Apri gli occhi di Nicola Lombardi

Il trillo si fece largo, a poco a poco, fra le nebbie informi e pastose del sogno, come una grossolana punta di trapano contro un muro che resiste ai primi cauti assalti, ma che poi, inevitabilmente, si sfalda in un vortice polveroso. Le palpebre di Vanni si sollevarono di scatto, lasciando che le pupille si colmassero di quel buio gremito di puntolini colorati di cui la stanza sembrava pullulare. Colpi ritmici e concitati riverberavano attraverso il materasso per risalire a rimbombargli nelle orecchie, come se il suo cuore fosse cucito all’interno del cuscino. Cosa lo aveva svegliato?

Tutte
le illazioni che gli erano fiorite nella testa durarono il tempo
intercorso fra l’affievolirsi di uno squillo e l’esplodere del
successivo. Nel silenzio che stagnava nella casa, quel suono
metallico, perentorio, aveva il potere di  penetrare fino in fondo
all’anima, affogandola in una paura senza nome. Il telefono? A
quell’ora? Ma del resto, che ore erano? A Vanni pareva di essersi
appena coricato, ma sapeva che la percezione del trascorrere del
tempo notturno l’aveva sempre ingannato.

Altri
squilli, insistenti. Voltò il capo verso la moglie, distesa al suo
fianco sotto due strati di coperte, quasi potesse vederla in
quell’insondabile oscurità. Meglio alzarsi, prima che Lucia si
svegliasse. Poveretta, non stava molto bene. Doveva essersi presa una
brutta influenza. Le aveva misurato la temperatura, prima di mettersi
a letto. Trentotto e quattro. Non eccessiva, per una persona di
robusta costituzione. Ma abbastanza debilitante per una donna che
sfiorava l’ottantina. Vanni era stato tentato di chiamare la
guardia medica, però Lucia stessa gli aveva detto di lasciar stare:
ci avrebbero pensato il mattino dopo, se già una buona tisana e una
notte di sonno non avessero provveduto a rimetterla in sesto.

Ma
quel telefono, maledizione!… Non accennava a placarsi. Doveva
essere qualcosa di veramente urgente.

Se
avessero avuto figli, allora avrebbe pensato senz’altro a qualche
preoccupante emergenza da parte loro; ma non avendone, proprio non
gli riuscì di immaginare chi potesse chiamarlo quando ancora non si
vedeva un solo pallido accenno di luce filtrare tra le fessure delle
tapparelle.

Di
malavoglia, facendo appello a tutte le forze che il suo corpo ossuto
poteva racimolare dopo quel brusco risveglio, Vanni spinse le gambe
fuori dalle coperte, infilò i piedi nelle pantofole – che metteva
sempre nello stesso punto, così da ritrovarle subito con geometrica
precisione, anche senza vederle – e si consegnò all’aria fredda
che gli gelò il velo di sudore fra pelle e pigiama.

Il
percorso fino alla porta era un tragitto sicuro. Otto passi (tre a
destra, ancora tre a destra, e due a sinistra). Quindi allungò la
mano, e la maniglia ripose fedele alla sua stretta. Aprì, scivolò
nel corridoio, e subito si richiuse la porta alle spalle, prima che
un nuovo trillo si infilasse nel pertugio per volare addosso a Lucia
e strapparla al sonno.

Ora
il suono era decisamente più forte, e Vanni lo sentì rimbalzare
dentro il cranio, da un lato all’altro, come una pallina di gomma.
Sbuffando, avanzò di cinque passi facendo strisciare i polpastrelli
della mano destra lungo la parete (non troppo in alto, per evitare di
colpire un quadretto posizionato esattamente a metà del percorso).
Una volta raggiunto    il salottino, lasciò che le dita
trovassero l’interruttore, schermandosi con l’altra mano gli
occhi per proteggersi dal giallore elettrico che gli piovve addosso
dal lampadario. Subito sprofondò nella sua poltrona. Accanto al
tavolino rotondo. Quello sul quale il grosso telefono grigio lo stava
chiamando. Gli squilli lo rintronavano, doveva interromperli
all’istante. Sollevò ansante la cornetta e se la portò
all’orecchio.

«Sì,
pronto…?» rantolò.

All’altro
capo udì dapprima solo un fruscio ronzante. Attese qualche istante,
poi riprovò: «Pronto? Chi è?»

Allora,
in mezzo al brusio crepitante generato da un disturbo sulla linea, si
fece strada una voce. Confusa, all’inizio. Quasi impercettibile.
L’uomo aggrottò la fronte, stringendo più forte la cornetta come
se la pressione delle dita potesse migliorare la qualità della
comunicazione.

«Vanni…
caro…
»
udì. «Sono
io…
»

Il
cuore mancò un battito. «Pronto?» disse ancora, sentendosi
inevitabilmente stupido. «Chi parla?» Una parte del suo cervello –
quella che solitamente non gli piaceva ascoltare, perché aveva quasi
sempre ragione – aveva riconosciuto quella voce. Però non era
possibile. Nella maniera più assoluta, non
era possibile
.
Per cui, rimase aggrappato con tenacia al proprio lato più
razionale, nonostante lo sentisse particolarmente fragile, a
quell’ora della notte.

