Il terrore di St. Pierre
L’affermazione ormai trita, che il vero è talvolta più inverosimile d’ogni fantasia, trova in questa raccapricciante storia la più efficace delle conferme. E’ il racconto semplice e disadorno di un giovanotto negro, Ludger Sylbaris, unico superstite della famosa catastrofe di St. Pierre: ma l’orrore della tragica situazione ha strappato da quell’anima rozzamente ingenua tali accenti di profonda angoscia umana, da suggerirmi di riprodurlo nella sua suggestionante integrità.
Era una sera del 19…. e io stavo seduto con la mia fidanzata, la bella Giulia Richard, a un tavolo del ristorante della piazza municipale, a St. Pierre della Martinica, ciarlando e osservando la gente che passeggiava su e giù in folla davanti a noi.
Andai nel pomeriggio a Fort de France, a prendere Giulia e giunsi a casa sua poco prima del tramonto. A nord, il monte Pelée faceva udire il suo lamentoso boato, e a quando la terra sussultava e tremava sotto i nostri piedi: ma quando due si vogliono bene non si danno troppo pensiero di ciò che accade intorno a essi, e io ero troppo assorbito dalla vista e dai discorsi della mia compagna per accogliere idee tristi e paurose.
Ci incamminammo quasi subito verso Saint Pierre. Il brontolio della montagna si faceva a mano a mano più forte, e già fitti nuvoloni di polvere si erano rovesciati a più riprese sulla città. La popolazione, per niente spaventata, organizzava invece numerose gite per contemplare da vicino il curioso spettacolo.
Una allegra e numerosa compagnia occupava insieme a noi il battello che fa il tragitto da Fort de France a St. Pierre. La brezza della sera increspava leggermente le acque: un senso di freschezza, delizioso dopo l’afoso calore della giornata, disponeva gli animi alla quiete e alla delizia. Una cortina di vapori nera e spessa ci nascondeva alla vista la cima del monte.
Tutti ciarlavano animatamente, incuranti del domani. Quanto a me un solo pensiero mi occupava. La mia Giulia era bellissima: alta, slanciata, graziosa nelle movenze, con una voce dolcissima e due occhi neri che sembravano penetrarmi fino all’anima.
Allorché li fissava su di me, mi sentivo felice: ma se li rivolgeva ai nostri compagni di barca, un fremito di rabbia mi invadeva tutto. Ed ella, che lo sapeva, non aveva che da sorridermi amorevolmente per vedere il mio malumore dissiparsi come per incanto.
LA RISSA
Poiché le occhiate degli uomini del caffè in cui eravamo andati a sederci diventavano sempre più audaci, io rimproverai Giulia di mostrarsi troppo civetta, rispondendo loro con dei sorrisi che avrebbero offeso chiunque si fosse trovato al mio posto.
Giulia si mise a piangere e scappò via, senza guardarmi in viso. Evidentemente era irritatissima.
D’improvviso un giovanotto elegante, che era stato uno dei più insistenti nel corteggiarla da lontano, uscì dal fitto gruppo e mi affrontò guardandomi arditamente negli occhi.
Lo attesi a piè fermo, senza far motto. La testa eretta e le braccia incrociate sul petto. A un tratto egli mi afferrò per le spalle e mi gettò a terra. Stordito dal colpo inatteso, rimasi un momento immobile: poi, con subito slancio, balzai in piedi.
Quell’assalto brutale mi fece l’effetto di una liberazione. Per oltre un quarto d’ora ero rimasto al mio posto mordendo il freno, costretto a sopportare in silenzio i sogghigni e le celie di pessimo gusto di quei maleducati, finché, incapace di frenarmi oltre, m’ero lasciato andare a sfogo deplorevole nei confronti della mia fidanzata.
Ma adesso, finalmente avevo di contro degli uomini, potevo assalirli a mia volta, abbandonarmi liberamente all’impulso di collera che mi frenava in tutta la persona.
