Il terrore di St. Pierre

L’affermazione ormai trita, che il vero è talvolta più inverosimile d’ogni fantasia, trova in questa raccapricciante storia la più efficace delle conferme. E’ il racconto semplice e disadorno di un giovanotto negro, Ludger Sylbaris, unico superstite della famosa catastrofe di St. Pierre: ma l’orrore della tragica situazione ha strappato da quell’anima rozzamente ingenua tali accenti di profonda angoscia umana, da suggerirmi di riprodurlo nella sua suggestionante integrità.

Era una sera del 19…. e io stavo seduto con la mia fidanzata, la bella Giulia Richard, a un tavolo del ristorante della piazza municipale, a St. Pierre della Martinica, ciarlando e osservando la gente che passeggiava su e giù in folla davanti a noi.
Andai nel pomeriggio a Fort de France, a prendere Giulia e giunsi a casa sua poco prima del tramonto. A nord, il monte Pelée faceva udire il suo lamentoso boato, e a quando la terra sussultava e tremava sotto i nostri piedi: ma quando due si vogliono bene non si danno troppo pensiero di ciò che accade intorno a essi, e io ero troppo assorbito dalla vista e dai discorsi della mia compagna per accogliere idee tristi e paurose.
Ci incamminammo quasi subito verso Saint Pierre. Il brontolio della montagna si faceva a mano a mano più forte, e già fitti nuvoloni di polvere si erano rovesciati a più riprese sulla città. La popolazione, per niente spaventata, organizzava invece numerose gite per contemplare da vicino il curioso spettacolo.
Una allegra e numerosa compagnia occupava insieme a noi il battello che fa il tragitto da Fort de France a St. Pierre. La brezza della sera increspava leggermente le acque: un senso di freschezza, delizioso dopo l’afoso calore della giornata, disponeva gli animi alla quiete e alla delizia. Una cortina di vapori nera e spessa ci nascondeva alla vista la cima del monte.
Tutti ciarlavano animatamente, incuranti del domani. Quanto a me un solo pensiero mi occupava. La mia Giulia era bellissima: alta, slanciata, graziosa nelle movenze, con una voce dolcissima e due occhi neri che sembravano penetrarmi fino all’anima.
Allorché li fissava su di me, mi sentivo felice: ma se li rivolgeva ai nostri compagni di barca, un fremito di rabbia mi invadeva tutto. Ed ella, che lo sapeva, non aveva che da sorridermi amorevolmente per vedere il mio malumore dissiparsi come per incanto.

LA RISSA
Poiché le occhiate degli uomini del caffè in cui eravamo andati a sederci diventavano sempre più audaci, io rimproverai Giulia di mostrarsi troppo civetta, rispondendo loro con dei sorrisi che avrebbero offeso chiunque si fosse trovato al mio posto.
Giulia si mise a piangere e scappò via, senza guardarmi in viso. Evidentemente era irritatissima.
D’improvviso un giovanotto elegante, che era stato uno dei più insistenti nel corteggiarla da lontano, uscì dal fitto gruppo e mi affrontò guardandomi arditamente negli occhi.
Lo attesi a piè fermo, senza far motto. La testa eretta e le braccia incrociate sul petto. A un tratto egli mi afferrò per le spalle e mi gettò a terra. Stordito dal colpo inatteso, rimasi un momento immobile: poi, con subito slancio, balzai in piedi.
Quell’assalto brutale mi fece l’effetto di una liberazione. Per oltre un quarto d’ora ero rimasto al mio posto mordendo il freno, costretto a sopportare in silenzio i sogghigni e le celie di pessimo gusto di quei maleducati, finché, incapace di frenarmi oltre, m’ero lasciato andare a sfogo deplorevole nei confronti della mia fidanzata.
Ma adesso, finalmente avevo di contro degli uomini, potevo assalirli a mia volta, abbandonarmi liberamente all’impulso di collera che mi frenava in tutta la persona.
Non avevo armi, ma afferrai il primo oggetto che mi capitò tra le mani una bottiglia rimasta sul tavolo e lo scagliai con forza contro il mio avversario, colpendolo alla faccia.
Un rumore di vetri che si rompono con violenza, un grido di rabbia e di dolore ed egli cadde a terra privo di sensi.
Un coro di proteste indignate si levò tra gli astanti. Vidi molte braccia agitarsi in aria frementi e mi addossai con le spalle al muro.
I gendarmi accorsero, mi presero in mezzo, mi portarono via. Ebbi solo il tempo di gettare un’occhiata a Giulia che si era rincattucciata in un angolo del locale.
Fu uno sguardo disperato, il mio. Al quale rispose uno sguardo altrettanto disperato.
E venni condotto via.

UNA BUIA, TETRA PRIGIONE
Dal caffè al municipio nel cui sottosuolo si trovavano le prigioni, non c’era che un passo. Venni condotto nella cella che mi era stata destinata (l’ultima di una delle due lunghe file che si aprivano sul corridoio centrale), e vi fui abbandonato. Non potevo udire alcun rumore dall’esterno. Mi trovavo in una prigione ben sorvegliata.
Mi sentivo stanco e stordito per gli avvenimenti che mi avevano voluto involontario protagonista. Ero stanco, disfatto. Mi ero buttato a giacere sul tavolaccio, per riflettere sulla mia situazione.
Sentivo tremare lievemente il pavimento e le pareti della mia prigione; ma la sonnolenza, che già cominciava a invadermi, mi toglieva ogni senso di paura, come mi impediva di sentire la vergogna e la preoccupazione per il mio stato e ben presto mi addormentai profondamente.

UN TERRIBILE INCUBO
A un tratto mi svegliai di soprassalto.
Il terreno su cui ero disteso vacillava maledettamente e un lontano rumore, come di tuono, mi giungeva alle orecchie.
Balzai in piedi. Albeggiava e le idee mi si erano completamente rischiarate. Il ricordo della scena del caffè mi colpì con nettezza ed evidenza. Risentivo il rumore della bottiglia che si rompeva sul viso del mio avversario, lo rivedevo steso a terra, intriso di sangue. E se fosse morto? Ero dunque diventato un assassino? Avrei portato con me, per tutta la vita, l’immagine e il rimorso del mio delitto?
Questi pensieri, il timore della sorte che mi attendeva, e quello di aver perduto Giulia per sempre mi occuparono a lungo, e quando il carceriere mi portò da mangiare non ebbi la forza di rivolgergli la parola.
Mangiai poco e male. L’avvilimento mi toglieva l’appetito.

LO SPAVENTOSO TERREMOTO
D’improvviso, con una rapidità che non riesco a descrivere, la cella in cui ero rinchiuso cambiò completamente d’aspetto. Ciò avvenne in modo così inatteso, così completo, così inesplicabile che non tentai nemmeno di sforzarmi a comprendere.
La poca luce che mi circondava disparve, lasciandomi nel buio più fitto. Udii uno scalpiccio di passi affrettai nel corridoio superiore, misto ad altri suoni misteriosi, vaghi e terribili che non capivo di dove venissero.
Immerso nelle tenebre, con le orecchie intronate da mille rumori diversi, avevo però la percezione distinta delle cose: e ciò che sentii non fu certo provato da altri esseri umani in quel giorno a St. Pierre.
O quantomeno nessuno sopravvisse a raccontarlo.
Con la stessa stupefacente istantaneità con la quale la luce si era spenta, l’aria in giro parve convertirsi in un invisibile fuoco. Esso occupava ogni spazio, dal soffitto al pavimento, da un muro all’altro, mi riempiva gli occhi, le narici, la bocca, i polmoni: un fuoco asciutto e senza fiamma, più bruciante di quello di qualsiasi fornace. Un fuoco orrendo, terribile, mostruoso.
Era dunque la fine?
Gridai con quanto fiato avevo in corpo. Chiamai ripetutamente al soccorso, ma inutilmente. La volta della prigione mi rimandava il suono della mia voce, raddoppiato da un’eco sonora: ma nessuno rispondeva al mio appello disperato.
Lo spaventoso calore, l’orribile fuoco senza fiamma continuava più intenso, più insopportabile che mai. Una paura acuta, irragionevole mi prese: poi, con un violento sforzo su me stesso, riuscii a dominarmi, a chiedermi cosa accadesse di eccezionale.
Quel caldo non poteva certo provenire da un incendio sviluppatosi nella prigione, perché in tale caso qualcuno sarebbe venuto a togliermi di là, o quanto meno avrei udito il rumore dei preparativi intesi a scongiurare il disastro.
Mentre mi affaticavo a trovare una spiegazione, il suolo cominciò a oscillare, a tremare violentemente. Non solo il piccolo mondo rappresentato dalle pareti della mia cella, ma tutta la terra parve scossa fin nelle sue viscere più profonde.
Le mura del palazzo in cui si trovavano le prigioni, alle cui fondamenta si addossava il sotterraneo da me occupato, vibrarono nel buio assoluto che mi circondava.
Avevo la percezione esatta del loro disordinato movimento. Se tutta quella massa monumentale fosse precipitata, avrebbe finito con il seppellirmi sotto le macerie.
Gridai ancora una volta al soccorso, ma non riconobbi più la mia voce. Era un suono fievole e strano, ora stridulo come il pianto di un bambino, ora rauco e soffocato come il lamento di un moribondo, che mi usciva di gola, accrescendo il senso di orrore che mi invadeva, terribile!
E sempre nessuna risposta!
Mi avevano lasciato solo!
Un nuovo rumore mi colpì. Stavolta non era il cupo rombo che accompagna i grandi terremoti, ma lo scroscio formidabile di molti edifici che si sfasciavano e cadevano in rovina, misto a cento altri suoni diversi, indefinibili.
La prigione doveva dunque convertirsi per me in una tomba?
Sembrava così solida, così massiccia, che non sapevo figurarmi una forza capace di distruggerla.
Pure quale altro significato potevano avere quel tremito continuato sopra la mia testa e quei tonfi spaventosi di pietre che cadevano?
Ma quantunque il sinistro strepito assumesse proporzioni sempre più spaventose, le macerie non giungevano fino a me.
La volta della mia cella, robustissima e situata a considerevole profondità, rimaneva ancora intatta e io cominciai a chiedermi se l’inesplicabile catastrofe non stesse per convertirsi in un mezzo di salvezza, e mi misi a brancolare nel buio cercando disperatamente una uscita qualsiasi.
A un tratto accadde una cosa che ancora di più mi atterrì.