Ma
il soffio freddo della paura articolò due semplici parole che la
cornetta scoccò a trafiggergli il cervello. «Sono
Lucia
».

A
quel punto Vanni si ingobbì sulla poltrona, afflosciandosi come un
sacco di sabbia gettato in un angolo. «Cosa… come…?»

Tra
le scariche elettrostatiche, la voce di donna all’altro capo
continuò a infierire, seppure con infinita dolcezza. «Sono
Lucia, amore. E sono morta. Mi dispiace. Davvero tanto, mi dispiace.
Ma ti volevo parlare un’ultima volta. Ti volevo avvisare…
»

Vanni
aprì e richiuse le labbra più volte, sentendosi immerso in un’aria
sempre più densa. Un calore innaturale aveva costretto ogni poro
della sua pelle a secernere goccioline che all’istante si
rappresero in una patina ghiacciata. La poltrona oscillava, e
ruotava. E la cornetta che gli si era incollata addosso, fra mano e
orecchio, aspettava che la sua lingua formulasse una frase, qualcosa
di pertinente, qualcosa di ragionevole. Ma la sua mente aveva smesso
di collaborare.

«Non…
non puoi… essere tu…» balbettò. «Tu sei… di là, a letto…»

La
voce (la voce di
Lucia
,
inconfondibilmente) non ebbe esitazioni: «
c’è solo il mio corpo, ma tu non ti devi fidare. Quel corpo è
morto. Io non sono più là dentro…
»

E
a quel punto accadde qualcosa che gli strappò un gemito e gli
contrasse le dita artigliate a un bracciolo della poltrona.

Un
rumore, dal corridoio. Un cigolio ben noto. La porta della camera da
letto… Si era aperta. Qualcuno stava camminando.

In
fondo, avrebbe dovuto sentirsi sollevato. Sua moglie si era
svegliata, alla fine. Non avendolo trovato al suo fianco, si era
alzata. Forse lo aveva sentito parlare, e adesso stava venendo a
controllare. Tutto normale…

Invece,
un terrore senza nome gli avvizzì l’anima.

«Non
fidarti, ti dico!
»
incalzò la voce di Lucia dalla cornetta. «Quella
che sta arrivando non sono io! Non devi guardarla! Chiudi gli occhi!
Non sono io!…
»

Vanni
provò una fitta al torace. Tutto il suo corpo pareva intorpidito.

«Chiudi
gli occhi!
»

I
passi in corridoio, lenti e strascicati, erano giunti quasi
all’altezza della porta del salotto. Presto avrebbe visto… Chi?

«Chiudi
gli occhi!
»

Un
fruscio di ciabatte, un respiro roco.

E
a quel punto l’uomo cedette alla valanga delle emozioni. Serrò gli
occhi, più forte che poté, stringendo i denti. Rimase così,
immobile, la cornetta premuta contro l’orecchio, il cuore
impazzito, un tremito diffuso a fior di pelle… finché un fruscio
segnalò l’apparizione della donna (Lucia,
doveva
essere lei!
)
sulla soglia del salotto.

Vanni
continuò a tenere le palpebre abbassate, solo vagamente consapevole
di apparire patetico agli occhi della moglie. Ma l’eco delle parole
iniettate in lui dalla voce al telefono non voleva saperne di
liberarlo, e la suggestione di quelle ultime tre parole lo teneva
prigioniero.

Passi
lenti – i passi di un corpo stanco, grosso, appesantito dagli anni –
gli si avvicinarono, e con essi anche quel respiro affaticato e
ruvido che credeva di riconoscere. Si aspettò che la moglie gli
domandasse cosa diavolo stesse mai facendo, lì, a quell’ora,
attaccato al telefono, gli occhi chiusi. Era forse sonnambulo? O era
uscito di senno?

Invece,
a poco meno di un metro da lui, la voce di Lucia gli fece rattrappire
la cute.

«Apri
gli occhi».

La
donna al telefono non esitò: «Non
farlo, ti prego! Non sono io! Io sono
morta!»

«Apri
gli occhi!» ripeté perentoria la donna che si trovava davanti a
lui, e che doveva essersi ingobbita per farsi più vicina. Avvertì
con una punta di ripugnanza l’odore del suo alito, acre di
medicinali.

«Non
guardala, non sono io!
»

Troppa
tensione. Non avrebbe potuto reggerla oltre. Doveva decidersi. L’urlo
che già da un po’ gli urgeva in gola prese corpo e forza,
gonfiandosi in lui come un grosso serpente fatto d’aria e paura.

«Apri
gli occhi!»

E
allora a Vanni sembrò di esplodere, di infrangersi contro una cometa
nera. Aprì la bocca. Uno strillo silenzioso gli graffiò le pareti
interne della gola, e mentre un sibilo dentro la sua testa saliva ad
altezze vertiginose non poté più trattenersi. Spalancò gli occhi,
e…

Tutta
la cacofonia interiore che lo aveva martoriato fino a quel momento si
dissolse all’istante, e attorno a lui fu di nuovo buio, e silenzio.

Rimase
in ascolto, i sensi elettrizzati pronti a captare il minimo stimolo,
il minimo suggerimento. E non gli volle molto per rendersi conto di
essere disteso nel proprio letto. D’istinto sporse un braccio sulla
destra, incontrando subito il corpo di sua moglie. Sospirò, e
sorrise. Un sogno. Non era stato che un orribile sogno. E che altro
mai avrebbe potuto essere?