Non avevo armi, ma afferrai il primo oggetto che mi capitò tra le mani una bottiglia rimasta sul tavolo e lo scagliai con forza contro il mio avversario, colpendolo alla faccia.
Un rumore di vetri che si rompono con violenza, un grido di rabbia e di dolore ed egli cadde a terra privo di sensi.
Un coro di proteste indignate si levò tra gli astanti. Vidi molte braccia agitarsi in aria frementi e mi addossai con le spalle al muro.
I gendarmi accorsero, mi presero in mezzo, mi portarono via. Ebbi solo il tempo di gettare un’occhiata a Giulia che si era rincattucciata in un angolo del locale.
Fu uno sguardo disperato, il mio. Al quale rispose uno sguardo altrettanto disperato.
E venni condotto via.
UNA BUIA, TETRA PRIGIONE
Dal caffè al municipio nel cui sottosuolo si trovavano le prigioni, non c’era che un passo. Venni condotto nella cella che mi era stata destinata (l’ultima di una delle due lunghe file che si aprivano sul corridoio centrale), e vi fui abbandonato. Non potevo udire alcun rumore dall’esterno. Mi trovavo in una prigione ben sorvegliata.
Mi sentivo stanco e stordito per gli avvenimenti che mi avevano voluto involontario protagonista. Ero stanco, disfatto. Mi ero buttato a giacere sul tavolaccio, per riflettere sulla mia situazione.
Sentivo tremare lievemente il pavimento e le pareti della mia prigione; ma la sonnolenza, che già cominciava a invadermi, mi toglieva ogni senso di paura, come mi impediva di sentire la vergogna e la preoccupazione per il mio stato e ben presto mi addormentai profondamente.
UN TERRIBILE INCUBO
A un tratto mi svegliai di soprassalto.
Il terreno su cui ero disteso vacillava maledettamente e un lontano rumore, come di tuono, mi giungeva alle orecchie.
Balzai in piedi. Albeggiava e le idee mi si erano completamente rischiarate. Il ricordo della scena del caffè mi colpì con nettezza ed evidenza. Risentivo il rumore della bottiglia che si rompeva sul viso del mio avversario, lo rivedevo steso a terra, intriso di sangue. E se fosse morto? Ero dunque diventato un assassino? Avrei portato con me, per tutta la vita, l’immagine e il rimorso del mio delitto?
Questi pensieri, il timore della sorte che mi attendeva, e quello di aver perduto Giulia per sempre mi occuparono a lungo, e quando il carceriere mi portò da mangiare non ebbi la forza di rivolgergli la parola.
Mangiai poco e male. L’avvilimento mi toglieva l’appetito.
LO SPAVENTOSO TERREMOTO
D’improvviso, con una rapidità che non riesco a descrivere, la cella in cui ero rinchiuso cambiò completamente d’aspetto. Ciò avvenne in modo così inatteso, così completo, così inesplicabile che non tentai nemmeno di sforzarmi a comprendere.
La poca luce che mi circondava disparve, lasciandomi nel buio più fitto. Udii uno scalpiccio di passi affrettai nel corridoio superiore, misto ad altri suoni misteriosi, vaghi e terribili che non capivo di dove venissero.
Immerso nelle tenebre, con le orecchie intronate da mille rumori diversi, avevo però la percezione distinta delle cose: e ciò che sentii non fu certo provato da altri esseri umani in quel giorno a St. Pierre.
O quantomeno nessuno sopravvisse a raccontarlo.
Con la stessa stupefacente istantaneità con la quale la luce si era spenta, l’aria in giro parve convertirsi in un invisibile fuoco. Esso occupava ogni spazio, dal soffitto al pavimento, da un muro all’altro, mi riempiva gli occhi, le narici, la bocca, i polmoni: un fuoco asciutto e senza fiamma, più bruciante di quello di qualsiasi fornace. Un fuoco orrendo, terribile, mostruoso.