IL FUOCO DELL’INFERNO
Un’insopportabile sensazione di bruciore ai piedi mi costrinse a chinarmi per indagarne la causa: ma tosto ritrassi la mano, orribilmente scottata.
Qualcosa di vischioso e di atrocemente caldo, che sembrava fango in ebollizione, s’insinuava lentamente sul suolo di quello che stava per diventare il mio sepolcro.
Non diverso effetto avrei provato toccando un ferro rovente appena tolto dalla fiamma di una fornace.
Rimasi un momento immobile. Poi indietreggiai, preso da orribile spavento. Quella misteriosa, ardente sostanza, m’inseguiva sempre. Riempiva a mano a mano lo stretto locale come l’acqua che si versa in un serbatoio.
Una morte mille volte più lenta, più atroce, più spaventosa di quella per schiacciamento cui ero sfuggito, mi aspettava, dunque?
Mentre la tremenda marea saliva fino a piegarmi le gambe e mi addossavo tutto tremante al muro del fondo, ove essa ancora non giungeva, un acre odore di zolfo mi prese alla gola, accompagnato da un acuto bruciore interno che pareva volesse soffocarmi.
E assieme alle torture fisiche, un pensiero insistente, una specie di ossessione mi perseguitava, mi faceva martellare le tempie.
Se, come tutto lo faceva supporre, un incendio distruggeva tutto il municipio, perché non tentavano di spegnerlo? Che si fossero dimenticati di me, potevo anche ammetterlo: ma lasciar perire così tutto il grandioso fabbricato!…

ORE DI ATROCE AGONIA
L’odore di zolfo e lo stringimento alla gola crebbero fino al limite, oltre il quale cessa la tolleranza umana. Poi, piano piano, i miei tormenti cominciarono a calmarsi, a fondersi tutti in un cupo stupore, in cui svaniva la percezione esatta delle cose.
Quanto tempo rimasi così, con le spalle al muro, immobile e semi incosciente?
Non riuscivo a farmene un’idea: non sapevo più neppure se fosse giorno o notte. Ricordavo che al mattino dell’8 maggio, dopo che il carceriere aveva portato da mangiare, avevo provato per la prima volta l’intenso calore e inteso gli strani rumori accennati: ma quanto tempo fosse trascorso da allora restava per me un mistero.
Finalmente mi riscossi, con una impressione di sete ardente.
Cercai a tentoni la brocca dell’acqua, e, trovatala, intatta su una sporgenza del muro, bevvi fino all’ultima goccia.
Era rimasto anche un po’ di cibo, ma non lo toccai. Mi ripugnava.
Poichè il liquido fango s’era raffreddato, mi distesi invece a terra e mi addormentai, o forse caddi in una specie di deliquio.

LE POTENZE INFERNALI
Ero così, nell’incoscienza, probabilmente da ore, da giorni, non so, quando socchiudendo gli occhi vidi uno spettacolo che mi terrificò. Ciò che avevo fino a quel momento passato era nulla al confronto delle mostruosità che si trovavano ora dinanzi a me: sentii i capelli drizzarmisi, dilatai le pupille in un terrificante stupore, un grido mi sali alla strozza e proruppe altissimo.
Topi, enormi topi invadevano il pavimento della mia prigione. Mi guardavano con i loro occhietti maligni e crudeli, ed erano lì, immobili a fissarmi, come se attendessero un misterioso ordine prima di procedere al vorace assalto.
Mi rizzai, le spalle contro il muro, e rimasi là, per secondi che mi sembrarono eternità, le braccia allargate sulla parete, le mani strette spasmodicamente. Ma anche le pareti, là dove esse offrivano qualche sporgenza, erano state invase dai topi. Da queste schifosissime bestiacce.
A un tratto venni percosso come da una scarica elettrica. Lungo il mio braccio sinistro, nudo, un topo cominciò a camminare veloce sulle sue zampe ripugnanti. Cacciai un urlo, scrollai il braccio per far cadere l’orribile bestia. Poi mi misi a correre, disperato, impotente, pazzo di spavento per tutta la mia prigione, mentre i topi scappavano di qua e di là, mentre altri mi cadevano sulle spalle, altri mi si appigliavano alle gambe, alle mani, mi morsicavano dovunque trovassero una superficie di pelle libera di indumenti.
Mi scagliai contro la porta della cella, battendovi disperatamente per cercare di demolirla e fuggire da quell’orrore nel quale non potevo più resistere, per sottrarmi ai morsi crudeli, al contatto viscido e ributtante dei roditori.
Ma invano. La porta resisteva ai miei colpi più disperati.
Le grida si succedevano al pianto, ai singhiozzi, alle urla pazzesche che mi si sprigionavano dal cuore, da ogni più sensibile fibra del mio essere.
Sentivo gli squittii furenti delle bestiacce. Battendo i piedi forsennatamente per terra, ne schiacciai non so quanti. Ma tuttavia i topi aumentavano sempre più di numero. Sembravano penetrare attraverso le spesse pareti, e non mi chiesi da dove passassero, poiché la cella non presentava alcun buco, alcuna apertura quanto piccola fosse, attraverso la quale le bestiacce maledette potessero giungere sino a me.
Non mi chiesi per quale misterioso condotto esse erano giunte sino a me.
Non pensai, dominato dal mio cieco terrore, che soltanto una potenza malefica poteva aver compiuto – solo essa – l’orrendo prodigio.
Eppure soltanto le potenze infernali avevano potuto operare la cosa mostruosa.

UNA SPAVENTOSA LEGGENDA
Più tardi dovevo rammentare una leggenda antichissima che mi era stata raccontata da un uomo più che centenario quando io ero ancora un ragazzo.
– Su St. Pierre, mi aveva raccontato il vecchio, – pesa una maledizione terribile. Un tempo qui, secoli e secoli fa, si svolgeva il mercato degli schiavi: povere genti negre provenienti dalle più lontane contrade d’Africa. Quelli che resistevano agli spaventosi disagi per mare che venivano effettuati sulle navi negriere, erano venduti all’incanto, al miglior offerente. Migliaia di uomini, di donne, di fanciulli e di bambine erano stati smistati e ceduti in cambio di oro. Le maledizioni di questi infelici avevano finito per fare di St. Pierre una terra maledetta.
Un giorno un gigantesco negro dell’Africa Equatoriale, convertito al cristianesimo, mentre si trovava sulla piazza di St. Pierre per essere venduto, aveva lanciato il suo terribile anatema. Questo negro prima di convertirsi al cristianesimo era stato uno tra i più potenti stregoni della sua tribù. Conosceva i più reconditi segreti della magia nera, era stato tra i più attivi cultori del satanismo. Allorché i missionari lo avevano convertito alla religione cristiana, il negro aveva smesso di intrattenere il misterioso commercio con le deità pagane e con le potenze del male. La conversione di quell’uomo era stato uno dei più grandi successi ottenuti nel campo della fede da quei primi missionari avventuratisi tra le selvagge contrade dell’Africa Equatoriale.
– Ebbene, – aveva continuato il vecchio, il giorno in cui Aybinong, così si chiamava il negro, fu condotto sulla piazza di St. Pierre per esservi venduto come schiavo, egli pronunciò una delle più terribili bestemmie che un uomo di fede cristiana possa proferire.
« Da questo momento faccio ripudio della religione cristiana alla quale padri missionari mi avevano iniziato. Non riconosco più quel Dio d’amore che essi mi avevano insegnato ad amare. Giuro di adorare nuovamente gli dei dei miei padri e di affidare la Principe delle Tenebre, Dio del Male, mia anima Angelo Nero della Sventura. Io giuro di adorarlo, amarlo, rispettarlo così come ero pronto ad adorare, amare, rispettare il Dio d’Amore. Chiedo l’intervento delle forze oscure perché St. Pierre sia maledetta nei secoli dei secoli, perché i suoi abitanti abbiano a essere dannati per l’eternità. Vieni o Dio del Male, prendi in consegna questa terra e le anime delle genti indegne che la abitano: fai di questa terra un tuo dominio, fai di questi uomini dei tuoi sventurati sudditi. Che la maledizione perenne cada sulla città e sulle generazioni presenti e future di St. Pierre. Vieni e distruggi! Vieni, e uccidi! Vieni e seppellisci sotto un mare di fango ardente e di zolfo ogni cosa Tu, da questo momento, sei il mio Dio! ».

IL CATACLISMA
Erano state appena pronunciate queste maledizioni, che il cielo si era improvvisamente oscurato. Tenebre nere come quelle della notte più fonda e tempestosa erano succedute allo splendente azzurro e all’ardente fiato del sole. Una lingua di fuoco tremenda aveva solcato il cielo da una estremità all’altra, e un gigantesco spettro dagli occhi e dalla bocca di fiamma, con un grande mantello nero svolazzante era apparso a tutta la gente della città.
Satana in persona, l’orrendo mostro del male, immobile contro il cielo, gigantesco, enorme, terrificante aveva lasciato udire una risata altissima e terribile.
Aybinong era caduto in ginocchio levando le braccia verso l’apparizione ed aveva gridato:
– Principe, principe delle Tenebre, questo regno è tuo! Prenditelo!
Le folgori, allora, erano cominciate a cadere sulle case, sugli uomini come frecce scoccate da mille e mille invisibili archi. Gli incendi si erano rapidamente propagati in tutta St. Pierre, uomini, donne, bambini erano caduti fulminati sotto gli strali di fuoco.
A un tratto s’era udita una voce possente, come se centomila altoparlanti si fossero trovati dislocati nel cielo:
– Genti di St. Pierre, se volete salva la vita, rendetemi omaggio! Io sono il vostro Signore, il Diavolo!
Il terrore della morte aveva spinto i più a buttarsi proni a terra, a vendere in cambio della vita, la propria anima a Satana. Chi si era sottratto al comando per tener parola alla propria fede, era stato inesorabilmente ucciso dai lampi mortali.
– Da quel momento St. Pierre non è più la città della fede, ma la città del Diavolo. Non si adora più Dio, ma Satana, – aveva concluso il vecchio centenario. – Ogni cento anni ora Satana ricompare e chiede un nuovo giuramento, impone il proprio potere alle genti di questa infelice e maledetta contrada.
Il satanismo in St. Pierre era cominciato da allora a diventare un culto.