Mentre
il cuore andava rallentando la sua corsa fece strisciare una mano
fuori dalle coperte e la portò tastoni al volto di Lucia, che
riposava su un fianco, rivolta verso di lui. Le accarezzò
amorevolmente una guancia, e lei mugolò. Forse l’aveva svegliata.
Poco male, non avrebbe faticato a riprendere sonno. Era bello
sentirla ancora lì, accanto a lui. Anche la donna, lentamente,
allungò una mano, raggiungendo con delicatezza il viso del marito.

Vanni
continuò a sorridere, nel buio, gli occhi aperti sull’oscurità. E
per non guastare quell’attimo di infinita tenerezza scacciò da sé
l’idea, davvero molto fastidiosa, che la guancia di Lucia adesso
fosse troppo fredda. E lo erano anche le sue dita, ruvide, secche,
che adesso gli scorrevano gelate lungo la gota sinistra…

Con
un fruscio di lenzuola e camicia da notte, Lucia gli si portò più
vicina, nella più totale oscurità. Produsse un rumoretto
risucchiante nel separare le labbra e muovere la lingua inaridita;
quindi sussurrò tre semplici parole: «Apri
gli occhi…
»

E il cuore dell’uomo rotolò nell’abisso.

Apri gli occhi di Nicola Lombardi




Il custode di Davide Stocovaz

Come
premessa a questo mio resoconto devo dichiarare che non sono mai
stato un uomo di facile impressione. Non sono mai stato
superstizioso, non ho mai creduto alle leggende, né tanto meno ai
fantasmi. Ero convinto, fin poco tempo fa, che nulla potesse esistere
dopo la morte. Che questa chiudesse le porte dell’anima, lasciandola
scivolare in un oblio eterno.

Questo,
almeno, lo credevo fino all’anno 2020.

Capitò
che, trovandomi in cerca di un’occupazione, mi imbattei in un
annuncio online col quale si richiedeva la presenza di un nuovo
custode nell’antico castello di Montebello, in provincia di Rimini.

Al
tempo, trovandomi in gravi difficoltà economiche, anche se il ruolo
di custode non rappresentava la mia più elevata ambizione, decisi di
rispondere all’annuncio inviando il mio curriculum vitae. Avevo già
avuto modo di svolgere quell’incarico presso un museo di storia
naturale, quand’ero più giovane, e poi in un piccolo acquario di
provincia. Sembrava che il destino, o la mia poca attitudine a
svolgere altri mestieri, mi imponesse di perseguire quella strada.

Mi
sentii sollevato quando mi contattò la direzione del castello per
informarmi di avermi selezionato tra i vari pretendenti di quel
lavoro. Così, senza esitazioni, a bordo della mia sgangherata
vettura, mi recai al borgo di Montebello di Torriana.

Vidi
subito il castello, una costruzione maestosa, ergersi sul colle alto
436 metri e dominare il borgo sottostante. La mia vettura faticò non
poco a raggiungere il cancello d’ingresso. Venni accolto dalla
direttrice del castello che mi fece accomodare nel suo studiolo. Dopo
avermi illustrato le mansioni da svolgere, volle portarmi alla
conoscenza di una leggenda che attraversava i secoli e che giungeva
fino ai nostri tempi. La storia della piccola Guendalina Malatesta.

Lei
non era una bambina come tutte le altre. Aveva, infatti, lunghi
capelli bianchi e la pelle di un chiarore quasi innaturale. Era
albina.

Nel
1300 essere così diversi dagli altri, tra superstizioni e paure,
poteva voler dire essere uccisi anche in modi piuttosto cruenti. Per
proteggere Guendalina dagli sguardi torvi dei paesani, la madre tentò
di celare l’albinismo della figlia tingendole i capelli. Ma questi,
chissà per quale effetto di chimica, non trattenevano il colore che
svaniva in modo rapido, lasciando solo un leggero riflesso azzurro.
Perciò
Guendalina
venne soprannominata Azzurrina.

Il
padre, essendo un uomo piuttosto influente, decise di far vivere la
bambina nel castello, circondata da guardie che ne garantivano la
sicurezza.

Si
narra che il 21 giugno 1375, mentre imperversava un forte temporale,
Azzurrina era intenta a giocare con una palla fatta di stracci. Di
colpo, il giocattolo iniziò a rotolare incontrollato giù da una
rampa di scale che conduceva alla ghiacciaia. La stanza aveva un
unico accesso, perciò le guardie si limitarono a osservare la scena
attendendo il ritorno della bambina. Ma Azzurrina non le risalirà
mai più. Scomparve nel nulla, come inghiottita dalle viscere del
castello stesso.

Le
disperate ricerche dei suoi genitori non portarono a nessun
risultato.

Da
allora, la leggenda vuole che ogni cinque anni, la notte del 21
giugno, la voce di Azzurrina torni a farsi sentire proprio nella
stanza di accesso alla ghiacciaia.

Ringraziai
la direttrice del castello per avermi messo alla luce della leggenda
e le assicurai che l’indomani sarei stato pronto a svolgere le mie
mansioni.