Era dunque la fine?
Gridai con quanto fiato avevo in corpo. Chiamai ripetutamente al soccorso, ma inutilmente. La volta della prigione mi rimandava il suono della mia voce, raddoppiato da un’eco sonora: ma nessuno rispondeva al mio appello disperato.
Lo spaventoso calore, l’orribile fuoco senza fiamma continuava più intenso, più insopportabile che mai. Una paura acuta, irragionevole mi prese: poi, con un violento sforzo su me stesso, riuscii a dominarmi, a chiedermi cosa accadesse di eccezionale.
Quel caldo non poteva certo provenire da un incendio sviluppatosi nella prigione, perché in tale caso qualcuno sarebbe venuto a togliermi di là, o quanto meno avrei udito il rumore dei preparativi intesi a scongiurare il disastro.
Mentre mi affaticavo a trovare una spiegazione, il suolo cominciò a oscillare, a tremare violentemente. Non solo il piccolo mondo rappresentato dalle pareti della mia cella, ma tutta la terra parve scossa fin nelle sue viscere più profonde.
Le mura del palazzo in cui si trovavano le prigioni, alle cui fondamenta si addossava il sotterraneo da me occupato, vibrarono nel buio assoluto che mi circondava.
Avevo la percezione esatta del loro disordinato movimento. Se tutta quella massa monumentale fosse precipitata, avrebbe finito con il seppellirmi sotto le macerie.
Gridai ancora una volta al soccorso, ma non riconobbi più la mia voce. Era un suono fievole e strano, ora stridulo come il pianto di un bambino, ora rauco e soffocato come il lamento di un moribondo, che mi usciva di gola, accrescendo il senso di orrore che mi invadeva, terribile!
E sempre nessuna risposta!
Mi avevano lasciato solo!
Un nuovo rumore mi colpì. Stavolta non era il cupo rombo che accompagna i grandi terremoti, ma lo scroscio formidabile di molti edifici che si sfasciavano e cadevano in rovina, misto a cento altri suoni diversi, indefinibili.
La prigione doveva dunque convertirsi per me in una tomba?
Sembrava così solida, così massiccia, che non sapevo figurarmi una forza capace di distruggerla.
Pure quale altro significato potevano avere quel tremito continuato sopra la mia testa e quei tonfi spaventosi di pietre che cadevano?
Ma quantunque il sinistro strepito assumesse proporzioni sempre più spaventose, le macerie non giungevano fino a me.
La volta della mia cella, robustissima e situata a considerevole profondità, rimaneva ancora intatta e io cominciai a chiedermi se l’inesplicabile catastrofe non stesse per convertirsi in un mezzo di salvezza, e mi misi a brancolare nel buio cercando disperatamente una uscita qualsiasi.
A un tratto accadde una cosa che ancora di più mi atterrì.
IL FUOCO DELL’INFERNO
Un’insopportabile sensazione di bruciore ai piedi mi costrinse a chinarmi per indagarne la causa: ma tosto ritrassi la mano, orribilmente scottata.
Qualcosa di vischioso e di atrocemente caldo, che sembrava fango in ebollizione, s’insinuava lentamente sul suolo di quello che stava per diventare il mio sepolcro.
Non diverso effetto avrei provato toccando un ferro rovente appena tolto dalla fiamma di una fornace.
Rimasi un momento immobile. Poi indietreggiai, preso da orribile spavento. Quella misteriosa, ardente sostanza, m’inseguiva sempre. Riempiva a mano a mano lo stretto locale come l’acqua che si versa in un serbatoio.
Una morte mille volte più lenta, più atroce, più spaventosa di quella per schiacciamento cui ero sfuggito, mi aspettava, dunque?
Mentre la tremenda marea saliva fino a piegarmi le gambe e mi addossavo tutto tremante al muro del fondo, ove essa ancora non giungeva, un acre odore di zolfo mi prese alla gola, accompagnato da un acuto bruciore interno che pareva volesse soffocarmi.