L’ORRENDA METAMORFOSI
Ludger Sylbaris, il negro che giaceva nella cella in compagnia dei mostruosi ratti era un uomo di profonda fede cristiana. Sapeva dell’esistenza delle potenze infernali, ma ora, mentre cercava di sfuggire ai morsi feroci dei topi che lo premevano da ogni parte in una specie di muraglia squittente e nauseabonda, non pensava che Satana era venuto quel giorno, nel pieno della sua potenza, a chiedere il tributo alla città di St. Pierre.
Alla leggenda non pensò, ritenendola semplicemente frutto di fantasia, se non quando una metamorfosi spaventosa ebbe a verificarsi dinanzi ai suoi occhi sbarrati.
Un soffio caldo, misto a un insopportabile odore di zolfo passò come una ventata entro le quattro pareti della cella. I ratti caddero a terra come se fossero stati toccati da una bacchetta magica. Caddero quelli che si trovavano abbarbicati con le loro zampette sulle angolosità della parete, quelli che si erano insinuati tra il petto e la camicia della loro vittima, che gli si erano attaccati con i denti al cuoio capelluto, alle gambe, alle braccia, ai piedi nudi, alla schiena. Giacquero immoti a terra in un groviglio di grossi corpi neri lardellosi, lucenti, con le lunghe code irrigidite, le bocche irte di denti aguzzi spalancate, in smorfie orrende.
Ludger Sylbaris, tremante, il corpo scosso da violenti conati di vomito si appoggiò alla parete e lasciò uscire dallo stomaco contratto, rivoltato dallo spettacolo ripugnante tutti i pochi umori che giorni di digiuno gli avevano lasciato.
Si sentiva impazzire. Il sovrannaturale lo sovrastava. Ora capiva che egli era stato protagonista di un’azione infernale, satanica alla quale la mente umana non poteva resistere.
E in quel mentre la metamorfosi terrificante avvenne.
Ogni topo agonizzante si trasformò in un essere ibrido, tra il nano e la bestia: esseri dalle gambucce corte e magre, dal corpo piccino e dalla testa enorme. Gli occhi erano simili a grossi fari, le orecchie erano padiglioni penduli, spaventosi a vedersi. Ma gli occhi! Erano occhi nel cui profondo c’era il fuoco dell’inferno, la morte con la sua fissità spaventosa, c’era la crudeltà indicibile delle creature inferiori dominate dal satanismo.
Un nuovo urlo, lungo e altissimo come di lupo ferito a morte, uscì dalla gola del disgraziato.
Se l’incubo dei mostruosi ratti era stato atroce, ora questo altro era addirittura insopportabile. Dominato da una pazzia furiosa, il prigioniero si diede a prendere a calci gli esseri immondi: li colpiva con i pugni, li schiacciava a colpi di testa contro la parete.

LA RIVOLTA DEI MOSTRI
Furono come sorpresi dalla reazione dell’uomo.
Squittivano come ratti, ma si muovevano come uomini, deformi, spaventosi omuncoli dalle lunghe braccia alle cui estremità le mani non erano dissimili dalle zampe dei topi, artigliate, adunche, mortali.
Quanti ne uccise, il povero negro?
Egli vedeva il sangue sprizzare dai cadaverini: ne era tutto inzuppato. Le pareti colavano lasciando impronte sanguinose. Era un sangue denso come olio, vischioso e dall’odore nauseabondo.
Ma più Sylberius ne uccideva, e più uomini-mostri entravano misteriosamente nella cella. Brulicavano come formiche in un formicaio. Sopra, sotto, ai lati Sylberius era premuto dalla massa abnorme. Da quelle migliaia di bocche usciva un fiato caldo e potente, simile al lezzo cadaverico. Gli occhi bruciavano come se emettessero fiamme. Gli artigli da topo laceravano le carni, penetravano profondamente lasciando solchi sanguinosi, strappando all’uomo, oramai incapace di difendersi, esausto, disperato lunghi e alti singhiozzi, grida di aiuto, forsennate bestemmie…
Vinto il primo attimo di sbigottimento seguito alla reazione di Sylberius, i mostri-uomini ora lo aggredivano, avanzando a plotoni, morsicandolo da ogni parte, aggrappandosi a ogni pezzettino della sua carne. Egli compiva salti mostruosi, quasi arrivando a toccare il soffitto con la testa per scrollarsi di dosso le bestie immonde. Si scagliava contro le pareti, ma se anche ne uccideva erano sempre troppo pochi quelli che morivano in confronto alle moltitudini che sempre più entravano misteriosamente in azione.
La rivolta dei piccoli mostri la vinse sul coraggio e la disperazione di Sylberius.
L’uomo crollò a terra sotto la massa enorme giacque immoto.

IO SONO IL TUO DIO
Era svenuto.
Non seppe neppure lui dire quanto tempo giacque così, nella più completa incoscienza.
Quando riaperse gli occhi, vide che i mostri-uomini si erano ritirati dal suo corpo. Li vide tutti allineati contro le pareti della cella, ammucchiati gli uni sugli altri, i mille e mille occhi fissi su di lui, immobili. Mentre il lezzo che usciva dalle loro bocche contorte lo staffilava.
– Mio Dio! – gli uscì dall’anima, – Mio Dio, aiutami tu!
A quella invocazione gli rispose da ogni punto della cella un’alta, sonora, diabolica risata.
Ai suoi occhi allucinati apparve lo spettacolo di quelle mille bocche spalancate nella risata mostruosa, che sconvolgeva l’intelletto. I piccoli mostri ridevano tutti all’unisono, come se quelle mille e mille bocche fossero una bocca sola.
– Non resisto! Non resisto più!
Sylberius si levò in piedi di scatto. Si buttò contro la porta picchiando i due pugni chiusi in un disperato quanto inutile tentativo di demolirla.
La risata s’interruppe. Il silenzio subentrò nella cella. E allora un altro evento satanico si compì.
I mostri scomparvero d’incanto. Una lingua di fuoco di un bianco accecante si scatenò nella cella, un fitto, acre velo di zolfo riempì l’ambiente e la presenza incorporea di un personaggio satanico apparve a Sylberius.
– Io sono il tuo Dio!

IL PRINCIPE DEGLI INFERI
Sylberius indietreggiò fino alla parete. Vi si appoggiò con le spalle vinto da un più grande terrore.
– No, no!… – cominciò a balbettare, – no… no!…
Il personaggio era tutta un’ombra nera, attraverso di esso, Sylberius vedeva la parete di contro: era un essere immateriale e tuttavia era un essere reale, ben vivo e ben vero. Era là, dinanzi a lui. E ghignava nella sua terrificante bellezza.
Sì, Satana era bello come un angelo e malefico come il demonio.
– Io sono il tuo dio!
– No, no…
– Ricordi la maledizione di Aybinong?… Aybinong lo schiavo che ripudiò il Dio d’Amore e strinse alleanza con me, il Dio del Male? Tu sei il discendente di Aybinong. Ma tu credi nel Dio d’Amore… Ma sarai tu che rinnoverai il patto fatto dal tuo antenato. Sarai tu che questa volta rinnegherai la tua fede per la mia…
La risata stridula, infernale si ripercosse nuovamente tra le quattro pareti che parvero crollare.
Sylbergius tremava come un virgulto percorso dal vento. Era incapace di connettere, una paura arcana, un terrore invincibile lo dominavano togliendogli ogni capacità di pensare, di riflettere, di reagire. Subiva la presenza dell’altro, si sentiva soggiogato dal potere malefico che emanava dal maligno.
– Che debbo fare… che debbo fare?… – balbettava Sylbergius, scrollando la testa a destra e a sinistra come un automa. – Che debbo fare?…
– Rinnega, rinnega il tuo Dio!
Sylbergius cadde in ginocchio, affondò la fronte nello strato di fango impregnato dell’acuto odore di zolfo, fu scosso da profondi singhiozzi:
– Rinnego il mio Dio! – gridò con la disperazione nella voce. – Rinnego il mio Dio!
Alta e breve risuonò la risata.
– Sei libero!

UN ALLUCINANTE SPETTACOLO
Ci fu subito come una vampata, poi le quattro pareti caddero e il rumore dei calcinacci e la polvere che si sprigionò da essi furono terribili.
Della presenza del signore del male più alcuna traccia. Sylbergius si trovò ricoperto di polvere, gli abiti a brandelli, i capelli incanutiti, il volto disfatto, pieno di rughe, gli occhi sbarrati, come quelli di un folle.
Mosse alcuni passi. Al di là dello squarcio era tutta una rovina. Quello che era stato un tempo il corridoio delle prigioni non era altro che una montagna di macerie.
Passo dopo passo, con una lentezza esasperante, cercando di vincere la debolezza che lo pervadeva tutto, Sylbergius uscì dall’edificio che ormai non esisteva più, rivide la luce del sole e allora lo spettacolo di un’intera rovina gli apparve.
St. Pierre non esisteva più.
Tutto era stato distrutto. I cadaveri si ammucchiavano tra le macerie. Braccia, teste apparivano staccate dal resto dei corpi che si trovavano chissà dove.
La città era morta.
Il negro, il discendente dello schiavo che aveva lanciato la maledizione su St. Pierre e sulle generazioni venture stringendo alleanza con le potenze dell’Inferno, era l’unico superstite. Era rimasto solo.
Egli aveva rinnovato il patto. Tra cento anni St. Pierre avrebbe risubito il malefico cataclisma, puntualmente. Tra cento anni un discendente di Sylhering avrebbe rinnovato il patto infame.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Il terrore di St. Pierre” di Mario De Rentibus, apparso nel 1962 in “I Racconti del Terrore 5”, collana edita da Gino Sansoni Editore, e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

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Colui che non ti aspetti

Non sorridere al bambino dai riccioli d’oro; non toccare la sua guancia di porpora: il bambino dai riccioli d’oro è colui che non ti aspetti…