Così
ebbe inizio il mio nuovo incarico. Mi occupavo delle pulizie delle
stanze, di controllare che tutto fosse in ordine prima delle visite
dei turisti. Ne venivano a frotte, da tutte le parti del mondo.
Strinsi conoscenza con alcune guide turistiche, che ribadivano la
leggenda raccontatami dalla direttrice del castello. Sembrava che
questa fosse di dominio pubblico, che avesse valicato i confini
italiani e persino europei. Non c’era visitatore o turista che non
chiedesse di Azzurrina e della sua leggenda. Per conto mio, non vi
prestavo molta attenzione. Mi limitavo a svolgere le mie mansioni, ad
aprire e chiudere le stanze prima e dopo le varie visite, a tenere in
ordine gli oggetti ben custoditi, ad accertarmi che nessuno rubasse
qualcosa.

Finché
arrivò il mese di aprile. La leggenda mi
echeggiava nella mente e
io continuavo a svolgere il mio lavoro in completa serenità. Non
avevo mai sentito voci di bambina echeggiare nei lunghi corridoi, non
avevo mai visto tavoli, o altri oggetti, alzarsi e rimanere sospesi
nel vuoto per svariati secondi. I fenomeni paranormali, di qualsiasi
entità, erano ben lungi da me, se mai ce ne fossero stati veramente.

La
mattinata era tiepida, il sole splendeva sul borgo sottostante. Mi
trovavo in una delle stanze adiacenti al salone delle feste. Stavo
spazzando il pavimento. Tenevo la testa china, indaffarato nel mio
lavoro di preparazione prima dell’arrivo della guida di turno e dei
turisti. All’improvviso, con la coda dell’occhio, notai una macchia
scura, come un’ombra, che si muoveva lungo le pareti. Spinto
dall’istinto, alzai il capo di scatto.

E
la vidi.

Una
figura femminile si stagliava a pochi metri da me. Aveva un aspetto
cadaverico, la pelle chiarissima. Se ne stava a testa in giù; i
lunghi capelli, sfumati da una leggera livrea di un azzurro spento,
sfioravano il pavimento; i suoi piedi nudi erano innaturalmente
appoggiati al soffitto in legno; indossava una lunga veste bianca, e
questa le rimaneva aderente al corpo, in modo inspiegabile perché, a
causa della forza di gravità, avrebbe dovuto ricaderle addosso,
coprendola almeno in parte.

Ricordo
di non essermi mosso. Mi sentii paralizzare dalla testa alla punta
delle scarpe. Lei mi guardava, sembrava osservarmi. In quei suoi
occhi scuri, come biglie di una bambola, non vi lessi segno di
aggressività o cattiveria. Anzi, sembrava sondarmi con curiosità.

Poi,
dopo qualche istante, la mia mente prese a vacillare. Un brivido
gelido mi risalì le vene. Ricordo di aver aperto la bocca, emettendo
prima un gemito strozzato, poi un miagolio soffocato e, solo dopo
qualche secondo, esplosi un grido di terrore. La mia mano lasciò
cadere la scopa, che colpì il pavimento con uno schiocco di frusta.
Arretrai fino a trovarmi con le spalle pigiate contro una parete.

Lei
continuava a fissarmi. Benché non sembrasse aggressiva, il suo era
uno sguardo di ghiaccio.

Chiusi
gli occhi in modo istintivo. Le mie gambe cedettero presto e scivolai
lungo la parete, chiudendomi su me stesso. Brividi freddi si
rincorrevano nel mio corpo. Tremavo.

Non
ebbi più il coraggio di sollevare la testa e di guardare. Rimasi
nell’angolo, in una postura da roccia inamovibile, non so per quanto
tempo.

Poi
udii dei passi e una voce familiare che mi chiamava per nome. Trovai
la forza per aprire un occhio, solo uno spiraglio di palpebra. E
sospirai dal sollievo quando vidi il volto di una guida turistica che
mi sovrastava.

Allora,
con voce tremante, le raccontai l’accaduto.

Il
ragazzo, sui trent’anni, mi ascoltava in modo attento. Nei suoi occhi
non lessi, nemmeno per una frazione di secondo, il riflesso di
potersi trovare davanti a un pazzo visionario: cosa che, di certo,
avrei pensato io al posto suo.

Mi
aiutò ad alzarmi. Mi cinse le spalle con un braccio. Gli indicai il
punto in cui era apparso il fantasma. E solo allora notammo che, sul
soffitto in legno, erano presenti strane macchie bianche.

Cercammo
di cancellarle con l’acqua, ma appena questa si asciugava, le chiazze
riapparivano. Guardandole meglio, ci accorgemmo che non si trattava
di semplici macchie: erano orme di piedi nudi.

E
se davvero non credete a questa mia storia, se davvero dubitate di
questo resoconto, sappiate che una di queste impronte è ancora lì
oggi, presente e visibile a tutti. Prestando attenzione, si possono
notare l’alluce, quattro piccole dita e il tallone di un piede di
taglia 34-35, proprio come quello di una bambina.

Dopo
questa esperienza, decisi di presentare le mie dimissioni. Non sarei
mai stato in grado di aggirarmi in quei corridoi o in altre stanze
del castello senza avere addosso il timore, la paura più acuta, di
ritrovarmi di nuovo faccia a faccia con uno spettro. La direttrice
comprese e mi augurò buona fortuna per il mio futuro.

