino ad imbattermi e quasi a travolgere il donnone che stava salendo.

– Mia moglie… Dov’è mia moglie? – chiesi.

– Vostra moglie…

– Sì, inveii, mia moglie! E’ tornata, ieri sera… L’ho vista…

Il donnone chinò il capo.

– Venite con me, – disse.

La seguii.

Percorremmo corridoi e ampi saloni tappezzati, addobbati con lusso: armature e cimeli, arazzi, candelabri istoriati…

Poi ci fermammo davanti a una porta maestosa.

– Siamo arrivati, – disse il donnone; – entrate pure… e… nulla!

Il donnone si allontanò a capo chino.

Mi scagliai contro quella porta monumentale ed entrai.

L’immagine che scorsi mi schiantò.

Shara, vestita di una veste di candido lino, disadorna, coi lunghi capelli composti sulle spalle e sul guanciale da una mano amorosa, giaceva distesa su di un letto monumentale, grottescamente
bardato.

– Shara!

Non rispose. Non poteva rispondere. Era morta.

MENZOGNE

Il donnone non era nella sua casupola. E nemmeno il lupo.

Girai ogni stanza del castello, fino a sperdermi, in quella ridda di volte e di corridoi, di corridoi e di corridoi. E man mano che il tempo passava aumentava in me l’ira. Mi trovai,
di colpo, in un salone vastissimo, ai cui lati gigantesche armature si ergevano, con drappi appesi alle pareti, e arazzi istoriati. Il donnone era lì. Col lupo.

Era seduta su di uno scranno di legno intagliato, maestoso. E il lupo era ai suoi piedi.

– Shara è morta…

-Sì, è morta. E’ stata trovata ieri notte dal padrone. L’ha caricata nella sua auto e l’ha condotta qui. Troppo tardi. L’abbiamo composta in un letto e
non abbiamo voluto destarvi, signore.

I miei occhi, puntati su quella donna, dovevano esprimere sin troppo la mia ira e il mio rancore.

– Ho visto Shara, ieri notte, dissi; e ho visto che era VIVA.

– L’avete vista?

– Sì, ho visto chiaramente il suo volto. E anche la sagoma di colui che l’accompagnava. Chi era?…

– Era il padrone. Ma vostra moglie era morta…

– Chi l’ha uccisa?

Mi pareva che quella donna ghignasse.

– Non lo so. So che era morta, quando giunse qui. Forse… non saprei…

– Voi mentite.

Lo sguardo della donna era freddo. E il lupo cominciò a ringhiare, minaccioso.

– Voi mentite. E quella bestia ha cercato di uccidermi ieri notte!

– Voi vaneggiate: il mio cane non farebbe male a una mosca… E io vi ho detto la verità. Sono stata sin troppo paziente, con voi, perché il caso doloroso che vi è
capitato vi fa parlare a sproposito…

– Voglio parlare col padrone. Deve spiegarmi il mistero della morte di Shara…

– Il padrone è partito…

– La sua auto è ancora ai piedi della torre…

– E’ partito, vi ripeto.

Mi trattenni a stento.

– Voi mentite, mentite! Ma saprò la verità. Ci penserà la polizia a regolare questa storia, a sistemare sia voi che il vostro misterioso padrone…

E tornai sui miei passi.

IL BACIO DEL VAMPIRO

Il cadavere di Shara pareva sorridere, nella morte.

Le passai una mano sulla fronte fredda, azzurrognola.

– Perdonami, Shara, è stata colpa mia…

Lei continuava a sorridere.

Fu un lampo. E i miei occhi corsero a quei due segni strani sul suo collo. Due segni violacei, due ferite brevi ma profonde.

– Non posso crederci, pensai.

Non potevo crederci: vampiri!

Erano i vampiri la più grande ossessione di Shara. Le leggende tramandate nella nostra terra, dai nostri padri.

I vampiri!

Risi, risi forte, di una risata isterica, cattiva.

– Uno scherzo del destino… O uno scherzo della follia.

***

Avevo dormito?

La testa mi doleva. Mi alzai a fatica e rimasi a osservare il volto ancora più freddo di Shara. E i due segni, il bacio del vampiro, tornarono ad ossessionarmi.

Fuori era notte. Avevo dormito tanto? Mi passai una mano sul capo, come per cacciarvi il senso di pesantezza che lo costringeva.

– Shara! Shara! E’ stata tutta colpa mia.

E uscii dalla stanza, vaneggiando, quasi di corsa, senza meta. Sentivo di dover correre, correre, fuggire. Abbandonare quella strana atmosfera. La paura! Ecco: era la paura che mi stava
attanagliando!

LA TERRIBILE NOTTE

Delle lunghe, sataniche risate echeggiarono in fondo al corridoio che mi si apriva innanzi.

Mi precipitai, in una corsa furiosa. Ma incontrai il buio di un altro profondo corridoio. Uno strano riflesso del cielo chiaro, in quella notte tersa, illuminava sinistramente l’ambiente.

E di nuovo udii quelle risate sataniche.