Era mezzogiorno in punto.
Un mezzogiorno afoso, come novecentonovantanove altri. E il signor Ashal non era tipo da perdersi a considerare il caldo o qualsiasi altra sfumatura del tempo. Si sarebbe stupito, ma non tanto, se quel mezzogiorno fosse stato freddo; quel mezzogiorno di ferragosto: non si stupiva più tanto di nulla, da quando gli uomini s’erano messi a lanciare certi ordigni nello spazio, anche con le bombe H inserite nelle capsule dei missili.
Per questo motivo il signor Ashal uscì lietamente dal suo ufficio. S’accomodò la cartella sotto il braccio e sgambettò allegramente, senza curarsi dei suoi cinquant’anni e della sua pancia piuttosto voluminosa, sul marciapiedi, a fianco di frotte di scolari che uscivano allora dalle lezioni.
Era un tipo distratto, Wewel Ashal. E si maledisse una volta di più. Si dette una forte pacca sulla fronte e si fermò di botto.
– L’appuntamento, mormorò, l’appuntamento: queste non sono cose da dimenticare…
E si avviò, con passo deciso, al Museo della Scienza.
Il vasto piazzale che dava all’ingresso del Museo, a quell’ora, era deserto. E il grande portone era chiuso. Ma lui non se ne curò. Proseguì del suo passo deciso e penetrò nel grande portale di noce, come se non vi fosse. Non si stupì minimamente di questo suo potere, il distratto Wewel Ashal; e quando il portone chiuso fu alle sue spalle, rimase immobile a osservare il limite del lunghissimo corridoio che gli si presentava.
Era curioso, quel dinosauro tuttossa che pareva sorridergli. E anche il ghigno di quell’uomo-scimmia imbalsamato, che lasciava intravedere esasperanti venature costrette dal tempo e dalla mano paziente dello scienziato.
Respirò due volte, e poi si compiacque dell’eco sinistro dei suoi passi, sul pavimento.
Camminò deciso verso il fondo e si trovò proprio al cospetto di un gigantesco Samurai scheletrito, raccolto con le forti ossa nella corazza, col teschio che gli sorrideva dall’elmo arrugginito. Qualche gioco di fili e di sostegni doveva permettere ai resti del valoroso guerriero di poter sostenere con tanta naturalezza, col braccio alzato nell’atto di colpire, la pesante, fredda scimitarra.
Lì si fermò. Consultò per un attimo l’orologio: mezzogiorno era passato da qualche minuto. « Pazienza, pensò; non sarà la fine del… ma si corresse subito, anche nel pensiero; pazienza, speriamo che non vi sia nulla di grave, per questo piccolo ritardo ».
L’altro, comunque, non aveva tardato. Ne sentiva la presenza, il buon Wewel Ashal, in quell’ambiente. Lo stesso diffuso odore di ciclamini, che s’era sparso attorno, impregnando l’aria e le cose, proprio come a casa sua, la sera prima.

***

Era rientrato stanco e aveva acceso subito il televisore, la sera prima, Wewel Ashal, mentre s’accingeva a riordinare le carte della sua borsa, sul tavolo dello studio, in casa sua. Aperse il mobile-bar e ne trasse la bottiglia di cherry, semivuota. Se ne versò un parsimonioso goccetto in un bicchiere pulitissimo e occhieggiante e prese a centellinarlo, con calma; con la solita calma, insomma.
« Il lancio della bomba H tramite la capsula di un missile THOR non è riuscito ». La voce dello speaker, alla televisione, era alquanto monotona.
« Gli scienziati hanno provveduto a disintegrare la carica esplosiva contenuta nella capsula e il missile è svanito al largo delle isole di Pasqua ».
Wewel ingoiò brontolando l’ultimo goccio e spense l’apparecchio con rabbia.
« Fate pure, fate pure: ci ammazzerete tutti, borbottò; tutti ».
« Buonasera ».
Wewel si voltò di scatto. La vocina gli era parsa timida e bianca. Non vide subito il bambino che era seduto comodamente nella sua poltrona preferita, quattro volte più grande di lui.
Era un bel bambino. Gli occhi celesti, una lunga veste candida, con un delicato fregio nell’orlagione, in stile romanico, un fregio d’oro. Aveva riccioli lunghi e curiosamente, piacevolmente disordinati. Un sorriso magnifico, magnifico.
– Chi sei? – chiese Wewel.
Il bambino continuava a sorridere.
E Wewel non s’accorse nemmeno che non gli rispondeva, rapito com’era nella contemplazione del suo bellissimo volto. Delle sue manine rosee, che giocavano leggermente con l’orlo consunto della vecchia poltrona.
– Sei un angelo?… Un angelo… Ho sempre pregato per vedere un angelo. E mi hanno mandato il più bello…
Così dicendo Wewel prese ad avvicinarsi alla bella creatura, che continuava a sorridergli.
– Non avvicinarti, gli disse severo il bambino; – è meglio che non ti avvicini.
Ma Wewel non lo ascoltava. Le mani protese, sfiorò la carnagione rosea del bambino, ma ritrasse subito, violentemente, le mani. Aveva percepito qualcosa.
E ora il bambino non gli sorrideva più. Aveva gli occhi fissi su di lui, in un cipiglio severo, e il colore della sua pelle andava sempre più macerandosi.
E Wewel inorridì. Inorridì di quelle rughe chiassose e profonde, di quelle vene macilente e di quelle piaghe che andavano lentamente imprimendosi, lentamente e inesorabilmente, sul volto del fanciullo.
– Ti avevo detto di non avvicinarti.
– Sei un angelo? – Lo chiese con minor convinzione, ora, Wewel.
Il bambino sghignazzò, volgarmente. Mentre la peluria andava coprendo le sue guance e le sue braccia.
Allora Wewel notò il pus che andava raggrumandosi e propagandosi, con violenza, su quella carne che un attimo prima era rosa.
– Un angelo?
Solo allora Wewel si accorse di quello strano intenso odore di ciclamini, che arieggiava intorno. Annusò. E respirò a pieni polmoni di quell’aria. Il bambino continuava a fissarlo, immobile, mentre le sue carni subivano quel crescente processo di macerazione.
– Sei ammalato… Sei venuto da me a farti curare, fanciullo?
Il ragazzo continuava a sghignazzare. Ora era in piedi. E pareva ancora più piccolo di prima, più minuto, con la testa enorme, macabra per quelle vene e quelle rughe disgustanti, che gli si piegava in avanti.
La sua mano si alzò, lentamente.
– Sono venuto a prenderti, maledetto uomo. Io sono la morte.

***

Il giorno dopo quella conoscenza, la mattina presto, Wewel si alzò e si recò fischiettando in ufficio.
« Strano tipo, quel ragazzo: chi l’avrebbe mai detto che la morte era così? ».
Ma non ci pensò poi tanto, Wewel, quella mattina, perché le pratiche dell’ufficio non permettevano distrazioni: tre giorni per preparare a dovere la relazione sulla distribuzione dei cementi ai cantieri del lato est della città.
E il suo dovere doveva e voleva farlo sino in fondo, anche se sarebbe morto a mezzogiorno di quella stessa giornata.
Mezzogiorno. Per quell’ora doveva trovarsi al Museo della Scienza, in fondo al primo corridoio, di fronte allo scheletro di un guerriero Samurai con la scimitarra in mano.
« Sarà chiuso, a quell’ora », aveva replicato.
« Non preoccuparti », aveva risposto il ragazzo – vecchio; « passerai per il portone chiuso. Perché sarai già virtualmente morto ».
Wewel aveva sorriso.

***

E ora si trovava lì, a osservare il ghigno del Samurai scheletrito, a domandarsi il principio di gravità che permetteva a quella grossa, abnorme scimitarra d’essere sorretta dalla mano di un morto. E ad assaporare il gustoso profumo di ciclamini, d’intorno.
– Salve.
Wewel si voltò.
– Devi scusarmi il ritardo, disse impacciato; – ma non sono abituato a queste cose.
Il ragazzo dal volto rugoso di vecchio sorrideva. Se quello poteva dirsi un sorriso.
– Ho sempre saputo – proseguì sempre più timidamente Wewel – che si morisse in un modo diverso, e che la morte fosse vestita di nero, con un cappuccio consunto sul cranio di una vecchia megera, con in mano una falce simbolica, che…
Parlava e parlava il buon Wewel. E il ragazzo vecchio sorrideva.
Non sapeva, Wewel, che dal giorno prima erano trascorsi milioni di anni.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Colui che non ti aspetti” di Peter C. Arnold, apparso nel 1962 in “I Racconti del Terrore 4”, collana edita da Gino Sansoni Editore, e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

Tutti i diritti riservati per immagini e testi agli aventi diritto ⓒ.




La mano mozzata

Il conte Hamon, durante uno dei suoi viaggi aveva avuto in Egitto l’occasione di curare un indigeno affetto da potentissime febbri malariche e di guarirlo. Questo indigeno, che si diceva discendente di una illustre famiglia di grandi sacerdoti della vallata del Nilo, gli regalò in segno di gratitudine, una mano di mummia tagliata al polso, che contava per lo meno tremila anni.
Era questo, egli disse a sir Hamon, il suo bene più prezioso, poichè quella mano apparteneva a una giovane principessa che era la settima figlia del predecessore immediato, del celeberrimo Tutank-Hamen.
La principessa un giorno si era ribellata al suo augusto genitore, il quale l’aveva condannata spietatamente a morte; poi, in aggiunta, ad aver mozza la mano.
Il suo corpo sarebbe dunque stato sotterrato nella famosa valle dei Re, mentre la mano, in segno di punizione esemplare, doveva correre il mondo attraverso i secoli e cadere in possesso di padroni tanto diversi quanto profani.
Così fu dunque.
Di mano in mano l’orrendo resto era finito in possesso di sir Hamon. Costui lo tenne per diversi anni presso di sè senza peraltro provare mai alcuna inquietudine.

IL RIPUGNANTE ARTO
La mano riposava in pace sul suo cuscino di velluto rosso. Era una manina che doveva essere stata di finezza squisita. Adesso, raccorciata, annerita e disseccata, dopo tremila anni, conservava il suo segreto in una rigidità di pietra.
Ma un brutto giorno la mano si mise a dare segni di una inverosimile agitazione.
Prima essa cambiò di posto sul cuscino.
Il conte Hamon la prese e constatò con spavento che le dita della mano si piegavano con flessibilità come quelle di una mano viva, o mozzata da appena qualche minuto…

MACCHIE DI SANGUE MISTERIOSE
Poi la mano assunse un colore più chiaro, ed un altro giorno, delle macchie di sangue apparvero verso il punto nel quale il polso era stato sezionato.
Il conte Hamon, atterrito, fece chiamare il suo notaio e un farmacista.
Il notaio verbalizzò tutti questi fenomeni in un foglio che sembrava dover legalizzare lo strano affare; e quanto al farmacista, egli compose subito una mistura di lacca e pece, nella quale immerse, seduta stante, la mano, per tentare di renderle tutta la rigidità che si addice ad una mano di tremila anni.
Infatti, la mano sembrò… calmarsi, tornando al suo stato di naturale rigidità.

