Il canto del mare

Una bonaccia oleosa appiattisce il mare sotto il cielo livido. Sull’orizzonte rotolano nubi panciute tinte di rosso. Il mondo è in attesa.
La bambina si ferma per qualche istante, fissando l’acqua. I suoi piedi percepiscono la levigatezza dei ciottoli, gli alluci intuiscono le sottili vene di colore celate nell’apparente compattezza grigia di ogni più piccolo sasso.
Quel luogo le è familiare. Lo riconosce con ciascuno dei cinque sensi. La fragranza salmastra; il grigiore della parete di roccia alle sue spalle; il sapore di alghe fresche che le resta sulla lingua a ogni respiro; il rumore delle minuscole onde tra la sabbia della riva; il contrarsi dei capillari alla frescura della brezza.
L’aria trema ancora sotto l’impeto della sua corsa, e presto si lacererà come una placenta per lasciar emergere gli inseguitori.
La bambina si guarda attorno. Solo mare e roccia. Nessuna via di scampo.
Un istinto ancestrale le schiude le labbra.
Il canto le vibra nella gola. Qualcosa di mai sperimentato prima d’ora, ma scritto nel suo codice genetico, e che il suo corpo riconosce. Come il primo vagito, il canto scuote il mondo.
E l’acqua comincia ad animarsi. Piccole increspature che con il progredire della melodia mutano in onde. La liquida massa nera, solo poco prima immota, gonfia, si cresta di spuma.
Poi, loro appaiono. Una a una. Le carni incrostate di madreperla, alghe di lontani oceani intrecciate tra i lunghi capelli fluttuanti. Le squame della coda rilucono d’argento. Le lunghe dita palmate stringono falci di corallo.
Salgono dal mare in risposta al suo richiamo; amiche, salvatrici, sorelle! La bambina si slancia verso la battigia mentre alle sue spalle risuonano le grida degli uomini: grida rabbiose di belve derubate della preda.
*
Alessia si svegliò. L’alba sporcava di grigio i vetri della finestra.
Per un attimo restò immobile ascoltando i rumori dietro la parete. Sua sorella Carolina dormiva ancora profondamente. Sotto le palpebre chiuse, sicuramente scorrevano logaritmi e formule matematiche. La futura prof.! Dormiva con la pacifica immobilità di un Buddha eppure, Alessia lo sapeva, le sue palpebre si sarebbero spalancate sugli occhi ancora acquosi di sonno mezzo secondo prima che la sveglia suonasse. E al primo squillo Carolina sarebbe rotolata fuori dalle coperte; al secondo, in un solo rapido movimento avrebbe afferrato la vestaglia e ficcato i piedi nelle pantofole; il terzo squillo l’avrebbe seguita in corridoio, fino alla porta del bagno.
Alessia ficcò la testa sotto il cuscino, cercò di riafferrare il sogno. Già troppo lontano. Ma non importava. Si sarebbe ripetuto, e presto. Accadeva da mesi, ormai.
*
Prima di entrare in cucina, si scrutò furtivamente nello specchio dell’ingresso. Era così diversa dalla sua matronale e brevilinea sorella! Sottile, con i fianchi stretti e una grazia di danzatrice in ogni gesto, e lunghi capelli lisci, di un castano lumeggiato da fili biondi. I capelli di Carolina, invece, erano crespi e opachi, inamidati dalla messa in piega.
Alessia sorrise complice alla propria immagine. Quale miglior prova. Lei non apparteneva a quella famiglia. Ma doveva continuare a fingere, almeno ancora per un po’.
Compose il volto minuto in una maschera di sedicenne assonnata, ed entrò in cucina.
Carolina era già lì, e dondolava con la sua gravità pachidermica nel breve spazio tra fornelli e lavandino.
Carolina aveva un ingannevole aspetto placido: palpebre sempre a mezz’asta su globi oculari un po’ sporgenti, un sorrisetto saccente sulla bocca carnosa, e tanti soffici cuscinetti di cellulite disposti ad arte su tutto il corpo, a celare gli spigoli del carattere. Con gesti sbrigativi versò latte e caffè nella tazza e la porse a sua sorella.
«Spicciati, che mi fai fare tardi.»
Alessia si guardò attorno nella piccola cucina. Ditate d’unto sugli sportelli dei pensili, presine non coordinate agli asciugapiatti: l’assenza di una madre era evidente.
«Papà non viene a casa per mezzogiorno» continuò Carolina versando detersivo liquido color cedrata sui piatti della sera precedente ammonticchiati nell’acquaio. «Ha un pranzo di lavoro.»
Alessia non fece commenti; in silenzio, scartò il plum cake allo yogurt.
Alzando la voce per sovrastare lo scroscio dell’acqua, Carolina disse ancora: «Nemmeno io ci sarò. Questo pomeriggio ho lezione. Puoi andare al fast food se non ti va di cucinare».
Come le adolescenti della pubblicità, a gonfiarsi la pancia di Coca-cola e patatine bisunte. Alessia annuì. Il plum cake era cotone tra lingua e palato.
*
Ogni battito di ciglia, come lo scatto di un otturatore fotografico. Click, click, click. Istantanee del Porto Antico nella luce piatta di una mattina di foschia. Click: l’edificio degli ex Magazzini del Cotone, snaturato dal restauro, disteso come un dolmen di cemento per tutta la lunghezza del molo. Click: le Mura del Barbarossa, pietra vetusta sopravvissuta al processo di modernizzazione dell’area portuale. Click: Porta Siberia, massiccia eppure immateriale, come lo scenario di cartapesta di un film in costume. Click: la bianca struttura del bigo, l’ascensore panoramico, che sembrava alzarsi dall’acqua verde come un fascio di pallide canne.
Mentre camminava lungo il molo, Alessia lasciò scivolare lo sguardo verso il mare aperto. Il grigiazzurro del cielo, troppo annacquato, sembrava sbavare oltre la linea appena percettibile dell’orizzonte. Niente onde. La mattina appariva immobile. Quasi.
Alessia si fermò; si voltò adagio verso la città, con il movimento aereo di una pattinatrice in un axel al rallentatore. Alzò lo sguardo.
Il profilo della grande strada sopraelevata tranciava a metà lo sfondo di vecchie facciate scolorite dal salino. Il traffico, sostenuto ma fluido, scorreva via come un interminabile centopiedi di metallo.
Alessia socchiuse gli occhi, cercando di escludere ogni senso che non fosse l’udito.
La prima volta in cui aveva percepito il suono era novembre, verso sera. Camminava in fretta, diretta in libreria per ritirare un libro che aveva ordinato, “I canti di Maldoror” di Lautréamont. Il vento soffiava dal mare; teso, ma non violento.
Quando, d’improvviso, l’aveva udito. Aveva un timbro così familiare che lei si era fermata di colpo, come se qualcuno l’avesse chiamata per nome.
Naturalmente non era così. Ma ugualmente si era guardata attorno. Gli edifici fieristici, abbandonati e scuri; la grande scatola di vetro e cemento che ospita l’acquario; le insegne dei pochi esercizi installati in quel cimitero di belle speranze che secondo le intenzioni degli architetti sarebbe dovuto divenire un’avveniristica zona commerciale.
Nulla di vivo, a parte il mare.
Alessia si era voltata verso la sopraelevata, tendendo l’orecchio. Aveva ascoltato le auto incunearsi nel vento con il consueto gemito ferruginoso; i fari sforbiciavano il compatto tessuto dell’illuminazione stradale; insegne colorate singhiozzavano sui muri degli antichi palazzi… Non seguivano il ritmo del suono.
Alessia aveva già sentito parlare del misterioso “canto della sopraelevata”, ma lo considerava una leggenda metropolitana, niente di più. Il vento rifratto dalla grande struttura di cemento e acciaio: questa la spiegazione razionale del fenomeno. Ma Alessia ne comprese all’istante l’assurdità.
Quello era un canto; non un rumore che a tratti, incidentalmente, si modulasse in suono. Ma un canto vero e proprio, a più voci, variegato e complesso. E non nasceva dalla soprelevata. Veniva dal mare. La struttura di acciaio e cemento si limitava a fungere da amplificatore, da decodificatore, rendendolo accessibile alle orecchie degli abitanti della terraferma. Perché quella polifonia non scaturiva da gole umane. Aveva esattamente la stessa cadenza del canto delle sirene nei suoi sogni.
*
«È quasi una settimana che non vai a scuola.» La voce di Carolina, acuminata di stizza, trafisse Alessia a tradimento, mentre cercava di sgattaiolare non vista in camera sua. «Ho trovato sulla segreteria un messaggio della tua prof. d’italiano.»
Alessia si strinse nelle spalle e cercò di raggiungere la porta della sua camera da letto, ma la sorella le sbarrava il passo. Sembrava riempire tutto il corridoio. «Papà sta facendo un mucchio di sacrifici perché tu possa studiare!» La consueta litania accusatoria. «E tu così lo ripaghi!»
Senza dir nulla, Alessia sgusciò tra la parete e quel blob fremente che era sua sorella, badando a non sfiorarla, e raggiunse la porta della propria stanza.
«E neanche ti degni di rispondere!» Parole che suonavano come sputi. E poi il colpo basso; quello che, secondo Carolina, avrebbe dovuto farla piegare su se stessa, piangente e umiliata come una Maria Maddalena pentita. «Ah, se la mamma ti vede da lassù…»
Non avrebbe cambiato le cose, così come non aveva mai saputo, o voluto, cambiarle quando ancora stava al mondo. Troppo difficile da gestire, quella figlia silenziosa, enigmatica come una creatura degli abissi più profondi. Troppo diversa dalla concreta e rassicurante figlia maggiore. La madre non avrebbe mai sentito la mancanza di Alessia. Alessia non sentiva la mancanza di sua madre.
Scivolò in camera.
*
Con la sicurezza di una cieca nata, trovò al buio gli interruttori dei faretti. Dai quattro angoli della stanza, un morbido chiarore sottomarino dilagò su mobili e pareti. Alessia aveva sostituito le comuni lampadine con altre verdi e azzurre, così che quella sua porzione privata di mondo sembrava davvero rubata all’oceano. La tapparella, accuratamente chiusa, teneva a bada gli importuni bagliori della notte cittadina.
Gettò lo zainetto sul letto, tra pupazzi di stoffa e cuscini colorati, e si avvicinò alla scrivania. Dal nascondiglio segreto, sotto l’ultimo cassetto, trasse il suo diario.
Non era un diario come lo si intende comunemente; lei non sentiva alcun bisogno di raccontare a se stessa la piattezza della quotidianità. Quelle pagine erano preziose. Anche se il quaderno era di carta riciclata, aveva comunque lontane origini nella morte di un albero. Non doveva andare sciupato. Lo sfogliò. Le pagine le frusciavano sotto le dita con il suono di onde tra la sabbia.
Poesie, canzoni, fotografie, ritagli di giornale, disegni. Il mare respirava in ogni singola parola, ogni tratto di matita, ogni immagine.
La descrizione del suo segno zodiacale, ritagliata da una rivista di oroscopi: tutta la mutevolezza dell’acqua in malinconie inesplicabili e altrettanto immotivati attimi di gioia; la pigrizia della luna che si specchia sul mare in bonaccia; la tenacia del mollusco che nessuna tempesta strapperà dallo scoglio; l’arrendevolezza dell’alga che s’abbandona alle correnti.
E poi due, tre pagine piene di riproduzioni di quadri di René Magritte: il mare piceo, screziato di spuma e saette de “La traversata difficile”, con i suoi velieri sperduti e fragili; le onde verdi sovrastate dal ciclopico masso sul quale il “Castello dei Pirenei” sembra germinare come una casuale verruca; e ancora un burrascoso oceano ritratto nell’atto di ingoiare un altro vascello, ma dominato in primo piano dal torso di una Venere di Milo adorna di gemme e morbide ombre carnose. E infine il suo preferito, “L’invenzione collettiva”: una sirena spiaggiata, bizzarra creatura ribelle a ogni icona leggendaria, con capo di pesce e gambe di donna.
E brani letterari, ricopiati con calligrafia nitida, appena sporcata da qualche involontaria ghirlanda infantile, che raccontavano delle sirene e di tutte le altre Figlie delle Acque, creature degli oceani o dei laghi, abitatrici di grotte sottomarine e anse di fiume.
Le perfide incantatrici nate dal sangue di Acheloo, al cui richiamo soltanto Ulisse seppe resistere, e che soltanto la lira incantata di Orfeo seppe azzittire; insidiosi demoni meridiani che nell’ora senz’ombra acquietano i venti e creano miraggi, approfittando della sonnolenza dei mortali per sedurli; e le Oceanidi “dalle sottili caviglie” di cui racconta Esiodo; le Memnosini, figlie delle sirene e dei soldati del faraone annegati nel Mar Rosso, compositrici di canzoni popolari; Scilla l’Abbaiatrice, che trascina le navi contro gli scogli; e Loreley, con la sua arpa d’oro e la voce d’argento, che perdette se stessa per pietà d’un mortale; Adrika, maledetta dal dio Brahma; la Dama del Lago, custode di Excalibur; Melusina costruttrice di castelli. Quei miti erano quasi tutti negativi, e in essi le sirene venivano viste come crudeli seduttrici, affamate d’anime di annegati. Falso, anche se logico dal punto di vista degli umani che non comprendevano e non sapevano vedere la realtà attraverso la trasparenza dell’acqua. I vortici dei fiumi e dei laghi non sono che porte d’accesso a un’altra dimensione; e gli abissi marini non sono luoghi insidiosi, né bui. Alessia lo aveva appreso dai libri di scuola: una delle poche cose utili che la cultura istituzionalizzata le avesse insegnato.
Gli abissi marini assomigliano alla notte nella savana: stelle, lucciole, e occhi di predatori. E lei, subito, aveva amato quelle profondità e i suoi abitatori, furtivi e indifferenti al mondo di superficie, sconcertanti come incubi mitologici, adorni delle arcane luci dei fotofori. Nei suoi sogni la vipera marina snudava i denti acuminati; il linofrine dondolava la sua lanterna, trascinandosi dietro la bizzarra escrescenza a forma di radice; e lo stomia boa incedeva lungo le correnti con la solennità di un drago giapponese, nello splendore adamantino delle sue squame esagonali.
E ancora, altri frammenti letterari e poetici che cantavano l’oceano e i suoi abissi: brani tempestosi di Byron e Lautréamont, le liriche salmastre di Montale, gli orrori ancestrali di Lovecraft e il vorace Maelstrom di Poe. E poi, in un accostamento che non si curava d’irriverenza, testi di canzoni: dall’insinuante “acqua azzurra peccaminosa e piena di desiderio” di “Wishful sinful” dei Doors al malinconico “Mare d’inverno” cantato da Enrico Ruggeri.
Infine, i versi che più amava. Essenziali eppure evocatori, appartenevano a una antica ballata irlandese: “Sono un uomo sulla terra, sono un Silkie in mare”. Silkie, creature d’acqua e mistero, che una volta all’anno lasciano la loro dimora sottomarina per unirsi a femmine umane, e generare dei figli. “E avverrà in un giorno d’estate / quando il sole splende su ogni muro / verrò a prendere il mio bambino / e gli insegnerò a nuotare tra la schiuma…”
Doveva essere accaduto così. Squame lucenti sotto la luna, in una notte d’estate; dalle scure acque del porto fino alla piccola casa sulla collina. Ma la leggenda, questa volta, non aveva conclusione. Nessun Silkie si era mai ricordato di venirla a prendere.
*
Sotto il sole, il mare è turchese e lapislazzuli. L’orizzonte, teso come un arco, scaglia dardi di spuma nel cielo.
La bellezza delle onde in un’aria purificata dal temporale! La bambina la respira a fondo; poi s’incammina verso la riva.
L’ombra di un gabbiano la sfiora. L’acqua le lambisce le caviglie.
“Tu sei più bello della notte. Rispondimi, Oceano. Vuoi essermi fratello?”1 . “Sì”, canta un’onda ai suoi piedi.
E la bambina si lascia scivolare nell’azzurro.
*
«Oh, ma mi stai ad ascoltare?»
Alessia distolse lo sguardo dalla finestra. Carolina, seduta dall’altra parte del tavolo, srotolava in fretta i bigodini che aveva tenuto in testa per tutta la notte. I riccioli rigidi le contornavano il viso in una acconciatura stile Medusa.
Alessia sorrise. «Dicevi?»
Carolina sospirò rumorosamente. «Che quando esci da scuola, passi a prendere il pane. Io non faccio a tempo.»
Alessia annuì e tornò a fissare la finestra. Il mattino aveva colore di pioggia.
*
I delfini hanno sul muso un eterno sorriso, che non è davvero un sorriso; ma agli umani non importa, amano credere che i delfini siano sempre felici, anche quando li obbligano in una finzione d’oceano accerchiata da occhi sgranati. Ma, probabilmente, Cleo era davvero felice. E sembrava l’immagine della vita stessa; vivace e giocosa, guizzava nello spazio ristretto della vasca accanto a sua madre. Era nata in cattività, inconsapevole delle vastità verdeazzurre. O qualcosa, nel suo DNA, secerneva malinconia a ogni grido di gabbiano?
Desiderare, e non sapere cosa. Nostalgia di spazi mai conosciuti.
Alessia guardò la piccola delfina avvicinarsi alla parete di vetro. Il suo sorriso, così vicino… Alessia alzò la mano destra, accennando un saluto. Mi riconosci? O per te non sono che un volto tra i tanti? Abbiamo mai nuotato fianco a fianco, in un’altra vita?
*
«Avevi promesso e invece hai marinato la scuola anche oggi. E dov’è il pane?»
Alessia si strinse nelle spalle.
«Sei stata in giro tutto il giorno! Si può sapere dove sei andata a cacciarti?»
«All’acquario.»
«Mi prendi in giro?»
Già, la verità suona sempre così falsa. In piedi accanto al frigorifero, Alessia chiuse gli occhi, attendendo con masochistico languore lo schiaffo. Che Carolina la colpisse pure con quella sua mano larga e tozza; lei non avrebbe sentito nulla. Uscita dall’acquario, aveva vagato talmente a lungo nella piovosa sera invernale, imbibendosi gli abiti e la mente di acqua e oscurità, da divenire acqua e oscurità lei stessa. Acredine e violenza non potevano toccarla.
Carolina non la colpì. Forse la sua mente logica aveva recepito l’invisibile mutazione occorsa nella sostanza della sorella; o probabilmente pensava che uno schiaffo non fosse necessario, bastava la durezza della voce.
«Fila in camera tua! E cambiati quei vestiti, sono tutti bagnati!»
Alessia sorrise al proprio segreto. Quel lieve orlo di umidità in fondo alla veste. Il solo indizio che permette di riconoscere un’Ondina da una comune mortale.
*
La musica si dilatava nella stanza come un’onda gonfiata dal vento, e la voce galleggiava in superficie, lieve come spuma. Modulava parole su una solenne cadenza di cante honde, ed era eco in una cattedrale, lontano richiamo al fondo di una grotta.
“Yo; el otoño / Yo; el vespero / He sido un eco / Seré una ola / Seré la luna / He sido todo, soy io /… Soy la soñadora…”2
Parole di verità. Qualcuno le aveva scritte per lei; e per un altro migliaio di sognatori spiaggiati lungo le coste aspre della realtà.
*
Tutto è azzurro. Azzurro e luminoso.
Quasi sfiorando la sabbia, la bambina nuota sul fondo del mare, ed è come nuotare nel cielo. Forme lucenti le scivolano accanto, silenziose e lievi come fiocchi di neve; le alghe si muovono attorno a lei in una carezza.
Alza lo sguardo. La luce del sole le piove negli occhi come polvere di cristallo. Sembra che il cielo stesso si sia frantumato e cada lentamente attraverso l’acqua. Quei frammenti d’azzurro non possono ferirla. Si sciolgono in pura luce. Lì è al sicuro. Nessuno può farle del male.
Muove la coda d’argento e smeraldo, suscitando nuove correnti. Ride; un baluginio di perle e corallo bianco.
È a casa, finalmente.
*
Aveva trascorso un’altra intera mattina all’acquario, in un dialogo di sguardi e silenzi con la piccola delfina. L’immutabile sorriso era l’unica risposta di Cleo.
Ora Alessia passeggiava lungo il molo, davanti ai Magazzini del Cotone. Il Porto Antico era deserto, nel mezzogiorno piovoso. Pioveva così forte… Sembrava che il cielo tentasse di ricongiungersi alle acque, come al tempo del Caos.
Era passato un anno. Mentre camminava, Alessia chiuse gli occhi. La pioggia le scorreva sui capelli e sul volto, sulle palpebre chiuse, tra le ciglia.
Gli inseguitori erano dietro di lei. Ancora non li vedeva, ma li sentiva. I loro aliti affannati inquinavano la brezza salmastra. Ma lei non aveva più voglia di correre. Era inutile.
Una raffica di pioggia le tambureggiò sulle palpebre. Alessia si fermò di colpo, aprì gli occhi. Era giunta alla fine del molo.
L’acqua color dell’alga morta, agitata dal vento e la pioggia, ribolliva come la pozione venefica nel calderone di una strega.
Ma come possono le sirene vivere in tanto putridume? Come possono, soprattutto, cantare? Forse, quella voce che lei udiva non era che un ricordo imprigionato dal vento nel cemento; un’antichissima memoria incrostata come il sale sui muri delle vecchie case.
No. Loro erano là. E cantavano. Anche adesso.
Alessia tornò a chiudere gli occhi. Sentiva scorrere nelle vene correnti atlantiche, tsunami le squassavano il corpo. Barcollò sull’orlo di un abisso più profondo della Fossa delle Marianne, più insidioso del Triangolo delle Bermude.
Quante volte ancora l’avrebbero raggiunta, quante volte si sarebbe ripetuto quel terribile rituale di aliti fetidi sulla sua bocca, e mani sudice e crudeli che la frugavano… Senza che le sirene muovessero una sola squama d’argento per salvarla.
Cosa vi ho fatto? Perché mi rinnegate?
Era passato un anno. Un anno esatto. E lei si era stancata di aspettare.
Non mi prenderanno più.
Anche se al sogno seguiva sempre un risveglio, e nella realtà le sirene restavano sorde al suo grido d’aiuto. Erano là, da qualche parte tra l’orizzonte e la banchina frangiata di alghe: e cantavano; come nella storia di Ulisse, cantavano.
Non c’era che un modo per continuare a sognare.
*
«Si può immaginare come ci sono rimasta quando l’ho letto.» La professoressa Tota prese il foglio protocollo da una cartelletta e lo porse a Carolina che sedeva dall’altra parte della scrivania. La calligrafia nitida di Alessia si svolgeva sulla pagina senza cancellature o incertezze: il tema portava la data di dieci giorni prima. «Chiunque lo legga» continuò la professoressa aggiustandosi gli occhiali sul naso con la punta del dito medio, «potrebbe giurare che sua sorella abbia vissuto quella tremenda esperienza in prima persona».
Carolina scosse la testa, volse lo sguardo intorno come a cercare aiuto dalle impersonali pareti bianche. La pioggia percuoteva i vetri e finiva di spogliare il tiglio nel cortile della scuola.
«Assurdo! Lei sa come sono andate le cose!»
«Certo. Valentina Pozzi era una mia alunna. E la migliore amica di sua sorella.»
«Alessia si sentiva colpevole. Io ho tentato di spiegarle…»
Aveva tentato, sì, Carolina: con tutta la sbrigatività del suo spirito pratico e un’alzata di spalle. “Se l’è cercata, dopotutto”. Insomma, una lite poteva anche succedere tra amiche del cuore. E Valentina era stata oltremodo imprudente a lasciare la pizzeria e incamminarsi da sola, sotto i portici di Sottoripa, a quell’ora di sera in cui tossici e malintenzionati d’ogni genere iniziano i loro giri. Con quella minigonna, poi… Valentina portava sempre gonne troppo corte. E si truccava come una puttanella. Sventata e incosciente. Nessuna meraviglia, se era finita violentata e ammazzata a coltellate a quindici anni.
Carolina sospirò. Sì, se l’era proprio andata a cercare.
*
L’acqua è notte. Priva anche della più piccola stella. Densa. Fredda. Alessia affonda nel buio. Niente coralli e perle, né opalescenti nemicti con cui adornarsi i capelli. Solo alghe in decomposizione e rifiuti. Catene d’ancora corrose. Molluschi invischiati nel catrame.
Il mare è morto. Morto! Niente accoglienti braccia di sirene, niente falci di corallo con cui difendersi dalla crudeltà degli umani. Gli umani hanno già vinto. Uccidendo il mare.
Alessia apre la bocca per urlare il suo sgomento. Una fetida sorsata di liquido nulla le inonda la gola e i polmoni.
*
La piccola delfina si svegliò. Aveva fatto uno strano sogno. Era una di quelle creature prigioniere aldilà del vetro e voleva fuggire, fuggire…
Un gabbiano, sorvolando la vasca, gridò.
Oceano, diceva il grido. Un dolcissimo suono senza senso.