E assieme alle torture fisiche, un pensiero insistente, una specie di ossessione mi perseguitava, mi faceva martellare le tempie.
Se, come tutto lo faceva supporre, un incendio distruggeva tutto il municipio, perché non tentavano di spegnerlo? Che si fossero dimenticati di me, potevo anche ammetterlo: ma lasciar perire così tutto il grandioso fabbricato!…
ORE DI ATROCE AGONIA
L’odore di zolfo e lo stringimento alla gola crebbero fino al limite, oltre il quale cessa la tolleranza umana. Poi, piano piano, i miei tormenti cominciarono a calmarsi, a fondersi tutti in un cupo stupore, in cui svaniva la percezione esatta delle cose.
Quanto tempo rimasi così, con le spalle al muro, immobile e semi incosciente?
Non riuscivo a farmene un’idea: non sapevo più neppure se fosse giorno o notte. Ricordavo che al mattino dell’8 maggio, dopo che il carceriere aveva portato da mangiare, avevo provato per la prima volta l’intenso calore e inteso gli strani rumori accennati: ma quanto tempo fosse trascorso da allora restava per me un mistero.
Finalmente mi riscossi, con una impressione di sete ardente.
Cercai a tentoni la brocca dell’acqua, e, trovatala, intatta su una sporgenza del muro, bevvi fino all’ultima goccia.
Era rimasto anche un po’ di cibo, ma non lo toccai. Mi ripugnava.
Poichè il liquido fango s’era raffreddato, mi distesi invece a terra e mi addormentai, o forse caddi in una specie di deliquio.
LE POTENZE INFERNALI
Ero così, nell’incoscienza, probabilmente da ore, da giorni, non so, quando socchiudendo gli occhi vidi uno spettacolo che mi terrificò. Ciò che avevo fino a quel momento passato era nulla al confronto delle mostruosità che si trovavano ora dinanzi a me: sentii i capelli drizzarmisi, dilatai le pupille in un terrificante stupore, un grido mi sali alla strozza e proruppe altissimo.
Topi, enormi topi invadevano il pavimento della mia prigione. Mi guardavano con i loro occhietti maligni e crudeli, ed erano lì, immobili a fissarmi, come se attendessero un misterioso ordine prima di procedere al vorace assalto.
Mi rizzai, le spalle contro il muro, e rimasi là, per secondi che mi sembrarono eternità, le braccia allargate sulla parete, le mani strette spasmodicamente. Ma anche le pareti, là dove esse offrivano qualche sporgenza, erano state invase dai topi. Da queste schifosissime bestiacce.
A un tratto venni percosso come da una scarica elettrica. Lungo il mio braccio sinistro, nudo, un topo cominciò a camminare veloce sulle sue zampe ripugnanti. Cacciai un urlo, scrollai il braccio per far cadere l’orribile bestia. Poi mi misi a correre, disperato, impotente, pazzo di spavento per tutta la mia prigione, mentre i topi scappavano di qua e di là, mentre altri mi cadevano sulle spalle, altri mi si appigliavano alle gambe, alle mani, mi morsicavano dovunque trovassero una superficie di pelle libera di indumenti.
Mi scagliai contro la porta della cella, battendovi disperatamente per cercare di demolirla e fuggire da quell’orrore nel quale non potevo più resistere, per sottrarmi ai morsi crudeli, al contatto viscido e ributtante dei roditori.
Ma invano. La porta resisteva ai miei colpi più disperati.
Le grida si succedevano al pianto, ai singhiozzi, alle urla pazzesche che mi si sprigionavano dal cuore, da ogni più sensibile fibra del mio essere.