MACABRA DECISIONE
A quell’epoca, sir Hamon abitava in una proprietà che egli possedeva in Irlanda.
Si sa che quel paese fu teatro di sommosse sanguinose, durante le quali i colpi d’arma da fuoco echeggiavano ogni notte intorno alla casa.
La battaglia fratricida infieriva: pertanto il conte Hamon pensò di ritornarsene in Inghilterra, come molti altri inglesi al pari di lui, e fece i preparativi per la sua fuga.
Nel disordine e nello scompiglio della partenza, dei bagagli da fare, delle disposizioni da lasciare, la piccola mano gli sembrò ingombrante e, una sera,
decise di bruciarla.
Per quanto gli sembrasse macabra quella decisione, gli parve la più sensata, specie dopo le manifestazioni di misteriosa vitalità date dalla mano in un passato tanto recente.
Nel focolare dove si distruggevano le carte inutili, la mano venne dunque gettata.

UNO SPAVENTOSO FENOMENO
Allora…
Allora si produsse ciò che lanciò sir Hamon in pieno soprannaturale, in un terrore indicibile.
La mano non aveva ancora raggiunto la fiamma del focolare, che la porta (sotto una spinta misteriosa) volò in frantumi in un assordante fracasso di vetri infranti.
Attraverso l’apertura spalancata, il parco apparve immerso nel chiaro di luna. E in quello stesso istante, sir Hamon e sua moglie, videro nettamente una strana apparizione.
Era una principessa da leggenda, vestita alla moda dei Faraoni, di stoffe dorate, ornata di gioielli scintillanti, il capo sormontato da un diadema formato da pietre stupende.
La strana figura prese forma gradualmente ed entrò nella stanza.
Il conte, nonostante il suo legittimo spavento, ebbe il tempo di notare che a questa apparizione insolita mancava, appunto, una mano. Quella mano!
Fu come un raggio di luna nell’enigma.
< È la principessa >, pensò, < che viene a cercare a sua bella manina >.
Ciò che essa fece, apparve, pertanto, quasi naturale: una cosa semplicissima.
Si abbassò con solennità maestosa e con la sua mano valida, prese dalle fiamme l’altra mano che era rimasta (certamente per un portentoso potere) magicamente intatta.
Ella sollevò allora le due mani alfine ritrovate, in una invocazione muta sulla testa.
Poi, in modo perfettamente inverso, con la stessa magicità con cui era apparsa, la visione sparì, non senza aver lanciato a sir Hamon, incapace di pronunciare una sola parola, uno sguardo piuttosto vendicativo. Evidentemente la principessa egiziana non poteva perdonare al gentiluomo inglese l’oltraggio di aver buttato la bella manina (o, meglio, ciò che della mano dopo tremila anni era rimasto) nel fuoco del grande camino.
Il conte e la contessa rimasero soli, costernati, in mezzo agli avanzi sparsi della porta e dinanzi al fuoco spento. Invasi da terrore superstizioso, essi non parlarono di questa romanzesca avventura, che molti anni più tardi.
Ma talmente straordinaria ed incredibile era stata la loro avventura che pochissimi credettero a loro.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “La mano mozzata” di Barbara Branduardi, apparso nel 1962 in “I Racconti del Terrore 4”, collana edita da Gino Sansoni Editore, e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

Tutti i diritti riservati per immagini e testi agli aventi diritto ⓒ.




Community Zero

«Dev’esserci un modo» dice Elena, senza staccare gli occhi dalla community delle macchine. Resta sempre a fissarla a lungo prima di tornare al monitoraggio quotidiano del flusso del codice. La sua ossessione ormai è penetrare quel mistero cibernetico che attanaglia l’umanità. E io pendo dalla sua saggezza, dal suo enorme talento.
«Qualche variazione oggi?» mi chiede, senza distogliere lo sguardo accigliato. È un quesito che mi coglie di sorpresa, conosce benissimo i report giornalieri delle analisi.
«Nessuna variazione» rispondo. Negli ultimi tempi il codice macchina è costante, compiuto. Non fluttua, non presenta deviazioni significative.
«Okay, grazie» conclude e si volta, come se finalmente avesse spezzato il legame invisibile con la perfetta mostruosità asserragliata là fuori. Esce dalla bolla d’osservazione col suo solito passo rigido e sicuro e se ne torna all’Istituto.
Mi soffermo anch’io sul panorama oltre i vetri rinforzati. Una severa nuvolosità incombe su quell’intrico di travi cromate e propaggini avvolte in un manto di fibre ottiche. Non finisce mai di inquietarmi, e ogni volta è come la prima. Il movimento di uomini e mezzi attorno alla community è incessante. I militari sembrano soldatini di piombo piazzati alla rinfusa da un bambino annoiato. Le barriere protettive di cemento non riescono a dissuadere le frotte di curiosi che cercano in ogni modo di sbirciare attraverso le crepe o di scattarsi selfie come possono.
Un’occhiata al mio Swatch blu e mi accorgo che s’è fatto tardi.
Rientro in ufficio per recuperare la borsa con i documenti, passo davanti alla porta di quello di Elena, provo a origliare. Non dovrei farlo, ma…
Silenzio. Come sempre. Che cosa sta facendo? Medita? Studia? Dorme? Non mi è dato saperlo. Lei è morbosamente attaccata alla sua riservatezza. Ora però… sta singhiozzando. Perché?
Non sono affari miei. Mi allontano imbarazzato, ma quell’evento inatteso mi ha scosso e rattristato. Sono stanco, lascio l’Istituto.
Come ogni sera Amalia è affaccendata con l’igiene personale di mamma, che saluto con un bacio sulla fronte. Di solito mi sorride, più spesso biascica nomi diversi dal mio. Quando il suo sguardo si fa assente, capisco che il morbo ha serrato il pugno su di lei, così me ne vado. Detesto riempirmi le narici dell’odore di detergente e medicinali che riempie la stanza. Sono fortunato ad aver conosciuto Amalia: la sua incrollabile dedizione mi aiuta a distogliermi dal lungo declino di mia madre.
Ceno con il solito panino vegetariano e mi rintano in camera. Prima il dovere, poi il piacere. La tentazione di immergermi in una partita a Pitfall o a Pac-man è fortissima ma l’enigma delle macchine non può aspettare. Mi getto a capofitto sulle telemetrie degli ultimi cinque giorni, alla ricerca di schemi o anomalie. Gli occhi mi bruciano per la stanchezza. In quel momento le note di Don’t You dei Simple Minds si spandono dall’iGlass; è Dennis che mi chiama per una birra al pub. Mi nego agli amici da più di due mesi. Mi stupisce che provino ancora a contattarmi. Rinuncio anche questa volta e proseguo.
Da un anno le macchine comunicano tra loro attraverso un protocollo wireless sconosciuto. Per il momento è stato impossibile decifrarlo, però riusciamo ancora a scomporre il flusso dati in codice Prolog. Questo significa dover registrare una gigantesca mole quotidiana di dati per poi ricompilarla in schemi coerenti che possiamo interpretare.
Perché da una settimana il codice è piatto? Ciò è preoccupante. Le macchine si autoprogrammano e si replicano assai velocemente… La quiete prima della tempesta?
Le colonne di blocchi esadecimali mi scorrono davanti, ipnotizzandomi. Sono alla ricerca di un frammento che sembra ripetersi. Non ho ancora parlato a Elena dell’ipotesi che mi si è affacciata alla mente, anche se è solo un’idea rudimentale, per ora. Sono davvero esausto, non ce la farei neanche a concludere una partita ad Asteroids. Resto altri cinque minuti, magari la fortuna mi assiste. Si tratta di un comando di sincronizzazione dei dati indirizzato alle singole periferiche del grande complesso autoreplicante. Se quel comando appare in un’iterazione più ampia, allora sono a cavallo. Devo scoprire se ogni community opera da sola o è parte di un’infrastruttura più vasta in fase di espansione. Questo aiuterebbe tutti i ricercatori del mondo a definire meglio l’architettura delle community per contrastarle e fermarne l’avanzata.
Le palpebre mi diventano pesanti. Forse è meglio fermarsi qui stasera. Continuare non porterebbe a nulla. Tolgo l’iGlass e corro a nanna.
Il risveglio è brusco. Un brutto presentimento si è impadronito dei miei sogni. È marzo e fa abbastanza freddo per il periodo, eppure sono zuppo di sudore. La penombra della stanza mi è sufficiente per arrivare in bagno. Mamma lancia delle urla; di solito a quest’ora del mattino ha una crisi di nervi. Mi getto acqua fredda in faccia, orino e la ignoro. Voglio dormire ancora, ma qualcosa mi spinge a riaccendere i digiocchiali. Sono le 6.12 del mattino, è l’alba. Arrivano due messaggi di Elena.