(1) “I canti di Maldoror” – Lautréamont
(2) “La Soñadora” – Enya & Roma Ryan

L’AUTRICE
Gloria Barberi debutta nel mondo del Fantastico all’inizio degli anni ‘80 sulle pagine delle fanzines SF…ere e Pulp cui fanno seguito pubblicazioni su riviste e periodici sia amatoriali che professionali. Il racconto “La notte di san Valentino” è apparso in Francia nell’antologia “Cosmic erotica” successivamente edita in Italia da Fanucci. Presente anche in diverse antologie di autori vari edite da Il Cerchio (Rimini) a seguito di vittorie e piazzamenti al Premio San Marino.
È autrice di due antologie personali: Racconti Notturni edito da Primordia (MI) e Come le bambole di notte (Montedit, MI) e di alcuni romanzi: I Custodi apparso su The Dark Side n° 34; Le viscere del Diavolo (Diesel Extra); Lo specchio scarlatto (Diesel Speciale “Pastiche”).
Nel 1987 collabora alla trasmissione radiofonica “Galactica” di Radio Time di Scandicci (FI). Da qualche anno si occupa di teatro in veste di attrice/caratterista nella compagnia del Teatro Stabile San Giuseppe di Ruta di Camogli, del quale cura la pagina Facebook, ma anche di autrice. La pièce “Il palazzo della Notte” ha vinto nel 2001 il premio Città di Moncalieri ed ha partecipato in seguito alla rassegna Aquilegia blu (Torino, 2002) nell’interpretazione dell’attrice Franca Berardi.
Tra i premi conseguiti per la narrativa fantastica ci sono il Premio Italia, Lovecraft, Courmayeur e Repubblica di San Marino.
Negli anni ‘90 ha lavorato come traduttrice per la casa editrice Nord e per la rivista esoterica Primordia, oltre che per alcuni privati.
Appassionata anche di poesia, fa parte da diversi anni del gruppo di scrittura “Anna di Vienna” che prevede incontri a cadenza mensile su un argomento a tema e un reading/spettacolo a fine stagione, con lettura di poesie e prosa, siparietti teatrali, proiezioni video e musica dal vivo.
Nella primavera/estate del 2019 è uscito a puntate on line su Club Ghost il feuilleton “L’occhio sinistro di Horus” ispirato alla scoperta della tomba del faraone Tutankhamon, in seguito pubblicato dalla casa editrice Lindau di Torino con il titolo “La maledizione del faraone”.
Chi desiderasse approfondire queste notizie può cercare in rete, su Fantascienza.com e altri siti.

Sirena

Gloria Barberi

Tutti i diritti riservati ⓒ per immagini e testi agli aventi diritto.




Nekroeconomy di Sandro Battisti

(Precedentemente uscito su Cronache dell’Armageddon, k_noir, Kipple Officina Libraria, 2020, come omaggio a Sergio Alan D. Altieri)

Sembrava
un suono inverso quello che si stava abbattendo sulla sua coscienza.
Vigile fino a pochi istanti prima, con la stessa continuità del
reale la scena cui stava assistendo aveva improvvisamente mutato
quinte: Alan era stato catapultato in una stanza oscura, ma
familiare, in cui una parete fittizia occultava una porzione del
vano, come se ci fosse un’altra stanza.

Era
divenuto notte. Si trovava in compagnia di qualcun altro, ma sapeva
che egli stava alle sue spalle; lo conosceva bene però questi non si
palesava, e poi per qualche strano motivo Alan aveva preso a
raccontargli cosa si celasse in quel piccolo antro, su cui si apriva
una finestrella rimovibile formato A3, di compensato come lo era
tutta la parete divisoria.

Alan
si sporse oltre il leggero materiale compresso e valutò con una
smorfia il buio che gravava lì dentro; provava una nota di disagio
crescente, annaspò col braccio sinistro oltre la frontiera di legno
e non gli riuscì di trovare nulla di ciò che cercava – “Alan,
cosa cerchi?”, si domandò tra sé e sé – e solo a quel punto
accese la torcia del suo smartphone per far luce sul mistero
oltrecortina: non trovò nulla ed ebbe l’idea di illuminare la
parte opposta del vano, prendendo il telefono con la mano sinistra.
Un braccio inanimato calò sulla sua coscienza, con orrore ne percepì
visivamente la mollezza propria di un arto senza vita: sembrava che
un cadavere vestito di una giacca chiara, a trama spessa e pesante,
mostrasse appena una mano rimasta fissa in una posa da artiglio. Lo
sconcerto maggiore però Alan lo ebbe subito dopo, quando
convulsamente spostò il fascio di luce dello smartphone verso
l’alto, cristallizzando così un abisso di angoscia inenarrabile in
cui il resto dell’orribile figura, dal volto nascosto, incombeva su
di lui sporto poco oltre la finestrella del vano. Nell’altra mano
della figura inanimata c’era una grande moneta, con su scritto
qualcosa di talmente eliso da risultare illeggibile.