Ripresi la corsa, per raggiungerle. E non mi curai della foga, che mi faceva rovesciare tavoli e cimeli, scranni e armature.

Mi fermai di colpo.

Un lampo improvviso squarciò il cielo e la sua luce ferruginosa illuminò innanzi a me. Credetti di impazzire.

Mi trovavo di fronte a un grande quadro, terrificante. Rappresentava una donna, vestita in stile castigliano, bellissima.

Il volto di Shara.

Le risate, ancor più sataniche, si manifestarono alle mie spalle. Mi volsi. E vidi.

Indietreggiai terrorizzato, annaspando nella penombra. Inciampai in un tendaggio che mi rovinò addosso.

« Lui » rise.

Non potevo confondermi: il vampiro. La sagoma che la sera prima avevo visto scendere dall’auto con Shara, nell’attimo di chiarore che aveva creato la mia torcia. Il vampiro!

Il vampiro e il lupo. La bestia ringhiava, pronta a scagliarsi, mentre gli occhi vitrei, sanguinolenti del vampiro mi fissavano. Aveva i capelli in disordine, i muscoli facciali contratti
in uno sforzo animalesco, i due canini a fior di labbra, aguzzi e terribili.

Gridai, conscio di essere solo, solo con la mia paura e il mio terrore, solo di fronte alle due belve.

E tornai a correre.

Il vampiro non si attendeva la mia fuga. Ma fu un attimo e subito si gettò all’inseguimento, certo di avermi in suo potere.

Fu una corsa terribile: una corsa che non poteva avere altra meta che la morte. E forse qualcosa ancora di più orribile della morte: il contagio del vampiro. La dannazione eterna!

Corsi! Corsi! Senza quiete!

– Shara!

Shara non udì il mio grido. Non poteva udirlo. Camminava verso di me, senza vedermi, forse; composta nella sua veste candida, disadorna.

– Shara!

Ma lei non mi udiva. Mi volsi.

Il vampiro era vicinissimo. E l’ululato del lupo agghiacciava il sangue nelle vene.

All’improvviso, nella mia pazza corsa, sentii qualcosa di freddo e di metallico, con la mano. L’afferrai. Una lancia!…

La alzai pesantemente, con ambo le mani e rimasi fermo ad attendere.

Il lupo andò, nel suo salto alla mia volta, a conficcare la pancia nella punta acuminata della lancia. Avevo avuto fortuna!

La bestia rantolò e si riversò al suolo. Ma dallo squarcio che l’arma gli aveva procurato non uscì una stilla di sangue.

Ero allibito, mentre il vampiro si era fermato, terrificato a sua volta. O estasiato, dall’immagine di Shara che si stava avvicinando.

***

Non ricordo bene come potei trovare il coraggio per agire. Ma lo trovai, approfittando di quell’attimo di panico. Alzai la lancia, con un urlo e uno sforzo sovrumano e mi avventai
sul vampiro, colpendolo in pieno petto. Poi fuggii, e mi ritrovai ai piedi della torre.

IO SONO IL PAZZO

La Buik del « padrone » era ancora lì. Vi salii: il cancello era aperto e lo varcai facendo urlare il motore.

***

Mi ritrovarono non so quanti giorni dopo, in una scarpata. Ero più morto che vivo e avevo perso la parola. Rimasi all’ospedale non so quanto tempo, tra la vita e la morte,
in continuo stato di incoscienza. Farneticavo e chiamavo Shara, mia moglie e l’immagine di quella terribile notte.

***

E’ passato molto tempo. E io sono molto cambiato. Cammino come un pazzo per le verdi contrade della Scozia a cercare, in un tuffo di nebbia e di pini, lo svettare di una torre,
che mi riporti a quella meta.

***

Io sono il « pazzo », l’uomo che la gente indica ai bambini per terrorizzarli, che i monaci accolgono con pietà, con un tozzo di pane e una scodella di brodo.

Il « pazzo » scalzo che grida nella notte e che non si stanca di cercare. Che cammina a capo chino sotto il sole, che vive nelle tane delle belve e parla con le serpi.

***

Io sono il « pazzo » che forse anche voi avete incontrato. Che tiene in mano un acuminato palo di frassino e ha le tasche piene di aglio novello.

Sono il « pazzo » cui hanno raccontato che i vampiri vivono in eterno, nella loro eterna maledizione; il loro sonno nei sepolcri di giorno, per destarsi la notte, a uccidere
e a depredare le loro vittime del sangue.

Io sono il « pazzo » che sa.

Il « pazzo » che cerca un castello dove il male continua ad esistere. Dove i vampiri continuano a uccidere.

NOTE
Racconti horror rari riscoperti da Sergio Bissoli. Io sono il pazzo che sa di Peter C. Arnold, apparso in Italia nell’agosto 1962 sul numero 3 di Terrore, edito da Sansoni e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost. Autore italiano Pier Carpi all’anagrafe Arnaldo Piero Carpi nato ad Arceto di Scandiano Reggio Emilia nel 1940 e morto a Viadana Mantova nel 2000. Sposato a Franca Bigliardi morta nel 2000. Autrice del film Il ventre di Maria del 1992.

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