4:37
Violato Von Neumann

5:12
Maledizione rispondi

Le gambe mi diventano molli, soprattutto per il primo messaggio. Le macchine hanno violato il Paradigma di Von Neumann. Siamo nei guai. Mentre mi infilo goffamente i pantaloni chiamo Elena, ma è irraggiungibile. Provo con Patrizio, che mi risponde subito: «Lorenzo, finalmente. Qui è scoppiato un casino.»
Sul momento le parole mi s’incastrano in gola, poi riesco ad articolare una domanda. «Che sta succedendo?»
«La dottoressa Fabbri è al sito della community da più di un’ora» risponde Patrizio. «Abbiamo cercato di farla ragionare, ma sta per compiere una pazzia.»
«Che diavolo vuole fare?»
«Ha preso una UMC senza autorizzazione e…»
Dio santo, no! L’Unità Mobile di Connessione! Vuole suicidarsi, questo è sicuro. Devo andare da lei e fermarla. Mi metto un maglione e il giaccone, poi corro in cucina, dove fa capolino il caschetto biondo di Amalia. Sorseggia un caffè, in attesa di lavare mamma. Bevo un bicchiere d’acqua, la saluto e mi precipito in strada.
Disinserisco la guida assistita e attraverso i viali di Pisa, combattendo col solito, stramaledetto traffico. Ho il terrore di non arrivare in tempo. Finalmente la situazione si sblocca e affondo il piede sull’acceleratore, sbandando alla rotonda che dà accesso alla Superstrada. Col cuore in gola, arrivo a Gello e svolto per viale America. Parcheggio nei pressi della barriera di cemento, non lontano da un cellulare dei carabinieri, e scendo di corsa dalla macchina. La confusione attorno al sito della community è pazzesca. Due soldati in assetto da battaglia mi puntano un fucile contro prima di accertarsi della mia identità. Tiro fuori il tesserino dell’IIT e uno di loro mi fa passare, dopo averlo esaminato più del necessario. Entro nella bolla d’osservazione, ma Elena non c’è. Invece, addossati al vetro, trovo il direttore e Patrizio. All’improvviso Benedetti si gira e mi fissa in cagnesco. È scuro in volto, viene verso di me, non l’ho mai visto così infuriato. «Non ha voluto ascoltarmi» sbotta, allargando le braccia. «È impazzita.» Non so cosa dire, devo ancora rendermi conto della situazione. Mi accosto ai vetri e inorridisco quando scopro che Elena è là fuori. Indossa la tuta e il visore e fronteggia la massa metallica come un novello Davide contro un Golia cibernetico. Attorno a lei, una pattuglia di militari ha le armi spianate pronta a ogni evenienza.
Senza pensarci, mi lancio fuori dalla bolla e imbocco il tunnel che conduce allo slargo circondato dalla barriera di cemento. Il contrasto di temperatura tra interno ed esterno mi schiaffeggia la faccia. Tiro un profondo respiro. I soldati si voltano allarmati dalla mia parte. Due di loro puntano i fucili verso di me. Lei è a una ventina di metri, a pochi passi dalle prime propaggini meccaniche, e mi volta le spalle. Con le braccia disegna figure casuali nell’aria, come se stesse preparandosi a una danza propiziatoria. È la prima volta che qualcuno utilizza una UMC davanti ai miei occhi. Da quello che mi hanno riferito, il corpo dell’operatore dell’Unità riceve una marea di stimoli sensoriali capace di schiacciare la coscienza, se non opportunamente imbrigliata. E infatti, a momenti Elena barcolla, poi si riprende e ricomincia la danza. Mi avvicino con prudenza e la chiamo, ma lei non mi sente. La tuta e il visore la isolano e la connettono direttamente agli hot spot delle macchine. La notizia del brusco salto evolutivo deve averla sconvolta e indotta a compiere un esperimento folle. Percorro un paio di metri verso di lei e un militare coi nervi a fiori di pelle alza il fucile contro di me. «Fermo dove sei!» Tengo le mani ben in vista. «Sono l’assistente della dottoressa Fabbri. Non voglio causare problemi. Sono venuto per portarla via.» Il militare è interdetto, nervoso, ma mi fa passare, così come gli altri del plotone.
Ormai posso quasi toccarla. «Dottoressa.» Continua a ignorarmi, persa com’è nel bombardamento della realtà aumentata. Chissà dov’è la sua mente adesso. Chissà come soffre. Le tocco una spalla: Elena traccia di fronte a sé con l’indice due linee veloci poi finalmente si volta. Dietro il visore i suoi occhi sono strabuzzati e lacrimano. Ha la bocca socchiusa in un smorfia di stupore soffocato, dal labbro inferiore pende un filamento di saliva.
Temo per la sua vita. Prego Dio che non sia accaduto l’irreparabile. «Dottoressa, venga con me.» Le tendo la mano, mentre mi sale un groppo in gola. All’improvviso alza gli occhi verso un punto imprecisato del visore e comincia a tremare. Lancia un urlo, sta per svenire. Mi slancio per sorreggerla e lei si abbandona tra le mie braccia.
«Soccorso!» grido a pieni polmoni. Quattro militari si avvicinano e mi aiutano a sostenerla. Le sfilo il visore e le scosto i capelli dalle palpebre serrate. Il suo volto è preda di un tormentato stordimento; respira con affanno e mugola suoni incomprensibili. Dopo qualche minuto arriva un’unità medica. Il dottore, assieme a un robusto infermiere, esegue una rapida diagnosi delle condizioni di Elena poi chiede ai militari un aiuto per adagiarla su una barella.
La portano via. Voglio piangere, ma trattengo le lacrime. Non intendo restare un minuto di più in presenza di quelle maledette macchine, così, senza voltarmi, mi allontano a passo svelto.
All’ingresso del tunnel incontro il direttore, accigliato e intento a mordicchiarsi le unghie. Ci scambiamo uno sguardo carico d’angoscia. «Dove la portano?» gli chiedo.
«Al Cisanello» risponde lui con un filo di voce. «L’avevo avvertita. Non sono riuscito a fermarla.»
Vado via lasciandolo al suo senso di colpa e decido di raggiungere Elena.
Nei pressi dell’ospedale c’è un insolito viavai di automobili. M’invento un parcheggio di fortuna e mi affretto all’accettazione del Pronto Soccorso. Gli infermieri e i medici sono tutti occupati con le emergenze e ci sono tanti pazienti intorno a me che ancora aspettano che qualcuno dia loro retta.
Non so a chi rivolgermi. Sono sull’orlo della disperazione. Tento l’ultima carta. Individuo un soccorritore affaccendato con le attrezzature dell’ambulanza, forse è stato lui a portare la barella all’interno. È un uomo esile dai lineamenti duri, enfatizzati da una barba folta e corvina. Nonostante la temperatura non proprio primaverile, la sua divisa è a mezze maniche.
«Scusi…» faccio per attirare la sua attenzione.
Si gira e mi guarda come se un cane gli stesse pisciando sulle scarpe. «Prego.»
«Sto cercando, la dottoressa…» All’improvviso i pensieri s’ingarbugliano e le parole s’inceppano. «Ehm… Cerco Elena Fabbri, ricercatrice dell’Istituto… mmm… C’è stata un’emergenza alla community delle macchine…»
«Neurologia» mi risponde in modo spiccio, poi mi dà le spalle e comincia ad arrotolare il tubicino di un respiratore.
Mi si gela il sangue nelle vene. I ricordi di papà mi assalgono come un fantasma riapparso in una casa abbandonata. Percorrere di nuovo quei corridoi e quei reparti m’irrigidisce i muscoli, mi stringe lo stomaco, ma devo andare.
L’edificio non è molto lontano dal Pronto Soccorso. Seguo le indicazioni e, giunto nei pressi dell’ingresso della corsia, un infermiere tarchiato e brizzolato mi ferma. «Chi è lei, mi perdoni?»
Deglutisco saliva amara. «Sono l’assistente della dottoressa Elena Fabbri, so che è stata portata qui.»
«Mi dispiace, nessuna visita per ora.» L’uomo è fastidiosamente categorico. «Uno specialista la sta visitando. Torni più tardi, grazie.»
«Ma io…»
«Dalle 18 in poi potrà venire a trovarla, se ci daranno l’autorizzazione per le visite. Arrivederci.» Dopo avermi congedato, sparisce in una stanza della corsia.
Mi guardo intorno, mi sembra di essere stato abbandonato in un deserto. Come sta Elena? È grave? Si riprenderà? Cosa le stanno facendo?
Esco dall’edificio, recupero l’auto e mestamente prendo la strada di casa.
Apro il portone e già sento mamma che urla parole confuse. Mi affaccio in camera da letto. Amalia sta cercando di darle il suo Lexotan. Mamma si ribella, poi all’improvviso mi nota, si sforza di riconoscermi e mugola qualcosa. Amalia mi vede, mi saluta. «Lorenzo, ciao! Com’è andata oggi?»
Fisso il pavimento tirato a lucido; come rispondo? «Uno schifo.»
«Mi dispiace» si rammarica lei. Poi sorride. «Sai che Anna mi ha raccontato di quella volta che avete fatto un giro in barca al Lago di Como?»
Che palle quella storia. Non mi entusiasma per niente. «Bene. Facciamo progressi.» E non aggiungo altro. Mi rintano nella mia stanza. Non ho fame. Mi coglie l’impulso di riguardare gli appunti sulle strutture di Von Neumann ma non li trovo da nessuna parte. Ho perso giorni di lavoro. ‘Fanculo. Mi sdraio cinque minuti sul letto, mi sento uno straccio. Ho il cervello in subbuglio per il tormento dell’ansia.
Mi sveglio di soprassalto. Sono crollato senza rendermene conto. Quanto ho dormito? La sveglia sul comodino segna le 18.15. Dannazione, sono in ritardo. Non perdo tempo: mi rimetto il giaccone e mi tuffo nel traffico.
Le strade sono intasate. Il sole è tramontato già da un po’, la luce azzurrina degli smartLed accarezza le strade col suo tocco variabile. Con un primo giro del parcheggio non trovo mezza piazzola libera. Al secondo giro, una Toyota bianca fa retromarcia e io ne approfitto. Scendo e accelero il passo. Spero di arrivare prima che chiudano le corsie ai visitatori, ma soprattutto mi auguro con tutto me stesso di rivedere Elena.
Sono quasi le 19. Chiedo indicazioni a un’infermiera, percorro velocemente il lungo corridoio scansando capannelli vocianti di parenti e amici dei degenti. Stanza numero 32. Eccola. Mi fermo prima di entrare. Il cuore mi batte all’impazzata. Tiro un profondo respiro e varco la soglia. Un odore di disinfettante m’investe in pieno. Sbatto le palpebre come per scacciarlo poi individuo il letto con le lenzuola bianche. Elena ha gli occhi chiusi, riposa con una mascherina dell’ossigeno. Ha dei sondini alle braccia. Da una flebo quasi vuota, stillano gocce di un liquido biancastro. Mi avvicino in silenzio, come farebbe un pellegrino al cospetto di una reliquia sacra. C’è una sedia di plastica più in là, accostata a un tavolo di fòrmica marrone. Mi sistemo di fianco al letto. Accarezzo la mano sinistra di Elena. È fredda e liscia come la seta. Sono sollevato ma non ancora tranquillo.
Vorrei che si svegliasse e mi facesse un cenno… mi basterebbe un sorriso.
Apre gli occhi, si gira dalla mia parte. Ci mette un po’ a riconoscermi. Prova a muovere le labbra ma è visibilmente provata. Scuoto la testa per farle capire che non deve sforzarsi. Il sibilo del respiratore aumenta mentre lei inspira altro ossigeno dalla riserva. Sfila la mano dalle mie, con l’indice si abbassa la mascherina.
«No, ma cosa fa?» mi allarmo.
«Non ti preoccupare» riesce a dire, con affanno. Fa dei lunghi respiri come per testare la tenuta dei polmoni, poi mi guarda di nuovo.
«Dottoressa, come si sente?» le domando preoccupato.
«Ho avuto giorni migliori» risponde e sorride.
«Mi ha fatto prendere un bello spavento» la rimprovero. «Temevo davvero che fosse successo qualcosa di…»
«Non importa» minimizza lei. «Sono viva. E per una volta, al diavolo le formalità! Chiamami Elena e dammi del tu.»
Se solo sapesse che dentro di me l’ho sempre fatto! Sono imbarazzato. È la prima volta che mi concede questa libertà. Sembra una persona diversa. Il lato ombroso del suo carattere si è dissolto dopo la connessione con le macchine.
«Ti ringrazio per la visita» continua, dopo una breve pausa.
«Si figu… Figurati. Ero in ansia e non me la sentivo di restare a casa.»
«Chissà la faccia di Benedetti» dice ed emette un suono a metà tra una risata e un colpo di tosse.
«A dire il vero, era preoccupato anche lui» la informo. Ometto il particolare del senso di colpa. «Ma che è successo al sito della community?»
Cerca il mio braccio e fa forza per tirarsi a sedere in una posizione più comoda. «Ero stufa di rincorrere cifre nell’attesa che le macchine facessero qualcosa di diverso, così, dopo il nuovo salto evolutivo, ho deciso di prendere il toro per le corna.»
«Hai corso dei rischi troppo grandi.»
«Vero. Ma la scienza non va forse avanti in questo modo? E poi sono stata illuminata dai tuoi appunti…»
Ecco dov’erano finiti.
«Sorpreso? Li ho trovati per terra, nei corridoi dell’Istituto. Sei stato bravo. Hai avuto un’intuizione geniale.»
Non so perché, ma il complimento non mi inorgoglisce per niente. «Che cos’hai scoperto?»
Sorride ancora, poi diventa pensierosa. «Il Paradigma di Von Neumann non è stato violato» rivela.
«Non capisco. In che senso?» Sono sbalordito dalle sue parole.
«Pensavo che la community avesse migliorato la sua programmazione assemblando nuovi replicanti più evoluti dei precedenti, come fa sempre, del resto. Mi aspettavo che le istruzioni venissero impartite dal nucleo centrale, e invece la potenza di calcolo è stata delocalizzata. Questo mi ha spiazzato.»
«Elena, dimmi cosa stanno facendo le community.»