Codici
arcaici e inumani segnarono istantaneamente la coscienza di Alan;
interi universi di simboli occulti e di articolate grammatiche
semantiche, incomprensibili agli umani, sembrarono raccontargli
strani episodi di ciò che poteva accadergli. Si sentì coinvolto in
un terribile gorgo di evocazioni orrende, non sapeva fino a che punto
sgorgate scientemente dai suoi interessi per le divinazioni magiche.
Prima ancora di operare una sola profezia, l’intero sistema occulto
di quegli universi gli lanciava dei moniti inequivocabili, come se
gli si volesse presentare con la gran potenza dell’insondabile;
subvocalizzò nel sonno dei mugugni, echi superficiali di un orrore
molto più profondo, mentre le mosse scomposte che assumeva nel letto
in cui dormiva completavano l’incubo in cui era precipitato.

Klelia
gli era accanto, lo scosse: – Alan, cos’hai, stai bene? – Lui
aprì gli occhi, era ancora immerso nell’abisso di raccapriccio in
cui ancora si dimenava. – Hmmm – disse, e tentò di sorriderle,
ma si sentiva immobile come il cadavere del mago che continuava a
penzolargli addosso, nella sua coscienza trascendentale.

– Stai
bene? – gli reiterò.

– Solo
un brutto sogno; è così difficile riconoscere il reale – le
sussurrò, ancora stordito dalle immagini orride e nere che
galleggiavano nella sua psiche – Che ore sono? – le chiese poi
improvviso, scorgendo la luce solare filtrare dalla serranda.

– Le
8.45! – gli rispose allarmata, doveva essersi svegliata anche lei
poc’anzi; preoccupata dai lamenti di Alan, non doveva aver
considerato l’orario.

Un
banner olografico s’insinuò tra loro, avvolgendoli in spire di
caldo citazionismo sintetico: “Alan e Klelia, il momento delle
opportunità professionali è in attesa di sviluppo, non lasciamo
soffrire ulteriormente le linee di business”. L’appello veniva
reiterato ogni quindici secondi; era martellante, ossessivo. “Il
business sta soffrendo”, era poi aggiunto in tono neutro, lasciando
però filtrare dal messaggio un senso di allarme angoscioso. Il
risultato dei richiami alla produttività del mondo iperliberista era
opprimente, affliggeva con gli inviti di un Mercato divenuto vivo e
in perenne espansione, lontano dal realizzarsi e per questo ancora
più pressante nei suoi richiami.

– Gli
incubi divengono veri
– notò cupo Alan – un po’ troppo spesso.

Guardò
la sommità del cielo che intravedeva come uno spicchio tra le
impalcature degli ologrammi; riabbassò gli occhi, preso da uno
sconforto tremante del sogno ancora vivido in un qualche rivolo
quantico del reale. – Siamo pronti per il nuovo salasso? –
domandò rassegnato a Klelia; un senso di pesantezza prossimo al no
hope

li accomunava, “Siamo solo all’inizio della giornata”. Sentì
bussare forte alla porta.

– Aprite!
Prelievo forzoso!

– La
PolBeez?
– esclamò sorpreso Alan a bassa voce, col tono proprio del
bisbiglio isterico. – Presto, di
,
ci stanno per prendere! – concluse verso Klelia. Ma non ebbe tempo
di far nulla.

La
porta venne giù dai cardini elettronici con uno schianto degno
dell’epoca analogica. Subito le guardie private, mandate da
sentinelle liberiste disincarnate, irruppero a due a due
nell’appartamento; erano autorizzate a far ciò, molto più degli
agenti di Polizia statale. La PolBeez
era la mano armata militare del Business, i suoi modi erano di chiara
ispirazione nazista e la sua giurisdizione era totale, oltrepassava
il fatiscente concetto di Stato, considerati dal sistema economico
dei vuoti contenitori giuridici da molto tempo assorbiti dal Mercato.

Alan
sentì risuonare dentro di sé il riff di NWO,
i Ministry di un tempo guidavano la sua ferocia anarchica verso la
ribellione a sistemi invasivi di controllo; si ripeté a denti
stretti, ribollente di un odio repentino che si risvegliava ogni
volta che la costrizione segnava la sua anima:

Io
sono innamorato

del
nostro potenziale di minaccia

Aprire
il fuoco perché

ti
amo da morire

Cielo
alto,

con
un mal di cuore di pietra

Non
mi vedrai mai

perché
io sono sempre solo

…e
fu così che aprì davvero il fuoco, estraendo dai suoi slip una
pistola molecolare che portava sempre con sé; la potenza che
quell’arma esprimeva era devastante, in grado di disgregare le
giunzioni del DNA del malcapitato. O dei malcapitati, come in quel
caso.

Gli
agenti della PolBeez
caddero in serie poco oltre la porta scardinata, senza un lamento,
come birilli; – Mi
sono innamorato di un intento doloso

canticchiò subito dopo Alan, mentre prendeva Klelia per mano e,
vestitisi frettolosamente, passavano poi sopra i cadaveri molli delle
guardie private del Business.

– Perché
erano venuti a prenderci? – domandò Klelia.

– Avevamo
appena perso il lavoro, evidentemente. Ci avrebbero portati in
qualche luogo di rigenerazione professionale, pronti per altre forme
di schiavismo marketing.

– Avremo
fatto bene a fuggire?

Alan
la guardò, senza risponderle. Cercava un senso di futuro, ma il
concetto di speranza era una frustrazione continua, dal sapore
disperato.

In
strada, si trovarono faccia a faccia con una pattuglia ausiliaria,
richiamata dal mancato feedback della PolBeez.
Alan e Klelia evitarono i tiri incrociati dei fucili da guerriglia
urbani, grazie anche alle architetture da MassMarket
lì nella via che li schermarono con le offerte commerciali
LastMinute:
Alan fu rapido nel rivestirsi di pannelli luminosi, scintillanti
d’irresistibili meraviglie plastiche da imbonitori; con essi coprì
anche Klelia e così mimetizzati attraversarono rapidi la piazza,
fino ai portici.

– Rimaniamo
un istante qui – le disse sicuro.

– Ci
faranno a pezzi – rispose lei; aveva dentro un senso di
disperazione, dissonante con i jingle pubblicitari ripetuti fino alla
nausea: Klelia doveva averne visti troppi.

– Lo
avrebbero fatto comunque in casa nostra – obiettò Alan; lei gli fu
grata di aver parlato chiaro.

– Di
qua! – una voce che gli risultò familiare li fece voltare
all’unisono, un aiuto insperato?

– Ahmed
– disse trasalendo Alan – non farlo, ti renderanno innocuo! –
cercò di farlo ragionare.

– Sbrigatevi,
invece! – replicò il Mediorientale con un fare convulso. Alan non
disse altro, serrando la mano di Klelia e piegandosi il più
possibile, corsero verso l’anfratto indicato dal tempestivo
alleato.

Il
negozio di Ahmed era fresco. Aveva l’aria di un locale della Grecia
insulare degli anni ’60. – Qui potrete respirare un poco –
disse loro rassicurante, dopo averli sistemati sotto un banco di
mercanzia esotica. – Qui, mettetevi sotto gli scatoloni!
Quegl’imbecilli sono così tecnologici che basta del vecchio
cartone per renderli ciechi.

Alan
sussurrò un piccolo ringraziamento, creando al volo con le sue mani
un sottile origami digitale da donare; glielo porse. Inorridito,
l’altro lo rifiuto precipitosamente: – Sarai pazzo? Vuoi farmi
trovare subito da quelle merde in divisa, con un tracciamento
cibernetico?

Alan
comprese e disattivò immediatamente il manufatto, maledicendosi per
l’imprudenza.

– Scusa
– farfugliò a bassa voce. Poi guardò Klelia: – Dobbiamo stare
in silenzio per un po’, forse c’è necessità di aspettare la
sera per uscire da qui…

– …o
forse dovete attendere anche un paio di giorni – aggiunse
autorevole Ahmed, con un cenno turgido di un dito sul naso; – Fate
silenzio! – continuò, tendendo l’orecchio. Poi spense la luce, e
Alan udì delle voci in sottofondo, pressanti come quelle di un
drappello da rastrellamento. “Siamo in uno Stato militare”,
pensò, “il nostro mondo ha una sfumatura di controllo ossessivo
che non dà spazio alla fantasia”.

– Zitti!
– subvocalizzò Ahmed, cercando di smorzare il rumore di fondo
cerebrale dei due.

– Chi
c’è qui? – urlò una delle guardie ausiliarie appena entrata,
mentre cominciava a rovistare nel sottonegozio.

– Ceci
e banane – urlò un po’ troppo forte Ahmed, in risposta.

– Banane?
– chiese il militare. – Quali banane? Non ne vedo – biascicò
mentre armava il grilletto da esplosione neurale.

– Sei
un figlio di troia… – sibilò allora Ahmed, mentre con lo sguardo
cercava i suoi complici: Abdul, Moham e un altro mastodontico che si
chiamava Hannibal. Irruppero tutti sulla scena sopraffacendo
l’agente, che non ebbe nemmeno il tempo di sublimare il suo terrore
nei canali privati dell’Esercito: Moham gli tagliò la gola, alla
maniera classica mediorientale. Alan e Klelia lo videro accasciarsi
attraverso i contenitori dei ceci, sentirono il gorgoglio dei suoi
terribili lamenti annegati nel sangue a fiotti.

– Presto,
fuggite di qua – disse Ahmed rimodulando ai due il suggerimento di
poco prima: – ora arriveranno a setacciare il locale altre guardie
assieme a tutta la PolBeez,
sarà difficile coprirvi. State tranquilli, diremo che vi siete
nascosti dietro le patate a nostra insaputa, e che avete fatto secco
voi quel pezzo di merda.

Ahmed
indicava il montacarichi verso il porto. Alan e Klelia vi si
tuffarono subito, senza pensarci un solo istante, giù per il budello
in muratura; lui aveva in mano una sorta di scimitarra tascabile che
Moham gli aveva gentilmente passato, un’arma di vecchio tipo che,
però, aveva il pregio moderno di cancellare chimicamente il calco
delle impronte digitali.


in quel pozzo fondo di oscurità, Alan e Klelia si guardavano spesso,
scoprendosi impauriti e spaesati da un luogo così inospitale, assai
diverso dalla loro casa abbandonata soltanto un’ora prima.

– Alan,
siamo in un cul
de sac
!
– diceva lei stridula, e nel frattempo il suo respiro diveniva
affannoso, quasi avesse un attacco d’asma.

– Ahmed
non ci avrebbe fatto cadere in una trappola dopo averci prima
nascosti, non ha senso il tuo timore; aspettiamo ancora un poco per
abituarci all’oscurità, questo budello deve pur avere uno sbocco
al porto, no?

Alan
tendeva l’orecchio e cercava di valutare il brusio di sopra: gli
giungeva artefatto ma convulso, udiva le improvvise accelerazioni
vocali dei mediorientali che rispondevano alla PolBeez;
in pochi istanti, vide comparire davanti ai suoi occhi una mail di
spam-recruiting e solo allora si ricordò che doveva spegnere i
moduli mentali installati nella partizione cerebrale di lavoro.
“Maledetto idiota che sono, solo ora ci penso?”. A piccoli passi
avanzò nel buio, tenendo la mano di Klelia e tracciando mentalmente
degli assurdi percorsi mnemonici, per seminare eventuali sentinelle
cibernetiche sguinzagliate dagli agenti.

– Poco
più in là c’è un percorso fosforescente – disse rassicurante
alla sua compagna.

– Dove?

– Qui…

Si
lanciarono in un altro budello di mattoni, risalente a chissà quale
periodo analogico; il tanfo di muffa li sopraffece più volte e
Klelia fu sull’orlo di uno shock anafilattico improvviso, una paura
mista ad allergia che le tagliò il fiato. Alan fu rapido, subito
dopo il tonfo in una melma indefinita e salmastra, nel baciarla a
lungo, dandole respiro e calore affettuoso.

– Resisti
amore mio – le sussurrò empatico – siamo ormai lontani da quelle
bestie.

Lei
non rispose, quel bacio aveva il sapore di una colata di alici
macerate: fu quasi come annusare dei sali dopo uno svenimento.

Con
il terrore di cosa fosse sommerso sotto di loro, e badando bene a non
trasmettere alcuna forma di panico, Alan mosse lentamente le gambe a
mo’ di elica per portarsi lontano dal punto di caduta. Annaspando
piano all’unisono, pensava, avrebbero potuto guadagnare una qualche
posizione di vantaggio, così da poter capire come e dove fuggire.

– Muoviti
come me, senti i miei piedi cosa stanno facendo? – Alan bisbigliava
all’orecchio della sua compagna invitandola a collaborare.

– Non
abbiamo scampo – gli rispose lei – dove mai potremmo fuggire?

Lui
si bloccò a riflettere. Il tempo gli era contro. Un gorgo nei suoi
pressi lo prese in un vortice, un rumore sinistro plasmò la sua
improvvisa guglia d’angoscia.

– Non
dovete muovervi – intimò loro una voce sintetizzata. Dal buio, una
sottile luce laser scandagliava il settore dove Alan e Klelia si
tenevano a galla.

Furono
avvolti da delle ganasce pneumatiche; gli sembrò di essere
incastrati da una retina da pesca, solo che i nodi erano in grafene
ed emanavano un vomitevole odore salmastro: “È il senso di questo
specchio d’acqua”, pensò tra sé Alan; Klelia invece era già
svenuta, subito dopo lui scoprì che era stata semplicemente
addormentata da un anestetico a contatto, perché subito dopo anche
lui fu anestetizzato.

Quando
aprirono gli occhi, Alan e Klelia erano immobilizzati da una gabbia
antropomorfa modellata esattamente sulle loro forme. “Materiale che
ha memoria degli stati”, comprese Alan a proposito del carapace che
li costringeva all’inabilità.

– Pensavate
davvero di poter fuggire? – chiese una voce impersonale che usciva
dalle pareti, sembrava diffondersi addirittura dalla tinta sbiadita
sul muro, un vomitevole color livido.

– Voglio
non rispondere – si difese Alan.