Sentivo gli squittii furenti delle bestiacce. Battendo i piedi forsennatamente per terra, ne schiacciai non so quanti. Ma tuttavia i topi aumentavano sempre più di numero. Sembravano penetrare attraverso le spesse pareti, e non mi chiesi da dove passassero, poiché la cella non presentava alcun buco, alcuna apertura quanto piccola fosse, attraverso la quale le bestiacce maledette potessero giungere sino a me.
Non mi chiesi per quale misterioso condotto esse erano giunte sino a me.
Non pensai, dominato dal mio cieco terrore, che soltanto una potenza malefica poteva aver compiuto – solo essa – l’orrendo prodigio.
Eppure soltanto le potenze infernali avevano potuto operare la cosa mostruosa.
UNA SPAVENTOSA LEGGENDA
Più tardi dovevo rammentare una leggenda antichissima che mi era stata raccontata da un uomo più che centenario quando io ero ancora un ragazzo.
– Su St. Pierre, mi aveva raccontato il vecchio, – pesa una maledizione terribile. Un tempo qui, secoli e secoli fa, si svolgeva il mercato degli schiavi: povere genti negre provenienti dalle più lontane contrade d’Africa. Quelli che resistevano agli spaventosi disagi per mare che venivano effettuati sulle navi negriere, erano venduti all’incanto, al miglior offerente. Migliaia di uomini, di donne, di fanciulli e di bambine erano stati smistati e ceduti in cambio di oro. Le maledizioni di questi infelici avevano finito per fare di St. Pierre una terra maledetta.
Un giorno un gigantesco negro dell’Africa Equatoriale, convertito al cristianesimo, mentre si trovava sulla piazza di St. Pierre per essere venduto, aveva lanciato il suo terribile anatema. Questo negro prima di convertirsi al cristianesimo era stato uno tra i più potenti stregoni della sua tribù. Conosceva i più reconditi segreti della magia nera, era stato tra i più attivi cultori del satanismo. Allorché i missionari lo avevano convertito alla religione cristiana, il negro aveva smesso di intrattenere il misterioso commercio con le deità pagane e con le potenze del male. La conversione di quell’uomo era stato uno dei più grandi successi ottenuti nel campo della fede da quei primi missionari avventuratisi tra le selvagge contrade dell’Africa Equatoriale.
– Ebbene, – aveva continuato il vecchio, il giorno in cui Aybinong, così si chiamava il negro, fu condotto sulla piazza di St. Pierre per esservi venduto come schiavo, egli pronunciò una delle più terribili bestemmie che un uomo di fede cristiana possa proferire.
« Da questo momento faccio ripudio della religione cristiana alla quale padri missionari mi avevano iniziato. Non riconosco più quel Dio d’amore che essi mi avevano insegnato ad amare. Giuro di adorare nuovamente gli dei dei miei padri e di affidare la Principe delle Tenebre, Dio del Male, mia anima Angelo Nero della Sventura. Io giuro di adorarlo, amarlo, rispettarlo così come ero pronto ad adorare, amare, rispettare il Dio d’Amore. Chiedo l’intervento delle forze oscure perché St. Pierre sia maledetta nei secoli dei secoli, perché i suoi abitanti abbiano a essere dannati per l’eternità. Vieni o Dio del Male, prendi in consegna questa terra e le anime delle genti indegne che la abitano: fai di questa terra un tuo dominio, fai di questi uomini dei tuoi sventurati sudditi. Che la maledizione perenne cada sulla città e sulle generazioni presenti e future di St. Pierre. Vieni e distruggi! Vieni, e uccidi! Vieni e seppellisci sotto un mare di fango ardente e di zolfo ogni cosa Tu, da questo momento, sei il mio Dio! ».
IL CATACLISMA
Erano state appena pronunciate queste maledizioni, che il cielo si era improvvisamente oscurato. Tenebre nere come quelle della notte più fonda e tempestosa erano succedute allo splendente azzurro e all’ardente fiato del sole. Una lingua di fuoco tremenda aveva solcato il cielo da una estremità all’altra, e un gigantesco spettro dagli occhi e dalla bocca di fiamma, con un grande mantello nero svolazzante era apparso a tutta la gente della città.