Ora,
dopo quanto vissuto al castello di Montebello, credo che vi sia
qualcosa di inspiegabile che può accadere dopo la morte. Credo
che, forse, questa non sia proprio la fine del tutto. In merito ai
fantasmi, penso
che questi andrebbero accettati così come si accetta il fuoco,
fenomeno più comune ma altrettanto misterioso. Che cos’è il fuoco?
Non è veramente un elemento, nemmeno un principio di moto e nemmeno
una creatura vivente; non si tratta neppure di una malattia, anche se
si propaga da una casa all’altra. È un evento anziché una cosa o
una creatura.

I
fantasmi, allo stesso modo, sembrano essere eventi, anziché cose o
creature.

L’autore

Davide
Stocovaz è nato a Trieste nel 1985.

È
autore e sceneggiatore, tra i suoi romanzi ricordiamo “Zanne
nelle Tenebre”, “Abissi”, “Ombra di Morte”,
“Addendum”, “Il Mostro del Buio”, “La
Giungla dell’Orrore”, “Krampus, la leggenda è viva” e
“Il Re delle Dolomiti”.

Nel
2010 vince il Primo Premio Internazionale per la Sceneggiatura
Mattador, dedicato a Matteo Caenazzo.

Alterna
il percorso in narrativa con la stesura di poesie. La sua prima
raccolta poetica “Sussurri nel Vento” è stata pubblicata
nel 2022 dalla Ensemble Edizioni.

Collabora con la rivista
online Bora.La con la stesura di racconti ambientati a Trieste.

Visceralmente legato alla sua città natale, continua il suo percorso nella narrativa con la stesura di racconti, romanzi e poesie.

Il custode di Davide Stocovatz




63 Audio Racconti di Sergio Bissoli

La Redazione GHoST segnala l’uscita de “63 Audio Racconti” di Sergio Bissoli, produzione multimediale edita da Edizioni GHoST curata e prodotta da Ipnotica.
La raccolta comprende 63 audio racconti di genere realista e fantastico recitati dallo scrittore veneto Sergio Bissoli e disponibile gratuitamente sul portale Ipnotica.org.
Buon ascolto!




L’ultimo giro in città

Joe lavorava da
poco più di sei mesi per una società di recupero crediti e in breve tempo era
diventato il migliore. Convinceva gli insolventi a saldare il debito con tatto,
decisione, cordialità e sottolineando quanto fosse necessario evitare guai più
seri: il tribunale giudiziario, eccetera. Poiché non si vantava mai dei suoi
successi, era ammirato dai colleghi. Uno in particolare non si stancava di
elogiarlo. Dashiell, il veterano del gruppo, lo additava agli altri come un
esempio da seguire. Lo fece anche quel venerdì pomeriggio, quando dopo essere
passato in ufficio per il rendiconto settimanale, incontrò Dashiell e altri
colleghi fuori dal bar dove erano soliti ritrovarsi per fare quattro
chiacchiere. “Ecco, guardate il nostro Joe. Mai una parola fuori posto, e mai
che sia tornato da un insolvente senza l’assegno in mano.”

Aldo, il meno
sollecito a sottolineare le qualità di Joe, fece notare che forse si trattava
anche di fortuna. Joe annuì con un mezzo sorriso. Non si sarebbe mai sognato di
smentirlo, ci pensò Hammett a farlo. L’altro insistette: “Vorrei vedere Joe
alle prese con l’insolvente da cui sono passato ieri. È la terza volta e non
c’è verso di convincerlo”. In breve Aldo sostenne che nemmeno Joe sarebbe
riuscito a convincere mister Brown. Joe prese la pratica. “Va bene, proverò a
fare un giro in città.” Tra loro scherzando avevano preso l’abitudine di
definire in questo modo la visita a un insolvente.

Non chiese con
che tipo d’uomo avrebbe avuto a che fare. In quei mesi ne aveva trovati di ogni
genere, compresi quelli prepotenti se non minacciosi. Hammett esagerava quando
sosteneva che fosse sempre riuscito a risolvere la pratica. Ma nel complesso
non poteva lamentarsi.

Tornò a casa
scoprendo che Sara non c’era. Negli ultimi tempi finiva sempre tardi,
continuava a fare gli straordinari per guadagnare di più. Tutto perché un
giorno Joe era uscito con una frase infelice dopo che Sara aveva detto che
forse era arrivato il momento di mettere al mondo un bambino.

“Non credo che ci
si possa permettere un figlio,” era stata la sua risposta.

Sara aveva
creduto che la ritenesse responsabile della loro precaria situazione economica
e lui non era più riuscito a convincerla del contrario. Finiva sempre così. Sul
lavoro aveva dimostrato d’essere capace di persuadere le persone, ma quando
entrava in gioco il coinvolgimento emotivo Joe falliva miseramente. Quella sera
a cena ad esempio cercò un altro modo per far capire a Sara che addossava a se
stesso ogni colpa, se di colpa si poteva parlare.

“Andrò da un
insolvente che non vuol sentir ragione. Secondo il collega che mi ha passato la
pratica, è un osso duro.”  

Sara annuì.
“Domani è sabato.”

“Uno straordinario
ogni tanto tocca anche a me. Tu ne fai già abbastanza.”