– Potete
fare ciò che volete. Per quel che vale…

Le
luci si spensero, passò poi una quantità di tempo condensato che
non gli riusciva di quantificare.

– Hai
idea di che ore sono? – gli chiese dopo un po’ Klelia.

– No,
nella fuga ho disattivato le routine da connessione cerebrale –
rispose lui, si scusava unicamente con le tonalità della voce e non
con gli atteggiamenti corporei, ancora bloccati in quella schiuma di
grafene.

L’immagine
di un’alba si formò allora nel subconscio di Alan; il pensiero di
Ahmed e dei suoi amici lo attraversò in un lampo, ma distrusse
subito quell’immagine per preservare i mediorientali dalla cattura,
semmai non fossero già agli arresti. L’alba continuò a
svilupparsi lentamente nella coscienza di Alan ed era un lento salire
sul mare, ammirava un paesaggio subtropicale che emanava aromi di
armonie idilliache; provò così a seguire quel percorso empatico e
nel farlo staccò idealmente il contatto da Klelia, non prima di aver
contrassegnato atomicamente il luogo psichico dove lei si trovava
bloccata. Si tuffò con tutto il suo essere energetico nei flutti
dell’oceano che dominava la sua psiche, inseguendo piccole canoe
sospese sul mare cristallino, intente a pescare.

– Sai
pescare? – gli chiese un uomo, vedendolo avvicinarsi a nuoto.
Stavano in mare aperto, attorno non c’era altro che una potente
luce turchese color del mare; il sole era più alto all’orizzonte.

– Posso
provare – rispose timido Alan.

– È
semplice… – spiegò brevemente l’altro. – Devi soltanto
attendere e non fare rumori. Il sole ti racconterà le sue storie di
eoni.

Alan
tacque. Si sentiva così bene da dimenticarsi ogni cosa di sé. Il
suo stesso nome si stava modificando e il suo ruolo, la sua funzione
nella società in cui si percepiva come cibo psichico, erano
diventati più simili a un costrutto escheriano di trascendenza che a
una gerarchia sociale. Sentiva di essere in balia di una strana
immanenza, nemmeno troppo definita: qualcosa lo stava modificando
integralmente, fin dentro al suo intimo più consapevole.

– Mi
sento diverso – disse infine al pescatore, senza un vero perché se
non la ricerca di un’improvvisa fratellanza.

– Non
si è mai uguali a se stessi – rispose enigmatico l’altro. Alan
percepì nitida la lancinante mancanza al suo fianco di Klelia. Si
sentì smarrito, era un naufrago disperso in un bellissimo oceano di
nulla ostile alla sua umanità; gli sembrò che stesse nuotando in
un’ideologia fasulla ed era come essere immersi nell’Iperliberismo,
in una distopia inumana che sommerge l’umanità. “Gli ambienti
iperreali e belli sono una trappola.”, pensò; “Siete delle
merde: avete contaminato anche la mia idea di trascendenza, avete
fatto tutto pur di costruirmi dentro un universo di falsa
beatitudine”.

Alan
aprì gli occhi e vide accanto a sé il corpo di Klelia, che
trasudava tossine attraverso opportuni pori del carapace di grafene.
Giacevano in una stanza fetida, sporca e con una nuda lampadina del
XIX secolo appesa sul soffitto. Incredulo, sbatté allora gli occhi
per trovare dov’era finito l’oceano su cui galleggiava fino a un
attimo prima, ma la convinzione che quella fosse stata l’ennesima
bugia raccontata da un sistema inumano di condizionamento psichico si
radicò presto in lui: in ogni caso, non era più in grado di capire
cosa sarebbe stato meglio, se vivere in una frottola o nella cruda
verità. Klelia, dal suo canto, sembrava non rispondere più a
nessuno stimolo sensoriale.

Alan
sentì crescere in sé un forte bisogno di rifugio. I ricordi gli
apparvero come la forma più rapida e sicura per potersi rinfrancare.
Quell’oceano così cristallino, su cui fino a pochi istanti tentava
di pescare, gli richiamò alla mente altri istanti perfetti, momenti
della sua gioventù inondati di sole, di una luce estiva accecante
che si rifletteva su muri di calce bianca, di case sul mare e di
vegetazione che frusciava al vento del mattino; il luccichio del
verde intenso degli alberi lo cullava come un’ondata di assenzio,
facendogli esplodere in mente alcuni avvenimenti di cui faticava a
ricordarne l’esistenza. Klelia, anche allora, si muoveva intorno a
lui sinuosa, tra le volute di luce bianca era vestita di un semplice
pareo.

Sembrava
il perfetto risuonare di un istante affilato da risultare instabile,
pronto a precipitare negli abissi del degrado; un punto di svolta
dell’esistenza, il termine di paragone di un’immanenza non più
raggiungibile: Alan era seduto in riva al mare ad ascoltare la
risacca, libero dalle preoccupazioni e pronto ad assorbire i favori
della natura; ogni parola che pensava sembrava possedere l’ombra
nitida di un’epifania trascendentale, sapeva che avrebbe amato
quell’istante per tutti gli anni a venire, e avrebbe ricercato quel
sapore ogni volta che si sarebbe sentito derubato, stanco, afflitto
da eventi tutto sommato inutili, ma disturbanti.

L’istantanea
della perfezione
”,
così definì subito quell’emozione; era felice di rivivere quella
porzione d’estate nel suo cuore immacolato, in quella situazione il
senso della terra gli era stato trasmesso camminando a piedi nudi sul
pavimento fresco. L’odore di una blanda salsedine lo inebriava
tramite i ricordi.

– Un
sorso di vino fresco? – gli chiese Klelia con un filo di voce. Lui
aveva appena finito di mangiare un piatto di spaghetti al sugo, nella
sua coscienza il profumo della semplice bontà si coniugò con
l’aroma inebriante di un delizioso vino bianco di tufo. Si ubriacò
di altra bellezza, “Tutto ciò è il senso intimo della vacanza”,
ricordò di aver pensato in quel momento, e anche adesso.
Annuì all’offerta e a se stesso con un piccolo sorriso: voleva
esser lasciato solo per assorbire completamente quel senso di beltà
sopraffacente.

Si
voltò, e comprese che tutto il bianco stordente dei muri era dato
dalla proiezione della lampadina appesa sul soffitto, nella sua
cella. Klelia era sempre lì con lui, ancora incosciente nel bagno
chimico delle tossine che essudavano da lei.

“Hanno
implementato i miei ricordi”, si disse convinto Alan. “È una
tortura politica
la loro”, aggiunse alterato subito dopo. Pensò che probabilmente
quel ricordo della vacanza al mare non gli era mai appartenuto.

– Possiamo
fare ciò che vogliamo di voi.

Era
un’altra voce maschile a parlare, asettica, potente e ben scandita;
risuonava in tutta la stanza con una sorta di olofonia che non
sembrava avere alcuna origine. Essa lo aveva interrotto nel flusso
interiore delle sue considerazioni.

– Possiamo
farti credere qualunque cosa vogliamo, anche che io esista –
aggiunse subito dopo la voce, come un oracolo.

Alan
stette in silenzio. In realtà era stordito da quella terribile massa
di input.

– Ti
propongo un patto – disse infine la voce. Il suo gracchio sintetico
da IA era fastidioso, come grattare le unghie sulle vecchie lavagne
di ardesia. Alan non diede segno di assenso, né di diniego: era
neutro. La sua battaglia poteva essere combattuta ormai soltanto con
l’indifferenza. Nell’incertezza dei risultati, la voce oppressiva
non sapeva fermarsi e continuo inarrestabile sull’onda di un
delirio di onnipotenza, che andava ben oltre il codice di
programmazione artificiale.

– Tu
accetta di ripagare i crediti del Profitto, accumulati coi tuoi
ritardi di abnegazione, e noi ti scontiamo quest’enorme colpa che
ha provocato l’essiccazione di alcune linee di business. A volte,
la condotta programmata considera le necessità umane, ma fossi in te
non ne approfitterei troppo di questa nostra straordinaria
benevolenza.

– Del
resto – tornò a esser presente la prima voce, come un controcanto
greco – noi sappiamo essere atroci. Non so fino a che punto ti
conviene intestardirti.

Il
silenzio regnò per degli istanti, così dilatati da non essere
misurati dalla coscienza di Alan; forse il buio, o la sensazione di
costrizione, o anche la preoccupazione per la condizione di Klelia,
tutto gli sembrò marcare il tempo come un’oppressione
insostenibile, la sua anima era lorda di una sorta di pece: si sentì
impiastricciato fisicamente anche da qualcosa d’insopportabilmente
viscoso e puzzolente, le sue possibilità di movimento erano prossime
all’immobilità.

– Possiamo
aiutarti a decidere? – ancora la seconda voce, che risuonò
terribile nel vuoto psichico in cui si trovavano; Klelia non sembrò
smuoversi dal suo stato inerte, respirava appena. Alan sorrise
cinico, come un invasato.

– Soltanto
se sparite immediatamente dalla mia vita – rispose; voleva essere
caustico, ma si rese subito conto di essere stato involontariamente
propositivo.

– Lo
faremo, dal momento esatto in cui accetterai le nostre proposte –
il tono neutro della seconda voce strappava via i nervi.

“Economia
necrotica”, pensò tra sé Alan. “Sistema di profitto mortifero,
ovvero l’Economia della Morte: è questo lo stato attuale, futuro e
passato della Globalizzazione. A nessuno importa più nulla delle
ideologie, perché le linee di profitto devono prosperare; dietro di
loro
converge un’inumanità lovecraftiana”.

– Mi
riservo di rispondere non appena avrò trovato la migliore soluzione
per il Business – disse ermetico, ma deciso, Alan. Aveva forse
trovato soluzione cardine per preservare se stesso, facendo finta di
salvaguardare il Sistema?

Le
voci finalmente tacquero, sottolineando una sorta di tacito accordo.
Regnò allora un silenzio statico indefinito, senza forma e tempo.
Come Klelia, che giaceva lì accanto a lui. Un limbo impersonale lo
avvolse, quasi fosse diventato un esiliato in un confino nemmeno
troppo terribile, vittima di una condizione che comunque gli
permetteva di sopravvivere. Il tempo, pensò, poteva essere la sua
carta vincente. “In questo momento lo è davvero”, si ripeté con
effettiva convinzione. Alan era diventato finalmente l’ago della
bilancia del suo futuro, ed era inattaccabile.

“Momentaneamente”,
sorrise mentre se lo diceva.

– Non
hai ancora deciso?

La
terribile voce lo scosse da un torpore mnemonico, che durava da un
tempo eccessivamente dilatato.

– Cosa?
– interloquì Alan, sapendo benissimo invece a cosa si alludesse.

– Siamo
in attesa di una tua decisione sul ripristino del tuo Business,
sappiamo benissimo che ricordi tutto quello che devi.

– Eravamo
d’accordo che la parola ultima spettava a me; vi ho già detto, sto
decidendo – cercò di essere il più convincente possibile, ma
sapeva che…

– Il
Business sta soffrendo indicibilmente: alcune altre linee collaterali
sono irrimediabilmente evaporate, nel frattempo: o decidi in fretta,
o agiremo noi.

– Ciò
modifica sostanzialmente il nostro patto, però – Alan cercò di
ammonire l’interlocutore con l’ombra di una ritorsione, che però
non era nelle sue possibilità e aveva un solo nome: bluff.

Il
modulo di IA non rispose. Un clock
che scandiva un countdown molto prossimo allo scadere si visualizzò
sui lobi temporali di Alan: non lo avevano nemmeno ascoltato.

– Tempo
scaduto – disse infine la voce sintetica.

Un
caldo blow
implose
l’aria intorno a lui. Klelia intanto era scomparsa, non ne
percepiva più la sua presenza lì intorno e intanto si sentiva
cosparso da una forma di coscienza sconosciuta. Non sembrava nulla di
evoluto o d’involuto, piuttosto gli appariva come qualcosa di
plastico, una sensazione impersonale, l’essenza stessa di
un’esistenza larvale, viva nella velata consapevolezza onirica di
essere guidata dall’altrove, come se qualcosa si fosse impossessato
della cognizione e ne guidasse ogni bisogno e scopo, costruendoli a
tavolino.

“Qualcosa
si è impiantato in me”, questo pensò Alan in quei frangenti
dilatati, negli istanti in cui possedeva una qualche forma
d’illuminazione; “sembra un addormentarsi, rimanendo però
vigili; pare di vivere una forma di realtà plasticosa e livellata su
una dimensione così sottile da essere inesistente. Vivere non può
essere così inutile…”.

L’essenza
stessa dell’universo iperliberista gli apparve come un’icona
disposta su un desktop remoto; accanto non esisteva altro che un
enorme spazio, dove altre isole iconografiche galleggiavano in un
nulla sconvolgente, in un luogo di assorbimento che gli svuotava
completamente la sua anima.

Alan
era stato portato in un luogo dove la sua forza psichica sarebbe
stata eviscerata e gli sembrò chiaro di essere in attesa della
cancellazione finale, della disgregazione inappellabile; comprese
drammaticamente che anche una finta esistenza nell’universo
business
sarebbe stata preferibile a un nulla così vacuo, a quell’implosione
nello spazio profondo.

“Questo
è il mio punto di non ritorno?” pensò, fluttuando in un fluido
senza nome e appigli, che si restringeva in
fondo
come
un imbuto. In quei pressi, anche la luce sembrava gorgheggiare e
annullarsi; Alan ne vedeva le particelle elementari distaccarsi dal
flusso principale e spegnersi, mentre si allontanavano, in un buio
impersonale e inglorioso, un nulla da cui era impossibile ritornare
indietro.

– Ciò,
sei diventato – disse allora la voce, contravvenendo all’elementare
deduzione che Alan aveva fatto della sua prossima fine.

– Significa
che posso uscirne vivo, quindi… – dedusse ad alta voce,
prontamente.

– Significa
che i tuoi crediti vengono prima di qualsiasi tuo annientamento.
Paga, poi muori. Pensavi davvero d’ingannarci?

– Se
muoio, non posso ripagarvi.

– Abbiamo
la nostra polizza assicurativa.

– Polizza
assicurativa?

– Klelia.

Interi
modelli cognitivi attraversarono la mente di Alan; avvenne in un
breve volgersi di istanti. Significava che Klelia era stata in un
qualche modo rapita dal Sistema e giaceva inerte in una qualche vasca
di decantazione, pronta magari per essere assorbita. Da cosa? Da chi?
Non erano domande cui Alan riusciva a dare risposta, ma conosceva il
motivo della sua inconsapevolezza: il Sistema era sfuggente, non
umano, non era possibile risalire alla sua creazione con certezza;
però era implacabile, e in questo mostrava tutta la sua terribile
inumanità.