Satana in persona, l’orrendo mostro del male, immobile contro il cielo, gigantesco, enorme, terrificante aveva lasciato udire una risata altissima e terribile.
Aybinong era caduto in ginocchio levando le braccia verso l’apparizione ed aveva gridato:
– Principe, principe delle Tenebre, questo regno è tuo! Prenditelo!
Le folgori, allora, erano cominciate a cadere sulle case, sugli uomini come frecce scoccate da mille e mille invisibili archi. Gli incendi si erano rapidamente propagati in tutta St. Pierre, uomini, donne, bambini erano caduti fulminati sotto gli strali di fuoco.
A un tratto s’era udita una voce possente, come se centomila altoparlanti si fossero trovati dislocati nel cielo:
– Genti di St. Pierre, se volete salva la vita, rendetemi omaggio! Io sono il vostro Signore, il Diavolo!
Il terrore della morte aveva spinto i più a buttarsi proni a terra, a vendere in cambio della vita, la propria anima a Satana. Chi si era sottratto al comando per tener parola alla propria fede, era stato inesorabilmente ucciso dai lampi mortali.
– Da quel momento St. Pierre non è più la città della fede, ma la città del Diavolo. Non si adora più Dio, ma Satana, – aveva concluso il vecchio centenario. – Ogni cento anni ora Satana ricompare e chiede un nuovo giuramento, impone il proprio potere alle genti di questa infelice e maledetta contrada.
Il satanismo in St. Pierre era cominciato da allora a diventare un culto.
L’ORRENDA METAMORFOSI
Ludger Sylbaris, il negro che giaceva nella cella in compagnia dei mostruosi ratti era un uomo di profonda fede cristiana. Sapeva dell’esistenza delle potenze infernali, ma ora, mentre cercava di sfuggire ai morsi feroci dei topi che lo premevano da ogni parte in una specie di muraglia squittente e nauseabonda, non pensava che Satana era venuto quel giorno, nel pieno della sua potenza, a chiedere il tributo alla città di St. Pierre.
Alla leggenda non pensò, ritenendola semplicemente frutto di fantasia, se non quando una metamorfosi spaventosa ebbe a verificarsi dinanzi ai suoi occhi sbarrati.
Un soffio caldo, misto a un insopportabile odore di zolfo passò come una ventata entro le quattro pareti della cella. I ratti caddero a terra come se fossero stati toccati da una bacchetta magica. Caddero quelli che si trovavano abbarbicati con le loro zampette sulle angolosità della parete, quelli che si erano insinuati tra il petto e la camicia della loro vittima, che gli si erano attaccati con i denti al cuoio capelluto, alle gambe, alle braccia, ai piedi nudi, alla schiena. Giacquero immoti a terra in un groviglio di grossi corpi neri lardellosi, lucenti, con le lunghe code irrigidite, le bocche irte di denti aguzzi spalancate, in smorfie orrende.
Ludger Sylbaris, tremante, il corpo scosso da violenti conati di vomito si appoggiò alla parete e lasciò uscire dallo stomaco contratto, rivoltato dallo spettacolo ripugnante tutti i pochi umori che giorni di digiuno gli avevano lasciato.
Si sentiva impazzire. Il sovrannaturale lo sovrastava. Ora capiva che egli era stato protagonista di un’azione infernale, satanica alla quale la mente umana non poteva resistere.
E in quel mentre la metamorfosi terrificante avvenne.
Ogni topo agonizzante si trasformò in un essere ibrido, tra il nano e la bestia: esseri dalle gambucce corte e magre, dal corpo piccino e dalla testa enorme. Gli occhi erano simili a grossi fari, le orecchie erano padiglioni penduli, spaventosi a vedersi. Ma gli occhi! Erano occhi nel cui profondo c’era il fuoco dell’inferno, la morte con la sua fissità spaventosa, c’era la crudeltà indicibile delle creature inferiori dominate dal satanismo.