Sara si voltò
dall’altra parte, senza guardare nulla di preciso. “Il sabato e la
domenica sono gli unici giorni in cui possiamo stare insieme,” disse.

“Non ci
metterò molto. Andrò via presto e tornerò presto.”

Il giorno
seguente infatti Joe si alzò di buon’ora, prese la pratica e controllò
l’indirizzo. Non era lontano.

In venti minuti
di automobile raggiunse la palazzina signorile nei pressi dello stadio. Suonò
il citofono e si presentò.

“Salga. Secondo
piano.”

“Sono contento
che non sia venuto il suo collega,” lo accolse 
Brown introducendolo nell’appartamento. Gli offrì un caffé e spiegò che
fino a quel momento si era rifiutato di pagare soprattutto per l’atteggiamento
di Aldo. “Si è comportato in modo sgradevole. Insistente e sgradevole. Tipico
di chi è soddisfatto di se stesso, del mondo che lo circonda e di come vanno le
cose.”

Joe rimase
perplesso dinanzi alle parole di Brown. Ma quando l’uomo aggiunse che aveva
sempre saldato i debiti del figlio e che uno dei motivi per cui finora non
aveva ancora pagato era stato proprio il modo di fare di Aldo, Joe capì che
Brown aveva finalmente intenzione di firmare i documenti e procedere al saldo.
Quando stava per andarsene, Joe non poté fare a meno di ripensare a una frase
che gli era rimasta particolarmente impressa. Brown aveva detto che il suo
collega era uno dei motivi. Quindi ce ne era stato un’altro? Brown lo fissò per
qualche istante, accigliato, come se lo stesse studiando. Infine la sua espressione
si rilassò.

“Il fatto che mi
abbia posto questa domanda dimostra che forse potrei …”

Improvvisamente
si voltò, guardandosi intorno, e stette in silenzio: sembrava in ascolto. Poi
riprese a parlare, ma era come se parlasse a se stesso. “No, non è il momento.
Mi scusi, ma devo salutarla”.

Il lunedì, quando
si incontrarono in ufficio, Aldo non fece una piega nel sentire che Joe era
riuscito laddove lui aveva fallito. Si limitò a dire che Brown si era sempre
trincerato dietro la morte della moglie, dietro al fatto che il figlio non si
era fatto vedere nemmeno al funerale e che quindi non voleva aver più niente a
che fare con tutto ciò che lo riguardava.

Joe si strinse
nella spalle. “Non mi ha parlato della moglie.”

“Non faceva che
ripeterlo. Secondo me era una scusa. Si era messo in testa di non pagare e
basta.”

Joe non diede
peso alle parole del collega. Tuttavia col trascorrere delle ore una domanda
cominciò a farsi largo nei suoi pensieri: perché Brown non gli aveva parlato
della moglie? Mentre la domanda si faceva sempre più pressante, non poté fare a
meno di chiedersi per quale motivo ne fosse così ossessionato.

Lo era al punto
che un giorno deviò dal percorso che lo stava conducendo da un insolvente, per
raggiungere l’abitazione di Brown e appostarsi a una decina di metri di
distanza. Tornò altre volte e l’ultima decise di suonare il citofono, con la
scusa che i documenti erano andati smarriti. Non rispose nessuno e quando salì
e suonò il campanello, un signore con il cane che stava rientrando in quel
momento e che abitava nell’appartamento accanto gli spiegò che Brown era
partito una settimana prima senza dire nulla.

“Di solito mi
avvertiva.” Poi chiese a Joe chi fosse e lui lì per lì si inventò che era un
amico del figlio, mandato a chiedere notizie del padre.

“Non ha il
coraggio di venire personalmente,” commentò il vicino scuotendo la testa. “Quel
ragazzo è … Bah, in fin dei conti non mi riguarda.”
“Davvero non le ha detto dove andava?”
L’uomo non parve sorprendersi per quella domanda. Doveva conoscere abbastanza
bene il figlio di Brown e il suo modo di comportarsi. Ma forse pensò che,
dopotutto, era pur sempre il figlio. Rispose che non lo sapeva ma che qualche
mese prima Brown gli aveva detto di aver comprato una casa in montagna per
portarci la moglie, casa nella quale poi probabilmente non erano mai riusciti a
soggiornare.  

“Non sa in quale
posto esattamente? Il mio amico è davvero triste e dispiaciuto,” aggiunse.
“Vorrebbe riappacificarsi col padre una volta per tutte.”

“Non ricordo.
Chiedo a mia moglie, che ha una memoria migliore della mia.” Tornò dopo qualche
istante con il nome della località, ma lo rivelò a Joe solo dopo essersi
assicurato che le intenzioni del figlio di Brown erano buone, e che non voleva
soltanto chiedere soldi come al solito.

Una volta a casa,
Joe disse a Sara che meritavano una vacanza e che aveva pensato di trascorrere
il fine settimana in montagna, in una località che gli aveva consigliato un
collega. Si trattava di un borgo situato a più di mille metri, con un solo
albergo che in quel periodo dell’anno non era preso d’assalto dai turisti:
riuscirono perciò senza fatica a trovare una stanza. Il sabato mattina lo
trascorsero passeggiando a lungo, vedendo molte case, e Joe si chiese quale
potesse essere quella di Brown. Poi, mentre la moglie faceva acquisti
nell’unica drogheria del paese, Joe si avvicinò a un terzetto di anziani che
stavano conversando vicino a una fontana, e chiese se potevano dargli
un’informazione. Sapevano se qualcuno si era trasferito nei paraggi negli
ultimi mesi?