– Dovrai
sbrigarti a risarcirci, se non vuoi che lei
diventi una massa inerte di compost
– tornò a dire la prima voce.

Dopo
interminabili istanti di disperazione, Alan si decise a parlare
chiaramente. Era con le spalle al muro: o moriva lui, oppure sarebbe
toccato a Klelia; e non era per niente da escludere che una volta
estinto lui, Klelia non ne avrebbe beneficiato in alcun modo.

– Non
so come fare – la sua espressione aveva anch’essa assunto
tonalità neutre, la disperazione gli aveva annullato ogni afflato
combattivo.

– Oh,
davvero? – senza inflessioni di alcun tipo, l’IA rifaceva il suo
verso. Era da escludere qualsiasi suo risvolto ironico, o
forse no
?
Alan non rispose, era così prostrato da non aver nemmeno voglia di
morire.

– Vediamo
un po’ se abbiamo qualcosa da proporre noi… – replicò a quel
punto il secondo guardiano, una nota civettuola nella sua voce era in
realtà il culmine del disegno del Profitto. Alan tenne il suo
profilo basso, temeva qualsiasi cosa gli avrebbero ordinato.

– Abbiamo
appena terraformato un nuovo mondo – gli disse asciutta l’IA.
Mostrava una gioia creativa tutt’altro che tipica delle
intelligenze artificiali. Stavano giocando con lui come il gatto col
topo: non poteva fare altro che percorrere fino in fondo quella
strada.

– Cosa
volete da me?

– Sarà
un compito prestigioso quello che ti abbiamo riservato; non sappiamo
bene perché ti stiamo chiedendo ciò, in fondo non lo meriteresti,
però nonostante tutto nel Sistema si fidano di te, e sappiamo che
accetterai con entusiasmo estremo l’opportunità che stiamo per
offrirti…

– Ipocriti
del cazzo: cosa volete da me, brutte merde?

I
due scoppiarono in una risata terribile, oltre il senso del
grottesco. Avevano vinto, lo sapevano già da molto, ma essere
finalmente arrivati lì, alla capitolazione di Alan, li rendeva
potenti, tronfi, imbattibili.

– Il
Sistema che noi serviamo con orgoglio e che qui, in questa sede,
rappresentiamo fieramente, ti vuole porre a capo del nuovo mondo
terraformato; alcuni anni standard di leadership
incontrastata, che serviranno ad affermare il nostro sistema politico
ed economico anche sulla nuova colonia, e tu potrai tornare dalla tua
Klelia, nel tuo mondo, libero da ogni vincolo. In pensione: sì, alla
fine di questo periodo di comando verrai posto in pensione col
massimo dei contributi, e con l’eterno ringraziamento di tutte le
corporazioni che compongono il Sistema. Saresti ricordato sugli
ipertesti delle prossime generazioni come un esempio di abnegazione
visionaria. Affare fatto? – sorrisero di un ghigno complicato,
politico.

“Trappola.
Trappola. Tutto puzza come una merdosissima trappola senza uscita.
Vogliono che muoia
sopra
,
lontano da tutti. Come posso uscirne?”; Alan, con la consapevolezza
di essere su una strada senza uscita cercava, come un topo nella sua
giostra, una possibilità di fuggire da un destino segnato,
tutt’altro che felice.

– Devo
pensarci.

– Non
puoi, lo hai già fatto inutilmente per tutto questo tempo. La porta
che si sta per aprire alla tua destra ti condurrà a un corridoio di
accesso verso la rampa di lancio. Le tue analisi sanguigne riportano
valori standard per la missione, ti abbiamo tenuto sotto controllo in
questo periodo – l’IA ridacchiava di quel particolare, mostrando
ancora una volta la predeterminazione di tutta l’operazione.

Un
clang
pneumatico
attirò l’attenzione di Alan, che si voltò verso quella direzione:
luci laser tracciavano l’andamento di un corridoio che lo avrebbe
condotto, a quel punto ne era più che certo, verso la rampa di
lancio di uno spazioporto, di proprietà virtuale di chissà quale
corporazione.

– Ho
fame – disse disperato con un istinto prossimo alla sopraffazione
più assoluta.

– Mangerai
a bordo, prima di essere posto in sospensione criogenica. Poi, non
avrai bisogno di molto per sopravvivere, almeno finché non arriverai
a destinazione.

– Dove
sono diretto? – replicò allora con voce isterica.

– La
meta è NX35GJ_Po, dove Po sta ovviamente per Polonio. Parliamo di un
planetoide brullo, ricco di rocce e uranio, la terraformazione ne ha
recentemente ricavato un luogo unico e interessante per viverci. Ti
piacerà, ne sono certo – chiosò l’IA con una mimica
imperscrutabile, che non dava adito ad alcuna interpretazione.
“Oppure a infinite altre
spiegazioni”, pensò Alan con un guizzo di comprensione.

– Noi
vogliamo dare un tono artistico alla cosa, regalandoti la possibilità
d’intestare al planetoide un nome più bello ed esplicativo, una
creazione di cui tu, e soltanto tu, sarai la mente e l’artefice: ti
piace come prospettiva?

Fu
subito portato nel condotto da un carrello penumatico e non gli fu
permesso di replicare alcunché; nella concitazione del momento, Alan
dimenticò di chiedere informazioni su Klelia. Un attimo prima di
venire criogenicamente addormentato realizzò tutto ciò, ma si rese
anche conto che non gli avrebbero fornito nessuna informazione: lei
era saldamente nelle loro mani, sicuramente la stavano già
prosciugando.

Il
rumore del formarsi di cristalli di ghiaccio, a velocità
esponenziale, fu l’ultima cosa che seppe di percepire nitidamente.

– Sveglia,
amico mio.

A
fatica Alan aprì gli occhi, la nebbia criogenica bloccava ancora le
dinamiche di molti suoi ragionamenti, arginandoli in una nuvola di
torpore dell’anima.

– Alan,
sveglia. Sei arrivato.

La
voce rassicurante di Ahmed faceva capolino ai suoi sensi in ripresa
cognitiva. La vertigine di sorpresa lo sopraffece fino al momento in
cui, poco dopo, riuscì a chiedersi: “Cosa ci fa qui, Ahmed?”.

– Dobbiamo
andar via presto da questo luogo – disse un’altra voce, che Alan
riconobbe quasi subito come quella di Moham, il cui accento
mediorientale gli facilitò il compito d’identificazione; girò
lentamente la testa e vide sullo sfondo pure Hannibal che stava
armeggiando con dei FrontEnd
su
delle interfacce probabilmente fuzzy,
vista la ragionevole poca dimestichezza dei quattro con i sistemi
complessi artificiali.

“Allora
da qualche altra parte dev’esserci pure Abdul”, si disse Alan,
dissipando ancor di più la nebbia criogenica residua. – Ma perché
voi siete quassù? – chiese infine, ricordandosi del planetoide su
cui era stato spedito.

– Osserva
il paesaggio inospitale, amico mio – fu la risposta di Ahmed, aveva
uno sguardo pieno di comprensione ma dotato di una strana affilatura
empatica; un taglio sibillino dell’intonazione fu la seconda nota
fuori posto della risposta. Alan si sporse dal lettino, la debolezza
che sentiva dentro di sé era pari a un incommensurabile vuoto
siderale, il gelo lo aveva reso psichicamente inerme per troppo tempo
e si era insidiata in lui l’infinita nullità cosmica; aveva
bisogno di altro tempo per sentirsi di nuovo se stesso, ma la
situazione aveva insito un qualcosa di allarmante e incombente:
sentiva che doveva essere rapido nel riprendersi.

– Allora,
sei pronto? – chiese infine Ahmed.

– Per
cosa – rispose stupito Alan.

– Cosa
ti hanno detto prima di mandarti qui?

Alan
fece ai quattro un rapido sunto della condanna che gli era stata
inflitta, sottolineando come fosse stato abilmente messo all’angolo
dalla situazione impositiva del Sistema.

– Quindi
non ti hanno detto nulla… – semplificò Hannibal, distogliendosi
per un istante dal tweaking
tecnologico di qualcosa che ad Alan sfuggiva completamente. Ahmed gli
rivolse uno sguardo pregno di commiserazione, poi si rituffò
nell’algoritmo.

– Spiegatemi
– disse infine Alan, esasperato da tanta inconsistenza.

– Ascoltami
– replicò allora Ahmed – la faccenda ha altri
aspetti che non ti piaceranno per niente. – Lo guardò duro, attese
che l’altro si riavesse dall’annuncio dell’insidioso coup
de théâtre
.

– Sono
pronto – rispose dopo poco Alan, il suo sguardo indurito cercava di
parare qualsiasi ulteriore colpo basso si stesse per materializzare.

– Noi
amministriamo questo luogo
– disse sintetico Ahmed.

– Da
quando? – domandò stupito Alan.

– Da
poco tempo, in realtà – rispose evasivo il Mediorientale.

Seguì
un silenzio denso di sconcerto; le connessioni degli eventi
precedenti, che si riformavano rapidamente nella mente di Alan,
lasciavano sul suo volto i segni di uno stupore senza nome: era come
sentirsi traditi in un modo che non si sarebbe nemmeno potuta
concepire.

– Voi
mi avete condotto qui, in altre parole?

– In
termini semplicistici è così – rispose Moham da un angolo
lontano; stava svolgendo anche lui una qualche attività legata al
maintenence
della
stazione.

– C’è
qualcosa di complesso che può aggiungere nobiltà alla situazione? –
chiese allora Alan.

– Hmmm…
No, direi – disse sornione Ahmed – ma il vero punto è che tutto
quello che ti sta succedendo non dipende strettamente da noi, nel
senso che a noi è stata data soltanto una fulminea possibilità per
una vita migliore, anche se decentrata. A te no.

– Che
vuoi dire?

– Voglio
dire che noi vogliamo essere parte di un mondo che probabilmente
potrà arricchirci; a quanto ne so, tu no.

Alan
era basito. Fissava ognuno di loro con uno sguardo attonito,
l’incredulità di ciò che gli stavano dicendo poteva lasciar
spazio soltanto a qualcosa di peggio. – Continuate – disse.

– Cosa
vuoi continuare? – lo schernì Hannibal. – Ci hanno chiesto di
spremere i tuoi debiti, eravamo i più titolati a farlo perché ti
conosciamo meglio di tutti gli altri tuoi conoscenti o colleghi.

Una
risata terribile fece da corollario a quella cruda dichiarazione;
Alan li vide seri. Si passò allora una mano sui capelli; rise
anch’egli, ma il senso del suo humour era completamente diverso. –
Cosa fate quassù? – chiese tremante – qual è il senso del
business che qui perseguite?

– Oh
è molto semplice, mon
ami

– rispose prontamente Ahmed – possiamo riassumerlo con questi
versi di NWO,
che conoscerai benissimo:

Mi
sono innamorato di un intento doloso

Puoi
afferrarlo, ma ancora non lo sai

Un
suo vero amante non è mai stato trovato

– In
altre parole, noi facciamo i banditi siderali; siamo pronti a
raccogliere tutte le opportunità che si affacciano sul nostro reale.
E ora, tu sei la nostra opportunità; e paradossalmente, noi la tua.

Una
figura oscura si agitava in una camera di decompressione. Sembrava
inanimata. Nelle sue movenze sospese si palesavano nugoli di polvere
da estrazione che rimanevano a mezz’aria, luridi come soltanto i
detriti da miniera possono essere. La tuta da esterno che la figura
indossava era lorda di sozzura da perforazione; il capo dell’uomo
era oscurato dal casco siderale, esternamente la visiera era coperta
di polvere.

Ahmed
sbirciò attraverso l’oblò della camera di decompressione,
cercandovi qualche forma di vita della figura.

– Mioddio,
fa’ che Alan non sia morto! – pregò ad alta voce con un senso di
disperazione; accese una torcia da miniera orbitante per cercare di
capire meglio la situazione, ma dall’altra parte il buio era denso
oltre ogni possibilità di discernimento.

– Di
cosa ti preoccupi? – rispose di rimando Hannibal, quasi sorridendo.

– Di
dover tornare a vendere cipolle, idiota che non sei altro: senza
Alan, la nostra opportunità democratica di essere banditi
costituzionali muore assieme a lui.

– Magari
ci assegnano a un altro avamposto ancora più lontano, che ne sai? La
bellezza di quest’Economia è che divora sempre qualsiasi cosa non
ancora assimilata, o che è ancora vergine, oppure appena
riconvertita – teorizzò Moham come un affermato economista.

– Noi
saremo sempre ai margini del regime, amici miei, per quanto potremmo
divenire dei dirigenti nessuno di noi si arricchirà mai seriamente –
notò Abdul – il Sistema sarà sempre l’unico beneficiario,
mangiandoci la nostra vita.

In
quel momento il braccio inerme di Alan si abbatté sulla finestra
della camera di decompressione, spaccandola; di peso, l’arto
trapassò la frontiera infranta e colpì la testa di Ahmed, mentre
tutta la stanza subì una piccola decompressione che asfissiò in
breve tempo i quattro.

Dalla
mano inerte di Alan cadde una moneta, su cui prese forma un appunto
digitale:

‘Per
l’autorità elargitami, ora il nome di questo planetoide sarà
Nekroeconomy’.

Sull’altra
faccia della moneta erano evidenti dei simboli occulti di schermatura
e, a scomparsa, si evidenziava a intermittenza l’immagine da
tarocco del Mago.

In
quei frangenti, nelle Borse dei sistemi extraplanetari l’indice di
riferimento delle Compagnie da estrazione subì impennate tali da
sospenderne, temporaneamente, i titoli di alcune.

– Poco
male – fece uno degli operatori ombra di una Borsa remota –
quelle company
si
riconvertiranno presto al business dei funerali spaziali.

In
uno dei suoi rari eccessi di risa, un altro operatore ombra gli
rispose con cinismo: – Noi tutti siamo la parte nekro
dell’economy
in cui annaspiamo senza speranza.

L’AUTORE

Sandro Battisti è uno dei fondatori del Movimento Letterario Connettivista. A partire dal 2004 si è dedicato allo sviluppo di uno scenario comune a molti suoi lavori successivi, l’Impero Connettivo. Ha vinto il Premio Urania 2014 e il Premio Vegetti 2017 con L’Impero restaurato ed è curatore delle antologie di strano weird La prima frontiera (2019) e La Volontà trasgressiva (2021) per l’editore Kipple Officina Libraria, di cui è uno editor. È, inoltre, curatore della collana anarcopunk ”non-aligned objects” di Delos Digital e, sempre per la stessa casa editrice, pubblica i nuovi scritti dell’Impero Connettivo nella collana L’orlo dell’Impero. Scrive quotidianamente sul blog hyperhouse.wordpress.com.