Un nuovo urlo, lungo e altissimo come di lupo ferito a morte, uscì dalla gola del disgraziato.
Se l’incubo dei mostruosi ratti era stato atroce, ora questo altro era addirittura insopportabile. Dominato da una pazzia furiosa, il prigioniero si diede a prendere a calci gli esseri immondi: li colpiva con i pugni, li schiacciava a colpi di testa contro la parete.
LA RIVOLTA DEI MOSTRI
Furono come sorpresi dalla reazione dell’uomo.
Squittivano come ratti, ma si muovevano come uomini, deformi, spaventosi omuncoli dalle lunghe braccia alle cui estremità le mani non erano dissimili dalle zampe dei topi, artigliate, adunche, mortali.
Quanti ne uccise, il povero negro?
Egli vedeva il sangue sprizzare dai cadaverini: ne era tutto inzuppato. Le pareti colavano lasciando impronte sanguinose. Era un sangue denso come olio, vischioso e dall’odore nauseabondo.
Ma più Sylberius ne uccideva, e più uomini-mostri entravano misteriosamente nella cella. Brulicavano come formiche in un formicaio. Sopra, sotto, ai lati Sylberius era premuto dalla massa abnorme. Da quelle migliaia di bocche usciva un fiato caldo e potente, simile al lezzo cadaverico. Gli occhi bruciavano come se emettessero fiamme. Gli artigli da topo laceravano le carni, penetravano profondamente lasciando solchi sanguinosi, strappando all’uomo, oramai incapace di difendersi, esausto, disperato lunghi e alti singhiozzi, grida di aiuto, forsennate bestemmie…
Vinto il primo attimo di sbigottimento seguito alla reazione di Sylberius, i mostri-uomini ora lo aggredivano, avanzando a plotoni, morsicandolo da ogni parte, aggrappandosi a ogni pezzettino della sua carne. Egli compiva salti mostruosi, quasi arrivando a toccare il soffitto con la testa per scrollarsi di dosso le bestie immonde. Si scagliava contro le pareti, ma se anche ne uccideva erano sempre troppo pochi quelli che morivano in confronto alle moltitudini che sempre più entravano misteriosamente in azione.
La rivolta dei piccoli mostri la vinse sul coraggio e la disperazione di Sylberius.
L’uomo crollò a terra sotto la massa enorme giacque immoto.
IO SONO IL TUO DIO
Era svenuto.
Non seppe neppure lui dire quanto tempo giacque così, nella più completa incoscienza.
Quando riaperse gli occhi, vide che i mostri-uomini si erano ritirati dal suo corpo. Li vide tutti allineati contro le pareti della cella, ammucchiati gli uni sugli altri, i mille e mille occhi fissi su di lui, immobili. Mentre il lezzo che usciva dalle loro bocche contorte lo staffilava.
– Mio Dio! – gli uscì dall’anima, – Mio Dio, aiutami tu!
A quella invocazione gli rispose da ogni punto della cella un’alta, sonora, diabolica risata.
Ai suoi occhi allucinati apparve lo spettacolo di quelle mille bocche spalancate nella risata mostruosa, che sconvolgeva l’intelletto. I piccoli mostri ridevano tutti all’unisono, come se quelle mille e mille bocche fossero una bocca sola.
– Non resisto! Non resisto più!
Sylberius si levò in piedi di scatto. Si buttò contro la porta picchiando i due pugni chiusi in un disperato quanto inutile tentativo di demolirla.
La risata s’interruppe. Il silenzio subentrò nella cella. E allora un altro evento satanico si compì.
I mostri scomparvero d’incanto. Una lingua di fuoco di un bianco accecante si scatenò nella cella, un fitto, acre velo di zolfo riempì l’ambiente e la presenza incorporea di un personaggio satanico apparve a Sylberius.