I tre si
guardarono, e parvero poco propensi a rispondere a una domanda così vaga. Joe
dovette spiegare che lavorava per una società di recupero crediti e che stava
cercando un certo Brown, che sembrava avesse acquistato una casa da quelle
parti. Mentre parlava teneva d’occhio la drogheria: non voleva essere sorpreso
da Sara, e doverle spiegare la vera ragione che l’aveva spinto a fare quella
vacanza.

Finalmente uno
dei tre si decise a dirgli che una casa in effetti era stata venduta, ma era
fuori dal paese, più su, e lui non aveva mai visto chi era venuto ad abitarla.
Joe si fece spiegare come arrivarci.

La domenica
mattina Sara si svegliò con un forte mal di testa.  È l’altitudine, disse, mi fa sempre questo
scherzo. Decise perciò di rimanere in camera per un paio d’ore. Joe scese a
chiedere se avevano un analgesico e glielo portò, poi uscì, prese l’automobile
e andò in cerca della casa di Brown.

A un certo punto
dovette lasciare l’automobile e proseguire a piedi. L’istinto lo guidò in uno
sentiero tra gli alberi, stretto e umido. Giunse davanti a un’abitazione
alquanto isolata che un cancello e un giardino non molto curato separavano
ulteriormente dal resto del mondo. Joe si fermò a guardare, cercando di
scorgere un segno di vita ma l’unica finestra visibile aveva gli scuri chiusi.
A un certo punto sentì un rumore di foglie e una voce giungere alle sue spalle.
“Chi è lei? Cosa vuole?”

Si voltò e vide
Brown fermo a pochi passi da lui, appoggiato a un lungo bastone. Preso alla
sprovvista, Joe rimase per qualche istante senza parole.

“Sono … Si
ricorda. Sono venuto a casa sua per le rate del televisore.”

Brown prese gli
occhiali. “Certo. Il signor …”
“Joe Gores.”

“Gores. Ricordo.
Come mai si trova da queste parti?”

“Io e mia moglie
ci siamo presi due giorni di vacanza.”

Brown annuì e
aprì il cancello. “Vuole entrare?”

“Solo qualche
minuto. Mia moglie mi aspetta. Oggi non si sente tanto bene.”

Brown preparò il
caffè e mentre lo sorseggiava, quasi a bruciapelo, gli chiese: “Perché è venuto?”

Joe, imbarazzato,
non sapeva cosa rispondere. D’altronde, quella domanda se l’era posta anche
lui. Aggiungendovi il fatto che aveva trovato con molta facilità l’abitazione,
sembrava che i suoi passi fossero stati guidati.

Poi, quasi come
se  desse a se stesso una spiegazione,
disse: “Quando il mio collega ha detto che lei gli aveva parlato più volte
della morte di sua moglie, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché a me
non ne aveva parlato. Le sembrerà assurdo, ma questa domanda ha cominciato ad
assillarmi.”

“Quando è morta
Leonora, ero distrutto. In quel periodo il suo collega venne a a casa mia, come
dicevo, mostrando ben poca sensibilità, e cercai solo di liberarmene. Poi ho
cominciato a sognare Leonora, e sentivo la sua voce che mi diceva presto ci
rivedremo. Pensavo di essere sul punto di impazzire, infine ho capito che
sarebbe tornata. Per questo a lei non ne ho parlato. Ormai avevo capito che mia
moglie non era morta.”
Joe rimase paralizzato nell’udire quelle parole. Fissò Brown senza notare alcun
segno d’alterazione.

“Perché
quell’espressione? Lei non sembra il genere di persona che crede solo a ciò che
vede, e che ciò che vede sia il migliore dei mondi possibili.”

“Mi sta dicendo
che sua moglie è morta e poi è risorta.”

Brown scrollò la testa.
“Non esattamente. Risorta? Non è l’espressione giusta. In realtà è morta solo
la sua parte terrestre.”

Dal cassetto di
una scrivania prese due foto. “Le fece Leonora, circa un anno fa. Secondo lei
cosa sono queste luci?”

Si guardarono per
alcuni istanti. “Non saprei.”

“La stessa
risposta la diedi a Leonora quando me le mostrò. Eppure, disse lei, dentro di
te sai bene cosa sono.”

Joe distolse lo
sguardo e si alzò. “Ora devo andare,” mormorò, senza riuscire a nascondere
l’agitazione.  

Brown sollevò la
mano, e Joe restò in piedi, indeciso, ma non si mosse.

“Leonora mi
spiegò che era entrata in contatto con una forma di vita proveniente da un
pianeta molto distante dalla Terra. Naturalmente ero scettico, come lei in
questo momento. Mi raccontò dei sogni che faceva, sempre più ripetitivi: ogni
volta che chiudeva gli occhi vedeva uomini e donne che si sollevavano da terra,
come se saltassero ma al rallentatore, e ascendevano lentamente verso il
cielo.” Sospirò, poi riprese, sorridendo. “La sua morte non è stata una vera
morte. Rapida, indolore. È ascesa davvero al cielo, ma non nel senso che
intendiamo comunemente. La forma aliena con cui comunicava le ha donato una
nuova vita, priva di desideri inutili, di una volontà fuorviante e di affanni
che nulla hanno a che vedere con l’essenza umana. E aveva ragione: in fondo ho
sempre saputo cosa fossero quelle luci.”