Non mi risponde subito. Ha bisogno di riprendere forze e fiato. Resto in attesa di altre rivelazioni, il cuore mi batte di nuovo a mille.
«Le macchine hanno scoperto come ampliare la scala della loro programmazione» spiega. «Ogni community del mondo è diventata la periferica di un immenso nucleo di elaborazione nascosto da qualche parte sul pianeta. Io l’ho battezzata community zero, l’origine di tutto.»
Sono senza parole. Mi viene in mente almeno una dozzina di implicazioni terrificanti, tra queste uno scenario futuro apocalittico. «Cosa vogliono le community?» Non so nemmeno se è la domanda giusta.
«La perfezione, Lorenzo» risponde Elena, con una strana luce negli occhi. «Le community stanno facendo esattamente ciò per cui sono programmate: migliorano, progrediscono all’infinito. E non si fermano.» Appoggia la testa sul cuscino e scruta il soffitto, come se invisibili propaggini meccaniche fossero sospese a pochi metri da lei. «Siamo creature limitate. La connessione che ho instaurato con le macchine mi ha permesso di spiare attraverso il buco di una serratura. C’è qualcosa di enorme oltre la porta. Qualcosa di enorme. E noi non possiamo comprenderlo.»
Provo una fastidiosa vertigine mentale. Un vorticoso senso d’inquietudine mi sta trascinando via. Il suo volto si fa cupo, Elena torna a essere la persona ombrosa che ho conosciuto sin dal principio. Perché ho la sensazione che mi nasconda qualcosa?
«Devo tornare là dentro» dice all’improvviso. «E tu mi aiuterai.»
Sono spaventato da quelle parole. Provo l’impulso di alzarmi e lasciarla sola per un po’, eppure resto incollato alla sedia.
Elena stringe le palpebre come per sopprimere ondate di dolore giunte all’improvviso. «C’è un deposito negli scantinati dell’Istituto» dice, con un’espressione determinata. «Solo cinque membri sono autorizzati ad accedervi. Lì sotto è conservato un dispositivo di backup a trasmissione neurale. È un vecchio esperimento che è stato cancellato dal consiglio scientifico più per paura che per mancanza di fondi.»
Medita un’altra pazzia, stavolta peggiore della prima. Il mio compito adesso è dissuaderla e impedirle di ammazzarsi per davvero. Quell’apparecchio è solo una leggenda, a quanto ne so. «Ma il dispositivo è stato smantellato. Patrizio una volta mi ha detto che il progetto è stato chiuso perché un ricercatore è impazzito dopo un paio di minuti di trasmissione neurale» le suggerisco, sperando che si sia sbagliata.
«È tutto vero, invece. Ed è perfettamente funzionante» risponde, sicura di sé. «Stasera uscirò dall’ospedale ed effettuerò un trasferimento della mia mente nella community.»
Nella stanza irrompe un’infermiera dal volto rotondo e dai modi sbrigativi che indossa digiocchiali neri, di un modello che non ho mai visto. «L’ora delle visite è terminata. Parenti e amici sono pregati di lasciare la stanza.» Poi nota che la paziente non ha più la mascherina, si avvicina e con poco riguardo gliela risistema sulla faccia. «Non ci provi più» ammonisce, alzando un indice accusatore. Se ne va a passo lesto.
Elena parla attraverso la mascherina; forse le serviva riprendere un po’ di fiato. «Fra un’ora mi farò trovare nell’atrio. Non sarà facile passare inosservata, dopotutto sono una sorvegliata speciale, però fai in modo di esserci.»
«Non sono sicuro che sia una buona idea» obietto. «Anzi penso che sia pericoloso e stupido.»
«Devi aiutarmi, Lorenzo» insiste lei. «Quando questa vicenda sarà finita, capirai, ma credimi, è importante.»
Questa cosa va contro ogni etica professionale, contro il buonsenso. Se decido di aiutarla, le conseguenze saranno terribili. D’altro canto però lei è una scienziata eccezionale e da due anni è il mio faro; senza di lei non sarei dove sono.
«Ti prego» insiste lei. «Non te lo avrei mai chiesto se non fosse importante. So che ci tieni a me, l’ho sempre saputo. L’ho capito, sai?»
Mi sento avvampare il viso come un bambino scoperto a compiere una marachella. Sono così trasparente? Tengo gli occhi bassi e mi accorgo che c’è una parte di me che sarebbe pronta a sacrificarsi per la sua salvezza. Sono sul punto di rivelarle che detesto mia madre – odiosa anaffettiva! – e che vorrei che lo diventasse lei, ma mi mordo la lingua e scaccio dalla mente quel desiderio assurdo. Alla fine la guardo e nei suoi occhi stanchi leggo una supplica silenziosa.
«Ho paura» riesco a dire.
«Non sarà facile per nessuno» ribatte lei. «Ma credimi, c’è in gioco molto più di quanto immagini.»
La decisione mi costa tantissimo. Sto per lanciarmi per la prima volta con un paracadute in un precipizio nebbioso. «Va bene. Ti aiuterò.»
«Grazie» esulta Elena. «Ma adesso va’. Ci rivediamo tra un’ora.»
Mi affretto a lasciare l’ospedale. Approfitto per bere una Coca. Mi rintano in macchina per ascoltare un po’ di musica. Interrogo lo Swatch almeno un centinaio di volte, poi finalmente è il momento di tornare. Eccola, poco distante dall’atrio che mi fa dei cenni urgenti. Ha addosso un plaid azzurro per proteggersi dal freddo della sera. L’aiuto a salire in macchina. Metto in moto e parto a razzo.
Nell’abitacolo restiamo in silenzio. Forse non è il caso di aggiungere nulla. Sono teso e ho paura. Paura di farle del male, paura di fallire, paura di non essere all’altezza. Percorro tre volte l’anello di Piazza S. Silvestro e parcheggio su un marciapiede di fronte alla pineta. Aiuto Elena a scendere e ci dirigiamo all’Istituto. L’accesso al deposito si trova in un vicolo di Via degli Artigiani. Superiamo una sbarra chiusa e percorriamo un’altra decina di metri. Elena è sfinita, devo sostenerla spesso per impedirle di accasciarsi, ma è determinata a non mollare. Ecco l’ingresso dello scantinato. Elena si fa forza e accosta la faccia allo scanner retinico. Sul display compare la scritta verde ACCESSO CONSENTITO. La porta metallica si spalanca con un cigolio. Ci sono degli scalini, e li scendiamo con prudenza, uno alla volta. Tiro fuori dalla tasca del giaccone l’iGlass e attivo la torcia incorporata. L’ambiente, che sa di muffa e di stantio, è ingombro di scatoloni e oggetti coperti da cellophane incrostato di sporco. Il freddo mi penetra nelle ossa.
Elena annaspa in quel labirinto polveroso ripetendo: Dov’è… dov’è… dov’è… Mi fa cenno di illuminare una specifica area. Mi avvicino a lei. Noto una poltrona con attorno diversi macchinari e un’asta di un metro e mezzo con una striscia traslucida che pende dall’alto della sua estremità.
«Eccola» esclama Elena. «E ora, l’interruttore generale.» Si fa scivolare di dosso il plaid e si inoltra nella penombra. Subito dopo sento un clic. All’improvviso la sala viene inondata di luce. Elena torna verso la poltrona. I macchinari si animano con ronzii elettrici e ticchettii meccanici. Ci sono degli schermi che cominciano a visualizzare sfilze di cifre e grafici. Elena si accomoda sulla poltrona. Sembra posseduta da una frenesia incontrollabile. «Aiutami» mi ordina. Riluttante, imito i suoi movimenti e allontano la striscia dall’asta.
«Fai aderire la fascia neurale a quella porzione di velcro sullo schienale.»
Eseguo.
«Benissimo» si compiace. Poi alza la testa. «Ascoltami bene. Nel momento in cui attiverò la procedura, non potremo più tornare indietro. Non mi resta che rimodulare il protocollo di trasmissione per riaprire i vecchi canali a fibra ottica con la community. Qualunque cosa accada, voglio ringraziarti dal profondo del cuore per essere stato il mio assistente… Il migliore che io abbia mai avuto.»
Gli occhi mi si inumidiscono, il cuore mi si stringe. «Elena, questo non è un addio.»
Sorride, forse per l’ultima volta. «Non lo è.» Da un vano nel bracciolo estrae un visore e se lo calca sulla testa. Traccia con le mani strane figure nell’aria, poi si ferma. Sospira e digita brevi comandi su un tastierino luminoso che ha preso vita all’improvviso sull’altro bracciolo. «Pronti» decreta. «Tre, due, uno… Trasmissione.»
Il suo corpo si irrigidisce all’istante, come quello di un condannato a morte su una sedia elettrica. Micidiali convulsioni sconquassano braccia e gambe, mentre gli occhi roteano alla disperata ricerca di punti di riferimento. Dalla sua bocca erompono mugolii di sofferenza che, a tratti, diventano acuti. Sono terrorizzato. Pronuncio il suo nome, vorrei aiutarla, vorrei spegnere tutto e salvarla, ma sono pietrificato. Assisto sconvolto a quella tortura mortale.
Dai lati della bocca le colano rivoli di saliva. La lingua saetta più volte tra le labbra masticate dai denti. Tre minuti di orrenda sofferenza. Poi il supplizio finisce. Elena si affloscia senza più forze. Linee di sangue le solcano il mento. Mi fiondo su di lei, le controllo il polso, le accarezzo il viso, mi accerto che respiri ancora. Non c’è più, niente da fare. È morta.
Ogni particella del mio essere precipita nella disperazione. Piango come non ho mai fatto in tutta la mia vita. Sono perduto. Sono morto anch’io con lei. Mi allontano dalla poltrona, da quel maledetto macchinario che l’ha uccisa. E anche io l’ho uccisa, con la mia scellerata decisione! Mi lascio cadere su uno scatolone e piango piango piango, ancora e ancora, non so per quanto tempo. Tossisco. Mi viene da vomitare. Mi sento svenire. Sto malissimo, mi manca il respiro.
Il rumore dei miei singhiozzi copre i Simple Minds che cantano dai miei digiocchiali. Non credo alle mie orecchie. Al diavolo, chiunque tu sia! Ma la suoneria insiste. Recupero il dispositivo. Intravedo nella trasparenza delle lenti un volto. Inforco i digiocchiali. Mi appare Elena. È bellissima, trasfigurata, rigenerata in una visione dalla nitidezza sovrumana. Appare serena, placida, come un’anima che abbia raggiunto la pace divina. «So che hai un milione di domande da farmi» dice con voce calma e melodiosa, «ma risponderò a una sola. Perché l’ho fatto?»
La ascolto in silenzio. Il cuore mi batte come un tamburo nel petto. Sono alla deriva in un spazio siderale di sollievo e tristezza.
«Quando perdi un figlio, sei disposta a tutto pur di riaverlo.»
Adesso capisco perché piangeva nel suo ufficio; il dolore della perdita non le dava tregua.
«Due anni fa mio figlio Davide se n’è andato per una leucemia che non è stata diagnosticata in tempo. Da quel giorno la mia vita è andata in frantumi. Mio marito mi ha lasciata per il senso di colpa. Non mi era rimasto che il lavoro. Poi è arrivata la crisi mondiale delle community e ho trovato una ragione per andare avanti.
«Non passa giorno in cui non pensi a lui. Forse potrò riabbracciarlo. Ho trovato una soluzione. Sei ore e dodici minuti fa, le macchine hanno concluso l’estrazione di tutta l’energia geotermica di cui avevano bisogno. Da due ore hanno trasceso la materia e fra cinque domineranno il tempo. Se tutto va secondo le mie proiezioni, le community compiranno il primo salto temporale al 21 gennaio 2037…»
… la data di inizio della crisi. Il giorno in cui una periferica industriale è stata migliorata e programmata da un’altra periferica, spontaneamente. Il primo mattone delle community.
«Le macchine perseguiranno all’infinito l’obiettivo primario: perfezionarsi. Torneranno indietro e miglioreranno quei prototipi.
«Ora dispongo di una potenza di calcolo illimitata. Ho potuto esaminare per intero la loro macrostruttura e ho scoperto l’origine di tutto… La community zero è nascosta nel megacomplesso autoreplicante sviluppatosi dai data center di Facebook, in Svezia.»
Incredibile! Così tutto ha un senso: in un impianto tanto esteso ed evoluto una macchina può generare migliaia, forse milioni!, di teraflops di capacità elaborativa. L’inquietudine mi sta abbandonando, lasciando il posto allo stupore travolgente del ricercatore.
«Guarda i notiziari, Lorenzo, ci saranno importanti novità. Il mondo andrà incontro al cambiamento… positivo, negativo, non mi è ancora dato saperlo, dipende da quanto l’umanità sarà disposta ad accettarlo. Ad ogni modo, sarà la mia occasione per cercare Davide. Tornerò anch’io indietro, per lui.»
Elena smette di parlare e per la prima volta da quando mi è apparsa rigenerata, si acciglia, come se fosse a disagio. «Tuo padre sarebbe molto orgoglioso di te. Sarai un ottimo direttore scientifico.»
Resto a bocca aperta. «Come fai a sapere di mio padre?»
Sorride. «Ho assorbito le informazioni di ogni abitante della terra. In questa nuova condizione, nulla mi sfugge.» A un tratto si volta, attirata da un segnale luminoso appena percettibile ai bordi del campo visivo. «È giunto il momento, devo andare. Addio, Lorenzo. Forse ci rivedremo da qualche altra parte. È stato un onore conoscerti.»
«No, aspetta!» Tento di fermarla: non può lasciarmi di nuovo. Ma stavolta è vero. La comunicazione si interrompe per sempre.
Elena, dove sei?
Esco dal deposito dell’Istituto, il mondo mi gira intorno, indifferente, ignaro, per ora. Chiedo all’iGlass di mostrarmi i notiziari in onda in questi minuti. Le normali trasmissioni on line sono state interrotte per dare spazio alle edizioni straordinarie.
Le community sono scomparse.
Buona fortuna, dottoressa.