Nekroeconomy di Sando Battisti

Sandro Battitsti

Tutti i diritti riservati per immagini e testi agli aventi diritto ⓒ.




L’ultimo assassino

Sughero era sempre stato
magro. Da lì il soprannome. C’è chi pensava che fosse così per
l’eroina, ma non era vero. Se a tredici anni non avesse iniziato a
farsi, magari con l’età si sarebbe irrobustito, ma era smilzo fin da
piccolo: alla nascita, nel lontano 1959,
era sotto peso e aveva rischiato di non sopravvivere. E i suoi
genitori gli avevano detto tante volte che sarebbe stato meglio se
fosse morto allora: al ritorno da scuola con una nota sul diario, per
esempio, oppure quando i suoi insegnanti si lamentavano del
comportamento indisciplinato e della scarsa resa negli studi.

Sughero abbandonò
la scuola
dopo aver ripetuto tre volte la prima media e allora iniziarono a
interessarsi a lui assistenti sociali, polizia e carabinieri. Dalle
comunità passò agli istituti di pena per minori e da quelli al
carcere.

Scippi con il motorino, furti
nelle case, spaccio e rapine a mano armata. E la compagnia costante,
o quasi, della pulzella bianca. Quando lei non c’era, rimediava con
pasticche, fumo ed erba.

Ora eravamo nel 1991 e Sughero, che aveva ormai trentadue anni, se pensava al passato, vedeva la vita trascorsa come attraverso una coltre spessa di nebbia. I suoi genitori erano morti. Da quanto? Dieci anni? Dodici? Anche la sua ragazza era schiattata. Tossica pure lei, un bel giorno se ne era sparata troppa. E gli amici? Chi crepato, chi al gabbio, chi andato a fare in culo chissà dove. Ormai c’erano solo lui e la roba.

A smettere ci aveva provato.
Era stato nelle comunità di recupero per farsi i domiciliari invece
della galera e, una volta ripulito il sangue, per un po’, era stato
anche bene. Ma poi la scimmia aveva ripreso a strepitare e lui aveva
dovuto cibarla. Di faticare aveva anche faticato. I lavori –
cameriere, lavapiatti, operaio – li aveva trovati e persi.

Sughero adesso stava nella
minuscola stanza da letto in penombra del suo appartamento di due
camere più servizi (da quanto non pagava l’affitto? Sei, sette
mesi?). I capelli biondi sporchi, che in genere legava in una coda,
erano sciolti sulle spalle. Il ventilatore rotto ruotava rumoroso
senza riuscire ad asciugargli il sudore dal torso nudo. La luce rosso
sangue del sole al tramonto penetrava attraverso le tapparelle
scassate. Il nostro eroe si era appena fatto della ero comprata nel
parco da un tunisino. Sughero non era razzista e, comunque, quando
devi farti, non puoi certo scegliere: dove trovi, va bene. La merda
di quei tunisini era proprio strana, però era buona e costava poco.

Sughero si addormentò e si
risvegliò con una sensazione lancinante di vuoto nello stomaco. Quel
giorno non aveva toccato cibo. E, ora che ci pensava, forse neanche
quello prima. E il precedente? Da quant’era che non mangiava? Cercò
in tutta casa. Niente. Solo una bottiglia mezzo vuota di latte
inacidito. Lo bevve e vomitò.

Ora aveva più fame di prima.

Infilò una vecchia camicia
sdrucita e uscì in strada. Chiese a chiunque passasse, donna, uomo o
bambino, se avesse degli spiccioli.

Dopo un paio di ore di pietosa
questua, contò le monete e, fatti due calcoli veloci, si diresse
verso un negozio di gastronomia che rimaneva aperto fino a tardi.
Divorò due tranci di pizza con patate e tornò a casa con un litro
di rosso in cartone.

Sughero se ne stava sdraiato
sul letto con indosso solo le mutande, a luce spenta e con il
televisore acceso (un
15” da sfigati
comprato da un ricettatore parecchi anni or sono).

Si era fatto di nuovo.

Le zoccole lo invitavano a
chiamare i numeri in sovrimpressione. L’acidità gli attizzava nello
stomaco fiamme d’inferno. Vino di merda. Si ricordò di qualcosa che
un cornuto gli aveva dato in elemosina per scherzo. Si alzò e frugò
nelle tasche dei pantaloni militari. Cercò e trovò.

Una caramella.

Una caramella alla menta.

Forse lo avrebbe fatto stare
meglio. La scartò e la mise in bocca. La cullò tra lingua e palato.
Lasciò che si sciogliesse lentamente. Mentre ne assaporava il gusto
forte, pensava: Caramella…
Caramella, chi era costui?

Si ricordò di qualcuno che si
chiamava così. Un soprannome, ovviamente. Qualcuno che aveva
conosciuto molto tempo prima. Quasi in un’incarnazione precedente.

Lo schermo del televisore si
annebbiò. Sughero imprecò contro il televisore di merda e iniziò a
dargli delle pesanti manate. Cambiò canale freneticamente. Niente.
Sempre nebbia. Si accinse a staccare la spina ed era seriamente
intenzionato a buttarlo di sotto quando l’immagine ricomparve.

Solo che, al posto della
troia, c’era un ragazzino di dieci, undici anni, dai lunghi ricci
neri e dall’aspetto effeminato. Un faccino triste e bello.

Sughero guardò e stupì.
“Caramella!” esclamò. “Che ci fai in televisione?”

Lo schermo si annebbiò di
nuovo. Sughero strabuzzò gli occhi. Se li strofinò. L’aria era
come se fosse piena di elettricità. Sughero avvertì una presenza
alle sue spalle. Si voltò.

Il ragazzo, adesso, era nella
stanza. In piedi, vicino alla finestra aperta. Indossava un vestito
di lana grigio antracite, un dolcevita sottile bianco e scarpe da
tennis bianche immacolate. La sua figura era dipinta dai raggi lunari
e dalla luce grigiastra del canale morto. Appariva pallido e
malinconico come un fantasma del cazzo.

Sughero lo fissava.

“Ciao, Sughero” disse il
bambino. “Come sei cambiato. Quasi non ti riconoscevo.”

“Ciao, Caramella… tu
invece… sei uguale…”

“Per forza. Sono morto.”

“Già… mi ricordo…”

“Cosa ricordi, Sughero?
Raccontami.”

Non era la prima volta che lo
insultavano e lo prendevano in giro. Ma quella volta Caramella ebbe
l’ardire di rispondere. E così per ogni finocchio,
succhiacazzi,
frocio
e femmina
che si era sorbito per tutta l’infanzia, aveva tirato fuori dalla
bocca sua dolce un insulto diverso, ognuno adatto ai suoi persecutori
storici, additandoli chi ritardato,
chi figlio di
puttana
, eccetera.

Ovviamente i ragazzi, offesi e
punti sul vivo, non potevano tollerare una simile ribellione. Quindi
lasciarono le stecche di biliardo, si
allontanarono dai juke box,
abbandonarono le
lattine di coca-cola e iniziarono a stringersi con visi minacciosi
intorno a colui che aveva osato.

Caramella corse via dal bar e
gli altri lo seguirono. Erano quattro: Bidone, Gramigna, Lunapiena e
Sughero. Caramella era veloce. Più di tutti loro.

Quando arrivarono al passaggio
a livello con la
sbarra
già abbassata,
gli altri ormai disperarono di poterlo punire. Caramella attraversò
da sotto e corse verso la barriera successiva. Se fosse arrivato il
treno, gli altri avrebbero dovuto rinunciare. Certo, avrebbero potuto
rifarsi un’altra volta con una lezione doppia. Ma non era la stessa
cosa. L’onta andava lavata via subito. Però tutta ʼsta
voglia di rischiare con la campana che già suonava, non è che ce
l’avessero.

Quindi iniziarono a
bersagliare Caramella di sassi.

Finché l’ultima pietra non lo
colpì in testa e lo tramortì.

Il bambino cadde sui binari.

La campana continuava a
suonare.

“Dobbiamo toglierlo di lì”
disse Bidone.

Non fecero in tempo a
discutere su chi avrebbe dovuto rischiare, che il treno passò e
maciullò Caramella.

“Ma io non ti ho gettato
nessuna pietra” disse Sughero.

“Sì, lo so” replicò il
fantasma di Caramella.

“Io ti prendevo in giro
perché lo facevano tutti, ma ti volevo bene. Ero amico tuo. Ti
ricordi?”

“Certo che mi ricordo.
Abbiamo saltato la scuola tante volte insieme. E quanti furtarelli al
negozio di dolciumi? E quella bambina con cui facevamo a gara a chi
riusciva a darle più baci? Com’è che si chiamava?”

“Angela, no… Rita…
aspetta… Angelica, sì aveva ʼsto
nome da film…”

“Si chiamava Giuliana ed è
morta a quattordici anni di leucemia.”

“…io non ti ho tirato le
pietre…”

“Lo so. Te l’ho detto. Noi
morti sappiamo tutto.”

“Cosa vuoi da me, Caramella?
Cioè, sono contento che mi sei venuto a trovare, ma quando un morto
ti fa visita, in genere, è perché vuole qualcosa, no?”

“Voglio vendicarmi.”

“Dopo tutto ʼsto
tempo?”

“Sono vent’anni che cerco di
stabilire un contatto con un vivo. Ho provato con tanti, ma poi alla
fine mi sono ricordato di te.”

“E io sono contento. Mi fa
piacere che hai pensato a Sughero tuo… ma io cosa dovrei fare per
aiutarti?”

“Uccidere i miei assassini.”

“Cosa? Ma io non ho mai
ammazzato nessuno.”

Mentre rispondeva così,
Sughero rammentò tutte le occasioni in cui aveva rischiato di
diventare assassino: quante volte, nel corso di uno scippo, la
donnina era caduta o, aggrappata alla borsa, si era fatta trascinare
per diversi metri? E quando aveva dovuto picchiare un commesso restio
a dargli l’incasso? E le storie di coltello? Per non parlare di tutta
la merda che aveva spacciato: di sicuro qualcuno ci era rimasto
secco.

Sughero osservò Caramella che
rimaneva immobile e azzardò: “Senti… dico così per dire… e se
io, con tutto il bene che ti voglio, va be’ che siamo vecchi amici di
infanzia, ma se io, faccio per dire, non voglio farlo? Se mi
rifiuto?”

Il fantasmino rispose con uno
sguardo triste e irato, infantile e adulto, malinconico e minaccioso,
mentre lentamente scompariva.

La sua forma si fece diafana,
diventò sempre più trasparente finché non si dissolse del tutto.

“La Madonna!… Se ne è
andato!… Bastava così poco… Che strizza che mi ha messo addosso”
si tranquillizzò Sughero e si fece un’altra pera.

Si sdraiò sul letto, riprese
a guardare le troie e si addormentò con il cazzo moscio in una mano
e il telecomando nell’altra.

“Se io mi rifiuto?” Aveva
chiesto Sughero e nei giorni seguenti ebbe la risposta. Ovunque e in
ogni dove Caramella lo veniva a trovare. Silenzioso, con uno sguardo
che esprimeva in parte richiesta di aiuto e in parte minaccia, un po’
sofferenza e un po’ odio. Gli appariva riflesso nello specchio
scheggiato di casa sua e nelle vetrine dei negozi, nel cucchiaio che
usava per sciogliere l’eroina e sulle bottiglie di vino.

Infine Sughero iniziò a
vederlo anche sulle facce delle persone. Mentre contrattava
l’acquisto
di una dose,
d’un tratto il volto di Caramella si sostituiva a quello dello
spacciatore, quando Sughero comprava, o del cliente, quando vendeva.

Oppure, mentre era al culmine
di una scopata, il viso del triste Casper prendeva il posto della
puttana di turno.

Si immaginino le reazioni del
povero Sughero a tale persecuzione. Caramella gli stava rovinando la
sua pur miserrima vita sociale, oltre a farlo impazzire.

Quindi, alla fine, quel
vecchio tossico si decise a diventare un assassino.

Anzi, pluriomicida.

L’ultima discussione tra
Sughero e Caramella verté sulla necessità della vendetta. Era
sicuro Caramella di volersi vendicare? In fondo nessuno dei ragazzi
aveva avuto l’intenzione di ucciderlo. La sua morte poteva
considerarsi un incidente. Sicuro che la colpa non fosse del treno? O
meglio, del conducente?

Caramella rispose che aveva
trascorso gli ultimi vent’anni, mentre cercava di entrare in contatto
con i viventi, a discutere il problema con gli altri trapassati che
sostavano indecisi tra la vita e la morte e aveva avuto l’occasione
di parlarne con gente di tutte le età e formazioni: dal camorrista
al professore universitario.

Chi era contrario alla
vendetta non era riuscito a dissuaderlo e chi era a favore lo aveva
convinto maggiormente dei suoi propositi.

Per cui vendetta doveva
essere.

L’ultima domanda di Sughero
fu: “Perché non li uccidi tu? Appari come hai fatto con me e
spaventali a morte, chessò… fagli venire un infarto.”

Caramella rispose che non
poteva rivelarsi a chiunque. Ci aveva già provato. Ma non tutti
erano predisposti al contatto.

Sughero si rassegnò e iniziò
a pensare. Insomma doveva trovare il modo di fare fuori tre persone e
rimanere pulito. Caramella lo rassicurò che ci avrebbe pensato lui a
evitargli problemi con la legge. Lo avrebbe protetto.

“Noi morti abbiamo tante
risorse” sentenziò lo spettro.

Quindi Sughero modificò la
sua dieta: alla solita eroina aggiunse robuste razioni di amfetamine
e cocaina.

Rintracciò i vecchi amici
d’infanzia e con la sua astuzia da tossico elaborò tre delitti
perfetti.

Un falso incidente d’auto.

Un suicidio fasullo, tramite
impiccagione.

Un accoltellamento a scopo
rapina.

E così Bidone, Gramigna e
Lunapiena conclusero la loro vita mortale.

Sughero si trovava adesso nel
cortile del carcere. Lo avevano arrestato per triplice omicidio.
Ovviamente aveva lasciato più tracce di un branco di lupi ed era
stato visto da più occhi che se avesse attraversato il centro
cittadino con i gioielli di famiglia al vento.

Aveva spiegato al magistrato
che era stato un fantasma a chiedergli di uccidere. Quindi forse lo
avrebbero mandato in un reparto
psichiatrico e poi in una comunità. Dipendeva dalla perizia medica.

Che il povero Sughero fosse
impazzito era comunque evidente a tutti.

Proprio in quel momento gli
altri detenuti lo stavano osservando mentre parlava da solo.

“Insomma, Caramella, avevi
detto che mi avresti protetto…”

“Non ho mica tutto questo
potere di influenzare la vita dei mortali… È già difficile
rimanere in contatto con te.”