Joe si avvicinò
alla porta, Brown lo seguì. “Leonora ha raggiunto l’esistenza a cui molte
persone anelano e viene a trovarmi ogni giorno. Presto, molto presto mi unirò a
lei.”

Trascorse quasi
un mese dalla visita a Brown, e in tutto quel tempo Joe non smise di pensare a
ciò che gli aveva detto. L’affievolirsi del ricordo tuttavia lo stava
convincendo che si era trattato soltanto delle farneticazioni di una mente
devastata dal dolore.

Un sabato però, lui e Sara stavano passeggiando per la città dopo aver fatto colazione. La moglie poco prima si era quasi commossa nel rispondere a un bambino che la salutava dal passeggino, poi gli raccontò lo strano sogno che aveva fatto quella notte: vedeva delle persone staccarsi dal suolo e volare lentamente verso l’alto, dritte, come se una gigantesca mano invisibile le afferrasse per la testa e le tirasse su, portandole via con sé.




Zanzare di Davide Camparsi

Berto odiava quelle estati sempre più torride.

Lo costringevano ad annegare nel proprio sudore, tra lenzuola sgualcite e quel materasso scalcagnato che si ritrovava sotto al culo, sempre più sformato. Detestava un sacco di cose, a dire il vero. Le persone, soprattutto, ma le estati stavano rapidamente risalendo la sua personale china del disagio.

A occhi spalancati, rimase a fissare le ombre del fogliame che si agitavano pigre contro il muro livido della camera da letto, sornione, dileggianti, ascoltando i loro folli e inintelligibili bisbigli al cuore rovente della notte, acquattata all’esterno. Tese l’orecchio, immerso nel suo acre bagno di sudore, cercando di distinguere un senso in quei deliri, senza alcun successo. Sempre più certo, però, che le tenebre lo stessero sfottendo.

Qualcosa l’aveva destato e adesso giaceva tra le lenzuola umide, stanco, indolenzito, ma incapace di riguadagnare il sonno perduto. L’afa soffocante non dava tregua, i grilli frinivano struggendo nei loro…

Leggi il racconto completo sul Portale ClubGHoST, clicca qui…




Dramma Neorealista

Esperimento di scrittura automatica

A. Catene. Intreccio di sogni. Interruzioni. Luminosità. Flash. Luci si accendono e si spengono. Tunnel oscuri attraversati da bambini che hanno paura del buio. Scorrevoli. Lucidità. Ani che si aprono come fiori che sbocciano per accogliere cazzi volanti. Uccelli luminosi. Aquiloni spezzano i fili e si perdono nell’aria. Ansiolitici leggeri mischiati con alcol e caffè. Restare svegli la notte. Visioni cinematografiche. Sequenze a fumetti. Personaggi ripresi dalla vita reale. DRAMMA NEOREALISTA.
Bulloni. Carpentieri. Voci meccaniche. Latrati di cani cyborg. Durevoli frequenze. Stratificazioni sonore. Oggetti multimediali. Blade Runner. Filippo Cazzo. Feel the dick. My friends are welcome to the orgy. I am a vampire. In search of control of human race. Il sogno proibito di ogni anarchico è il controllo totale. L’anarchico nel momento in cui si dichiara tale smette di esserlo. DRAMMA NEOREALISTA.
Occhi trafitti. Bulbi che esplodono. Pedofili cercano di rimorchiare bambini. Adolescenti si masturbano sfogliando riviste porno. Coltelli. Evirazioni. Un uomo con gli occhi da folle e assassino. A mano armata. Sventolano le bandiere. Sentieri nascosti. Strade segrete. Passeggiare in un’antica città. La scoperta dei bordelli. Il migliore di tutta la città. Donne dormono in attesa della sera. Odori di talco e profumi costosi. L’incenso brucia nella mia stanza. Si mescola all’olezzo di hashish. Ho di nuovo vent’anni. DRAMMA NEOREALISTA. Una gita a Firenze. Due viaggi a Firenze. 15. 17. Il Botticelli a due passi dalla contemplazione. Troppo stanco per alzarmi dalla sedia. Notti insonni. Alcol. Appena svegliati. Una città che è un altro mondo. Ristorante self service. Pollo. Lasagne. Torta al cioccolato. Frutto proibito. Eva nel Paradiso Terrestre fa sesso con il serpente. Quali creature partorirà? Gatti gemono poco prima dell’alba. Come lamenti di neonati. Aspetto l’alba ascoltando musica sacra. Un coro di voci bianche accompagna il mio lento risveglio. Antiche voci di preadolescenti castrati risuonano nella mia mente. Sapore amaro di farmaci in bocca. Un libro che fatico a leggere. I lamenti dei gatti, il coro di voci bianche si uniscono ai rumori di questa casa antica. Avverto tutto (suoni, colori) più intensamente. DRAMMA NEOREALISTA.