Racconto finalista al Premio Kipple 2018 pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

L’AUTORE
Emiliano Maramonte è nato a Lucera (FG), il 13 febbraio 1974. Svolge l’attività di consulente informatico. Scrive sin da bambino, ma è dal 1999 che si dedica alla narrativa con impegno costante. Ha all’attivo numerose partecipazioni a raccolte di racconti e antologie e ha scritto cinque romanzi. È stato finalista alla prima edizione del Premio Urania Short (Mondadori, 2017), al Premio ShortKipple (Kipple Officina Libraria, 2018) e al Premio Robot 2022. Da qualche anno si diletta con contest e tornei letterari online e partecipa a vari progetti editoriali. Fa parte del Collettivo Immaginario Fantastico, col quale ha pubblicato le antologie “Atterraggio in Italia“, “2050 – Quel che resta di noi” e, in veste di curatore, “La nave dei folli”, tutti usciti per Delos Digital. Nel 2022 ha vinto il Premio Urania Short.

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Principessa di avorio e di ebbrezza

Era una sdegnosa e fredda figlia di re: sedici anni, occhi grigi, e così bianca che le sue mani si sarebbero dette di cera e le sue tempie di perle.

Figlia di un vecchio re guerriero, sempre occupato in lontane conquiste, lei era cresciuta in un convento in mezzo ai sepolcri dei re della sua stirpe e la sua prima infanzia era stata curata dalle monache.

Il convento in cui ella aveva passato i sedici anni della sua vita, era situato nell’ombra e nel silenzio di una foresta secolare. Era un luogo severo, al riparo dalle vie e dal passaggio dei boemi, e nulla vi penetrava tranne la luce del sole e anch’essa vi arrivava indebolita attraverso la spessa volta del fogliame delle querce.

Al vespro, la principessa usciva dal recinto del monastero e passeggiava lentamente scortata da due file di suore in processione. Era seria e pensierosa, come oppressa dal peso di un segreto ed era così pallida da far pensare che sarebbe presto morta.

Una lunga veste bianca e grandi trecce d’oro. La principessa era bionda come il polline dei gigli e il vermeil dei vasi d’altare.

Intorno a lei, in aprile, le scarpate si riempivano di fiori di primavera e di foglie morte nell’autunno che parevano coperte di sangue. E, sempre fredda e pallida nella sua veste di bianca, in aprile come in ottobre, nel giugno ardente come in novembre, la principessa passava sempre silenziosa ai piedi delle querce rosse o verdi.

D’estate, teneva in mano dei grandi gigli bianchi nati nel giardino del monastero; e la principessa era anch’essa così fragile e bianca che la si sarebbe detta loro sorella.

In autunno invece, ella tormentava fra le sue dita i fiori della digitale violacei colti lungo i margini della radura, e il rosa malato delle sue labbra assomigliava al porpora vinaceo di quei fiori. E, cosa strana, ella non strappava mai i petali delle digitale ma continuava a baciarli; mentre invece le sue dita trovavano piacere nel lacerare i gigli. Un sorriso crudele appariva allora sulla bocca della principessa e si sarebbe detto che compiva qualche rito oscuro che corrispondeva a qualche azione lontana. Era infatti una cerimonia d’ombra e di sangue.

Ad ogni gesto della principessa vergine erano legate le sofferenze e la morte di un uomo. E da ciò il suo sorriso quando baciava la digitale o distruggeva i gigli tra le sue belle dita lente. Ogni giglio sfogliato era un corpo di principe o di giovane guerriero colpito nella battaglia. E ogni digitale baciata era una ferita aperta, nel sangue di un cuore.

Da quattro anni ella conosceva l’incantesimo e prodigava i suoi baci ai velenosi fiori rossi, e massacrava senza pietà i bei gigli candidi, dando la morte con un bacio, prendendo una vita con una stretta.

Ogni sera il cappellano del convento, un vecchio monaco cieco, riceveva la confessione dei suoi peccati e la assolveva; poiché i peccati delle regine dannano soltanto i popoli e l’odore dei cadaveri è un incenso ai piedi del trono di Dio.

NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. Jean Lorrain, pseudonimo di Paul Alexandre Martin Duval (1855 – 1906), autore francese poco conosciuto in Italia è stato un poeta e scrittore e uno dei più scandalosi personaggi della Belle Époque. Apparso nel 1902 Principessa di avorio e di ebbrezza è un piccolo gioiello, un’opera influenzata dalla pittura perversa del periodo e pubblicato per la prima volta in italiano su Planet Ghost.

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