“Ma allora mi hai preso per
il culo! A me che ero amico tuo… Dopo che ti ho aiutato a
vendicarti… Come hai potuto?”

“Sei sicuro di non
meritartelo, Sughero?”

“Che vuoi dire?”

“Non ti ho detto che i morti
sanno tutto?”

Sughero tornò indietro con la
mente di vent’anni. Lui, Bidone, Gramigna e Lunapiena avevano
rincorso Caramella fino al passaggio a livello e poi, quando si erano
visti sfuggire la possibilità della giustizia immediata, mentre
Caramella correva verso la seconda sbarra, si erano chinati per
raccogliere sassi. Tutti. Anche Sughero. E l’ultima pietra, quella
che aveva colpito Caramella in testa, decretandone la sorte, l’aveva
gettata proprio lui.

Sughero guardò il fantasma e
stettero entrambi per un po’ in silenzio.

Poi chi aveva avuto il tempo e
la fortuna di diventare adulto chiese allo spettro preadolescente: “E
adesso? Mi ucciderai, così potrai andartene nell’aldilà?”

“No. Non ti ammazzerò. Un
po’ perché ho paura di com’è la vita da quelle parti e un po’
perché tu eri davvero l’unico che mi voleva bene. Lo so che
quell’ultimo sasso l’hai buttato solo perché lo facevano tutti e
non potevi rifiutarti.

“E allora?”

“E allora ho scelto di
restare” disse il fantasma di Caramella. “Io rimarrò sempre con
te.”

L’AUTORE

Luca Bonatesta è nato a Brindisi il 26-01-1972. Appassionato di fumetti fin dall’infanzia, si è avvicinato alla letteratura fatta di sol parole già da maggiorenne, appassionandosi a scrittori come Franz Kafka, Dino Buzzati e Michail Bulgakov. In seguito ha scoperto i classici del fantastico come Edgar Allan Poe, Howard Phlips Lovecraft, Arthur Machen, Algernon Blackwood e altri. Contemporaneamente ha conosciuto scrittori contemporanei come Stephen King e Clive Barker. Ha lavorato dodici anni in un agenzia giornalistica. Dopo un’adolescenza trascorsa nel sogno di diventare prima disegnatore di fumetti e poi sceneggiatore, ha iniziato a scrivere i primi racconti quando aveva quasi trent’anni. Ha pubblicato racconti su siti internet e pubblicazioni amatoriali come la rivista Next. Ha avuto buoni piazzamenti in alcuni concorsi letterari come il Premio Hypnos e ha pubblicato per Edizioni Hypnos la raccolta di racconti in ebook L’angelo e il vampiro. Il racconto L’angelo e il vampiro è stato inserito anche nella antologia di vari autori Strane Visioni, sempre delle Edizioni Hypnos. Attualmente gestisce, insieme a Max Ferrara, il blog Planet Ghost per il quale scrive anche recensioni.

L'ultimo assassino cover

Luca Bonatesta

Tutti i diritti riservati ⓒ per immagini e testi.




Dalla Provincia al Terrore: Un Viaggio tra Folklore e Horror con Luigi Musolino

Partendo dalle tue radici in provincia di Torino, come il tuo ambiente di provenienza ha influenzato l’approccio alla scrittura nel genere dell’horror e del weird?

Il mio territorio di provenienza, insieme alla fortuna di essere nato in una famiglia in cui si bazzicava il genere attraverso libri e film, è stato di fondamentale importanza per la mia scrittura. Sono cresciuto in un paesino della Bassa piemontese spesso avvolto dalla nebbia, circondato da campagne a perdita d’occhio punteggiate da antichi casali diroccati e pioppeti. Quand’ero bambino, nelle sere d’inverno ci si ritrovava spesso nella grande casa dei nonni materni dove si sprecavano i racconti dedicati ad avvenimenti inconsueti, che spesso gravitavano intorno alle streghe del folclore popolare, le masche. L’atmosfera di questi luoghi in qualche modo lugubri, isolati, sfuggiti, le suggestioni delle strane storie raccontate dalle zie in quella cucina invasa dai fumi del tabacco e del vino, hanno senza dubbio influenzato il mio immaginario; i miei primi esperimenti letterari erano già ambientati nelle aree che frequentavo da ragazzino, e col passare degli anni ho plasmato un Piemonte alternativo fatto di suggestioni folcloristiche e orrorifiche, che è quasi sempre il mondo in cui si muovono i miei personaggi.

Soprattutto nella tua prima produzione emergeva una predilezione per il folklore italiano nei tuoi racconti. Quali sono gli elementi del folclore che trovi più affascinanti e che ritornano spesso nelle tue storie? Per scrivere i due volumi Oscure regioni hai svolto un lavoro di documentazione approfondito?

Mi affascina il modo in cui le credenze popolari riescono a sopravvivere nonostante il trascorrere del tempo e la morte degli uomini, mi intriga la capacità che hanno di trasformarsi e filtrare nella modernità adattandosi a essa, con la loro carica inquietante, affascinante, mistica, quasi fossero entità dotate di vita propria.

Queste antiche storie sono come virus che mutano per continuare a vivere, che si tramandano per generazioni, che resistono a dispetto di tutto e hanno persino invaso i nuovi mezzi di comunicazioni trasformandosi in creepy-pasta, leggende urbane, video virali che infestano i social.

Quando ho iniziato a scrivere Oscure Regioni mi stuzzicava l’idea di contribuire a questa mutazione e trasmissione utilizzando le storie del folclore regionale come base per costruire dei racconti horror. Partendo dal Piemonte ho percorso tutto lo Stivale, esplorando e documentandomi, e spero di essere riuscito almeno in parte nel mio intento, che era scrivere delle buone storie del terrore ambientate ai giorni nostri riesumando miti folcloristici particolari, poco conosciuti.

Hai avuto l’opportunità di tradurre opere di autori noti nel genere dell’horror, come Brian Keene e Lisa Mannetti. Ma in passato avevi anche tradotto Carl Jacobi per la Dagon Press. Si tratta di un’esperienza che ti ha stimolato e ti ha fatto crescere?

Indubbiamente. Prima che a scrivere ho cominciato a tradurre, per puro diletto. Da ragazzino, dopo aver letto buona parte dell’horror che passava in Italia, cominciai a leggere in inglese per ampliare i miei orizzonti, per scoprire autori che da noi non erano ancora arrivati, e com’è ovvio mi si spalancò un universo di suggestioni. Leggevo queste storie incredibili e mi dicevo: “Ma perché nessuno le traduce in italiano?” Mi pareva quasi un delitto, e così mi mettevo lì, nella mia cameretta, a tradurre i racconti che più mi colpivano, pensando che magari un giorno sarei riuscito a piazzarli, a far conoscere nel nostro paese un autore secondo me meritevole e poco o mai esplorato dalle CE nostrane. Esattamente quello che è successo con Jacobi, di cui avevo tradotto alcune storie, poi inviate al mitico Pietro Guarriello della Dagon Press per un parere, insieme al quale nacque l’idea di due volumi dedicati all’autore di Minneapolis (ormai introvabili).

Non sono un autore “tecnico”, nel senso che non ho mai frequentato corsi di scrittura e i tecnicismi narrativi mi interessano (e li conosco) fino a un certo punto, penso la mia scrittura si basi più sull’istinto, la passione e la conoscenza del genere in cui mi muovo, ma probabilmente i lavori di traduzione svolti in passato mi hanno permesso di immergermi nei testi di autori stimati e amati, assorbendo più o meno consciamente certe finezze ritmiche, strutturali e tecniche per costruire, spero, delle storie dell’orrore originali e funzionanti.

Il tuo romanzo Eredità di Carne è stato pubblicato nel 2019. Qual è stata la tua fonte principale di ispirazione per questa storia? Hai trovato difficoltà a passare dalla forma del racconto a quella del romanzo? In futuro leggeremo ancora un tuo romanzo?

L’idea di scrivere un romanzo ambientato nelle “mie” valli mi frullava in testa da tempo, perché adoro la montagna e penso sia un ambiente fertile per narrazioni horror e fantastiche. Borghi abbandonati, rovine di fortificazioni militari, graffiti, incisioni rupestri, coppelle votive, luoghi con nomi bizzarri e suggestivi (Lago Nero, Lago della Sibilla, Colle Arcano, Sentiero delle Streghe…), foreste sterminate, grotte, antiche leggende… Cosa chiedere di più?

In particolare desideravo scrivere qualcosa situato in una delle vallate piemontesi che frequento maggiormente, la Val Chisone. Questa zona ospita un antico sanatorio dove sin dagli inizi del ‘900 venivano trattati i malati di tubercolosi, una struttura che è stata in piena attività per decenni per poi essere convertita in colonia estiva, e infine abbandonata.

È un edificio affascinante e imponente, che per collocazione e dimensioni può ricordare l’Overlook Hotel di kinghiana memoria, il setting ideale per una storia dell’orrore. E pur trovandosi in una zona incantevole, che si affaccia su creste innevate e vette che spiccano oltre i 3000 mt, il sanatorio Pracatinat è stato un luogo di sofferenza e malattia, e nei dintorni si sono combattute alcune sanguinose battaglie della guerra dei nove anni.

Aggiungiamo a questa ambientazione il folclore locale legato alle masche (ancora loro!), una scalcagnata osteria di paese, gli orrori delle guerre, due balordi di mezza età che non hanno nulla da perdere, una tormenta di neve, il tarlo che mi rodeva da tempo di imbastire una storia il cui motore principale fosse una fame atavica e inesauribile… ed ecco, tutti questi elementi si sono mescolati per dar vita al mio primo romanzo.

Non ho trovato particolare difficoltà nel passaggio dal racconto alla forma lunga, la storia di Famenera necessitava di più ampio respiro rispetto a quelle scritte in precedenza. Certo un romanzo richiede maggior tempo e dedizione di un racconto, ma la storia era già piuttosto vivida e delineata nella mia testa, e metterla su carta è stato un viaggio piacevole.

E sì, presto potrete leggere un mio nuovo romanzo breve.

La tua novella Pupille è stata pubblicata nel 2020. Puoi parlarci dei temi e delle atmosfere che hai cercato di esplorare in questa opera? Personalmente ho amato questo racconto che ho trovato molto inquietante e che mi sembra un punto di svolta nella tua narrativa.

Pupille ha cominciato a prendere forma durante il lockdown, e in buona sostanza narra di un’epidemia “raccolta” che colpisce la piccola comunità di Idrasca, con effetti nefasti (o forse no) sui bambini, e di conseguenza sugli adulti.

Un essere millenario che si è rifugiato nella scuola elementare del paese, l’Uomo di Polvere, è il personaggio che scatena questa infestazione che permette ai più piccoli di lanciare uno sguardo verso il futuro, verso il crollo della civiltà e la fine dell’essere umano.

Pupille è una fiaba oscura che si ispira prepotentemente al pifferaio di Hamelin, una novella che ruota intorno a una domanda tanto semplice quanto, a mio avviso, terrificante: “Che mondo stiamo lasciando alle generazioni future?”

Penso tu abbia ragione quando dici che Pupille costituisce una svolta nella mia narrativa. Ho dedicato molta attenzione allo stile cercando di dare al testo un afflato favolesco, sospeso, e i temi legati all’orrore rurale in questa novella sono soltanto accennati, o comunque utilizzati per una visione meno locale e più ampia dell’orrore: Pupille racconta di quel regno spaventoso fatto di ipotesi e interrogativi che è il futuro, per quanto mi riguarda uno dei temi portanti della narrativa horror, una delle sue impalcature più solide.

Il tuo libro più recente, Un buio diverso – Voci dai Necromilieus, sembra affrontare tematiche profonde e oscure e si nota anche una maggiore cura allo stile letterario. Cosa puoi dirci riguardo alle tue ispirazioni per questo lavoro e cosa intendi per “Necromilieus”? Ho trovato il connubio con le illustrazione di David Fragale molto evocativo ed efficace.

I racconti di Un buio diverso sono stati scritti nell’arco di un paio d’anni e tutti ruotano intorno a un Vuoto, a un’Assenza. A una zona priva di luce, peculiare, ma in cui ognuno di noi potrebbe cadere facendo un falso passo o per puro caso. In questa raccolta l’orrore e il buio vengono generati da mancanze, sparizioni, lutti. Da scelte sbagliate. O dalle imperscrutabili macchinazioni del caos.

In Come cani, il racconto che apre la raccolta, è l’assenza d’amore a generare una vicenda di follia e degenerazione; nel testo che dà il titolo al volume la scomparsa di una bambina spalanca un abisso senza fondo in un palazzo di periferia, un’anomalia che è al contempo maledizione e consolazione per i protagonisti; ne La foresta, i bivi è il deterioramento di una relazione di coppia a dare il là a una vicenda ambientata in Romania, un incubo di foreste labirintiche e scelte errate; ne L’ultima scatola, racconto scelto da Ellen Datlow per la pubblicazione nel quindicesimo volume The Best Horror of the Year, la tragica morte di una trapezista innesca una macabra e impossibile ricerca da parte del marito contorsionista.

L’altro filo conduttore che lega le storie è appunto il concetto di Necromilieus, particolari zone “ai confini della realtà” in cui il manifestarsi di eventi inconsueti e terribili, a causa di particolari condizioni storiche e spazio-temporali, sarebbe più probabile, teoria elaborata dallo scrittore torinese Enrico Bedolis nel suo bizzarro saggio “Scienza dei Necromilieus”.

Per quanto riguarda David Fragale, ci siamo conosciuti grazie ad alcune bellissime illustrazioni che aveva pubblicato sulla sua pagina FB dedicate a Eredità di Carne e a Bialere – Storie da Idrasca, il mio primo libro. Dopo questo primo contatto è nato un fitto scambio di messaggi sulla comune passione per l’horror e il fantastico, e poi l’idea di collaborare per le illustrazioni interne e la copertina del Buio, come ci piace chiamarlo. Ha fatto un lavoro incredibile, cogliendo alla perfezione lo spirito cupo delle mie storie, e credo che anche la copertina sia perfetta, che spinga a chiedersi: “Cosa si nasconde dietro quel Velo?”

Spero di poter tornare a lavorare con lui molto presto.

La tua raccolta A different darkness and other abominations è stata pubblicata negli Stati Uniti, con una nomination ai World Fantasy Awards. Come è stata l’accoglienza di questo volume negli Stati Uniti?