– Io sono il tuo Dio!
IL PRINCIPE DEGLI INFERI
Sylberius indietreggiò fino alla parete. Vi si appoggiò con le spalle vinto da un più grande terrore.
– No, no!… – cominciò a balbettare, – no… no!…
Il personaggio era tutta un’ombra nera, attraverso di esso, Sylberius vedeva la parete di contro: era un essere immateriale e tuttavia era un essere reale, ben vivo e ben vero. Era là, dinanzi a lui. E ghignava nella sua terrificante bellezza.
Sì, Satana era bello come un angelo e malefico come il demonio.
– Io sono il tuo dio!
– No, no…
– Ricordi la maledizione di Aybinong?… Aybinong lo schiavo che ripudiò il Dio d’Amore e strinse alleanza con me, il Dio del Male? Tu sei il discendente di Aybinong. Ma tu credi nel Dio d’Amore… Ma sarai tu che rinnoverai il patto fatto dal tuo antenato. Sarai tu che questa volta rinnegherai la tua fede per la mia…
La risata stridula, infernale si ripercosse nuovamente tra le quattro pareti che parvero crollare.
Sylbergius tremava come un virgulto percorso dal vento. Era incapace di connettere, una paura arcana, un terrore invincibile lo dominavano togliendogli ogni capacità di pensare, di riflettere, di reagire. Subiva la presenza dell’altro, si sentiva soggiogato dal potere malefico che emanava dal maligno.
– Che debbo fare… che debbo fare?… – balbettava Sylbergius, scrollando la testa a destra e a sinistra come un automa. – Che debbo fare?…
– Rinnega, rinnega il tuo Dio!
Sylbergius cadde in ginocchio, affondò la fronte nello strato di fango impregnato dell’acuto odore di zolfo, fu scosso da profondi singhiozzi:
– Rinnego il mio Dio! – gridò con la disperazione nella voce. – Rinnego il mio Dio!
Alta e breve risuonò la risata.
– Sei libero!
UN ALLUCINANTE SPETTACOLO
Ci fu subito come una vampata, poi le quattro pareti caddero e il rumore dei calcinacci e la polvere che si sprigionò da essi furono terribili.
Della presenza del signore del male più alcuna traccia. Sylbergius si trovò ricoperto di polvere, gli abiti a brandelli, i capelli incanutiti, il volto disfatto, pieno di rughe, gli occhi sbarrati, come quelli di un folle.
Mosse alcuni passi. Al di là dello squarcio era tutta una rovina. Quello che era stato un tempo il corridoio delle prigioni non era altro che una montagna di macerie.
Passo dopo passo, con una lentezza esasperante, cercando di vincere la debolezza che lo pervadeva tutto, Sylbergius uscì dall’edificio che ormai non esisteva più, rivide la luce del sole e allora lo spettacolo di un’intera rovina gli apparve.
St. Pierre non esisteva più.
Tutto era stato distrutto. I cadaveri si ammucchiavano tra le macerie. Braccia, teste apparivano staccate dal resto dei corpi che si trovavano chissà dove.
La città era morta.
Il negro, il discendente dello schiavo che aveva lanciato la maledizione su St. Pierre e sulle generazioni venture stringendo alleanza con le potenze dell’Inferno, era l’unico superstite. Era rimasto solo.
Egli aveva rinnovato il patto. Tra cento anni St. Pierre avrebbe risubito il malefico cataclisma, puntualmente. Tra cento anni un discendente di Sylhering avrebbe rinnovato il patto infame.
NOTE
Racconti rari dell’orrore riscoperti da Sergio Bissoli. “Il terrore di St. Pierre” di Mario De Rentibus, apparso nel 1962 in “I Racconti del Terrore 5”, collana edita da Gino Sansoni Editore, e pubblicato per la prima volta su Planet Ghost.

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