La pubblicazione negli Stati Uniti è stata un’esperienza positiva sotto ogni punto di vista; durante la fase di preparazione del volume ho potuto toccare con mano la professionalità della Valancourt Books, la loro cura dedicata alla traduzione, all’editing, alla creazione della copertina, alla promozione. Con James Jenkins, che ha curato e tradotto il volume, si è instaurata una bellissima collaborazione basata sulla comune passione per il fantastico, e durante i mesi precedenti la pubblicazione c’è stato un continuo scambio di feedback, suggerimenti, idee, abbiamo selezionato insieme i racconti, abbiamo coinvolto Brian Evenson che ci ha dato la sua disponibilità a leggere le mie storie e scrivere un’introduzione al volume, e penso che, lavorando in questo modo, il libro ne abbia giovato sotto ogni aspetto…

Quando A Different Darkness è finalmente uscito, i riscontri sono stati positivi, ma certo non mi aspettavo raggiungesse la finale del World Fantasy Awards o che Ellen Datlow selezionasse un mio racconto per il suo ciclo di antologie The Best Horror of the Year.

Nel tuo percorso di scrittore, quali sono state le sfide più significative che hai affrontato e come le hai superate?

Penso che la sfida più importante per ogni scrittore sia quella di riuscire a trovare la propria voce. Capire cosa si vuole raccontare e come raccontarlo. Resiste ancora quest’idea romantica dello scrittore come di qualcuno infuso di talento che si siede al tavolo per sfornare racconti e romanzi con facilità. Ovviamente non è così, ci può essere una componente di attitudine e talento, certo, ma prima di raggiungere qualche risultato apprezzabile ci vogliono anni di tentativi, fatica, sacrifici, pratica, costanza, esercizio. Ed è un processo che non termina mai, sempre in divenire… E poi ci vuole tempo. E il tempo spesso manca, sfugge, si curva, e per chi scrive penso sia di fondamentale importanza riuscire a ritagliarsi una bolla sicura in cui poter perseguire questa passione.

La collana Caronte di Zona 42, da te curata, si propone di esplorare il lato più oscuro della narrativa fantastica, accompagnando i lettori in un viaggio nell’ignoto attraverso i grandi titoli dell’horror contemporaneo. Quali altri titoli (oltre a Il pescatore di John Langan e al più recente Siamo qui per farci male di Paula D. Ashe) possiamo aspettarci in futuro?

Quando Giorgio Raffaelli di Zona42 mi ha proposto di diventare curatore di una nuova collana horror – proposta che ho accolto con entusiasmo – abbiamo discusso sull’impronta da dare a Caronte, giungendo alla conclusione di non metterci troppi paletti, di esplorare le innumerevoli declinazioni della narrativa del Perturbante contemporanea ponendo l’attenzione sulla qualità stilistica e l’originalità dei testi, su voci potenti, autoriali, possibilmente uniche.

Vogliamo storie che siano attuali, che esplorino la realtà che ci circonda da un punto di vista inconsueto, che raccontino i tempi terribili che stiamo vivendo, che parlino dell’animo umano ma anche del mondo in cui gli esseri umani si muovono, un mondo punteggiato di abissi, contraddizioni, traumi.

Penso che l’horror, che spesso viene tacciato di frivolezza e superficialità, sia in realtà il genere principe sia per esplorare zone di noi che non vogliamo esplorare sia per sondare il contemporaneo, ed è spesso cartina di tornasole dei mutamenti della società, delle sue perversioni, delle paure che portano con sé i grandi cambiamenti.

Siamo partiti col botto con Il pescatore di Langan, romanzo che è già un classico e che molti lettori di fantastico attendevano nel nostro paese. Penso sia un libro straordinario, che utilizza l’orrore cosmico e topoi lovecraftiani per raccontarci una storia molto intima di perdita ed elaborazione del lutto, un romanzo con una struttura atipica che alla sua uscita nel 2016 ha ricevuto numerosi riconoscimenti e vinto premi importanti.

Come seconda uscita abbiamo selezionato Siamo qui per farci male di Paula D. Ashe, autrice che al suo debutto con questa raccolta ha creato un piccolo terremoto nella community horror e vinto lo Shirley Jackson Award. Un volume completamente diverso da quello di Langan, in quanto scava nelle ferite personali di personaggi al limite e nel torbido della società americana trascinandoci in un vortice di dolore senza soluzione, in regioni di degrado urbano in cui si muovono serial-killer, donne vittime di violenza, sette che predicano vangeli di afflizione, bizzarre creature che possono ricordare i Cenobiti barkeriani, il tutto sorretto da uno stile unico e poetico, in cui traspare tutto l’orrore della Ashe, ma anche la sua compassione, per la tragica condizione umana.

La Ashe è autrice queer di colore, proveniente dal Midwest, e dalle sue storie penso emergano anche gli orrori del razzismo e del bigottismo negli States, le difficoltà che affliggono i quartieri poveri e le minoranze. Nei suoi racconti la sofferenza genera sofferenza, e chi è stato vittima del male lo eserciterà a sua volta, in un ciclo incubico che forse può essere spezzato soltanto dalla presa di coscienza che tutti noi siamo immersi in questa agonia, che siamo tutti sulla stessa barca.

Per il futuro di Caronte potete aspettarvi varietà, testi inconsueti, autori da noi poco conosciuti ma che meritano attenzione, e anche qualche nome grosso che non è ancora giunto in Italia. Sempre con un occhio di riguardo per la qualità dei testi e la cura delle traduzioni, com’è tipico di Zona42 – ma in Italia non è così scontato, specie quando parliamo di piccola-media editoria e narrativa di genere.

L’ultima uscita prevista per il 2024 sarà Qui, Altrove, romanzo del canadese Matthieu Simard, autore che non bazzica regolarmente l’horror ma che con questo testo si avventura in territori di delirio, lynchiani, raccontando di una coppia che dalla città si sposta in campagna per dare nuovo slancio a un matrimonio traballante. Non troveranno un nuovo inizio, ma un villaggio ostile e silenzioso, personaggi bizzarri che li trattano con sospetto, una strana antenna che incombe minacciosa sul paese e storie inquietanti sul vecchio proprietario della casa in cui si sono trasferiti…

Infine, come vedi l’evoluzione dell’horror e del weird, sia in Italia che a livello internazionale, e quali sono le tendenze che ti intrigano di più per il futuro della narrativa horror? Credi che il termine weird sia oggi inflazionato?

L’horror è vivo e lotta con noi, e come dicevo sopra è un genere-specchio della nostra società, delle grandi paure, dei mutamenti politici, sociali, culturali.

Oltreoceano stanno prendendo piede narrazioni che trattano di tematiche LGBTQIA+, di violenza di genere e salute mentale, di antropocene, romanzi che esplorano gli orrori del cambiamento climatico, altri che indagano gli scricchiolii del sistema capitalistico, e penso non mancherà molto prima che ci ritroveremo a leggere distopie horror che riflettono sull’avvento e l’espansione dell’Intelligenza Artificiale…

Al contempo vecchi temi vengono riutilizzati e rielaborati (pensiamo al recente revival del folk-horror o dello slasher), adattati ai giorni nostri, e sia nel cinema che in letteratura mi pare ci sia un bel fermento all’interno delle narrazioni oscure. L’horror è un genere protoplasmico che ha le sue radici nella notte dei tempi, e finché esisteremo noi esisterà l’horror con la sua carica sovversiva e indagatrice.

In Italia c’è una scena, cosa che fino a qualche anno fa non esisteva, ci sono autori ormai consolidati all’interno del genere, penso a Besana, Corigliano, Kulesko, Cucinotta, solo per citarne alcuni, ci sono case editrici serie che trattano il fantastico, così come librerie, manifestazioni e fiere… emergono i primi studi accademici dedicati alla narrativa fantastica italiana, e ci sono lettori, soprattutto lettori che si interessano all’horror, anche tra i giovanissimi, che non si limitano all’ultimo libro di King o all’ennesima ristampa di Poe e Lovecraft.

Non so dire se questo movimento continuerà a crescere, la situazione è decisamente migliorata rispetto ai giorni in cui pubblicavo i primi racconti su forum e riviste amatoriali, ormai una quindicina di anni fa… Se devo essere sincero, mi piacerebbe vedere più autori italiani emergere e far bene con costanza, ma ho come l’impressione che al momento ci si trovi un po’ in una situazione di stallo da questo punto di vista, e spero davvero sia solo un’impressione e di essere smentito.

Il termine weird è da qualche anno sulla bocca di molti, e la cosa non può che farmi piacere perché indubbiamente crea interesse intorno alla narrativa fantastica. Forse il “problema” è che weird è un termine così generico che potenzialmente può raccogliere tutto ciò che presenta elementi che esulano dal realismo, e spesso si creano incomprensioni, risulta difficile stabilire cosa sia davvero questo fantomatico weird… Mi sembra che talvolta sia poco più di un tag usato per identificare un’opera anche quando non ce n’è davvero bisogno.

Per qualcuno weird attiene esclusivamente alle narrazioni che gravitavano intorno alle riviste pulp americane (e non) degli anni venti e trenta, altri si rifanno alle definizioni di Mark Fisher, altri ancora appiccicano il termine a qualunque cosa presenti degli elementi bizzarri e inconsueti… Insomma, penso ci sia un po’ di confusione e che il termine assuma significati diversi a seconda di chi lo utilizza.

E giusto per creare ulteriore caos dirò che per me il weird è quel genere che tratta dell’incontro dell’umano con l’incomprensibile, con lo smisurato, con un’assenza o una presenza madornale, e da questo incontro si generano sensazioni di terrore ma anche di meraviglia e sublime.

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Apri gli occhi di Nicola Lombardi

Il trillo si fece largo, a poco a poco, fra le nebbie informi e pastose del sogno, come una grossolana punta di trapano contro un muro che resiste ai primi cauti assalti, ma che poi, inevitabilmente, si sfalda in un vortice polveroso. Le palpebre di Vanni si sollevarono di scatto, lasciando che le pupille si colmassero di quel buio gremito di puntolini colorati di cui la stanza sembrava pullulare. Colpi ritmici e concitati riverberavano attraverso il materasso per risalire a rimbombargli nelle orecchie, come se il suo cuore fosse cucito all’interno del cuscino. Cosa lo aveva svegliato?

Tutte
le illazioni che gli erano fiorite nella testa durarono il tempo
intercorso fra l’affievolirsi di uno squillo e l’esplodere del
successivo. Nel silenzio che stagnava nella casa, quel suono
metallico, perentorio, aveva il potere di  penetrare fino in fondo
all’anima, affogandola in una paura senza nome. Il telefono? A
quell’ora? Ma del resto, che ore erano? A Vanni pareva di essersi
appena coricato, ma sapeva che la percezione del trascorrere del
tempo notturno l’aveva sempre ingannato.

Altri
squilli, insistenti. Voltò il capo verso la moglie, distesa al suo
fianco sotto due strati di coperte, quasi potesse vederla in
quell’insondabile oscurità. Meglio alzarsi, prima che Lucia si
svegliasse. Poveretta, non stava molto bene. Doveva essersi presa una
brutta influenza. Le aveva misurato la temperatura, prima di mettersi
a letto. Trentotto e quattro. Non eccessiva, per una persona di
robusta costituzione. Ma abbastanza debilitante per una donna che
sfiorava l’ottantina. Vanni era stato tentato di chiamare la
guardia medica, però Lucia stessa gli aveva detto di lasciar stare:
ci avrebbero pensato il mattino dopo, se già una buona tisana e una
notte di sonno non avessero provveduto a rimetterla in sesto.

Ma
quel telefono, maledizione!… Non accennava a placarsi. Doveva
essere qualcosa di veramente urgente.

Se
avessero avuto figli, allora avrebbe pensato senz’altro a qualche
preoccupante emergenza da parte loro; ma non avendone, proprio non
gli riuscì di immaginare chi potesse chiamarlo quando ancora non si
vedeva un solo pallido accenno di luce filtrare tra le fessure delle
tapparelle.

Di
malavoglia, facendo appello a tutte le forze che il suo corpo ossuto
poteva racimolare dopo quel brusco risveglio, Vanni spinse le gambe
fuori dalle coperte, infilò i piedi nelle pantofole – che metteva
sempre nello stesso punto, così da ritrovarle subito con geometrica
precisione, anche senza vederle – e si consegnò all’aria fredda
che gli gelò il velo di sudore fra pelle e pigiama.

Il
percorso fino alla porta era un tragitto sicuro. Otto passi (tre a
destra, ancora tre a destra, e due a sinistra). Quindi allungò la
mano, e la maniglia ripose fedele alla sua stretta. Aprì, scivolò
nel corridoio, e subito si richiuse la porta alle spalle, prima che
un nuovo trillo si infilasse nel pertugio per volare addosso a Lucia
e strapparla al sonno.

Ora
il suono era decisamente più forte, e Vanni lo sentì rimbalzare
dentro il cranio, da un lato all’altro, come una pallina di gomma.
Sbuffando, avanzò di cinque passi facendo strisciare i polpastrelli
della mano destra lungo la parete (non troppo in alto, per evitare di
colpire un quadretto posizionato esattamente a metà del percorso).
Una volta raggiunto    il salottino, lasciò che le dita
trovassero l’interruttore, schermandosi con l’altra mano gli
occhi per proteggersi dal giallore elettrico che gli piovve addosso
dal lampadario. Subito sprofondò nella sua poltrona. Accanto al
tavolino rotondo. Quello sul quale il grosso telefono grigio lo stava
chiamando. Gli squilli lo rintronavano, doveva interromperli
all’istante. Sollevò ansante la cornetta e se la portò
all’orecchio.

«Sì,
pronto…?» rantolò.

All’altro
capo udì dapprima solo un fruscio ronzante. Attese qualche istante,
poi riprovò: «Pronto? Chi è?»

Allora,
in mezzo al brusio crepitante generato da un disturbo sulla linea, si
fece strada una voce. Confusa, all’inizio. Quasi impercettibile.
L’uomo aggrottò la fronte, stringendo più forte la cornetta come
se la pressione delle dita potesse migliorare la qualità della
comunicazione.

«Vanni…
caro…
»
udì. «Sono
io…
»

Il
cuore mancò un battito. «Pronto?» disse ancora, sentendosi
inevitabilmente stupido. «Chi parla?» Una parte del suo cervello –
quella che solitamente non gli piaceva ascoltare, perché aveva quasi
sempre ragione – aveva riconosciuto quella voce. Però non era
possibile. Nella maniera più assoluta, non
era possibile
.
Per cui, rimase aggrappato con tenacia al proprio lato più
razionale, nonostante lo sentisse particolarmente fragile, a
quell’ora della notte.

Ma
il soffio freddo della paura articolò due semplici parole che la
cornetta scoccò a trafiggergli il cervello. «Sono
Lucia
».

A
quel punto Vanni si ingobbì sulla poltrona, afflosciandosi come un
sacco di sabbia gettato in un angolo. «Cosa… come…?»

Tra
le scariche elettrostatiche, la voce di donna all’altro capo
continuò a infierire, seppure con infinita dolcezza. «Sono
Lucia, amore. E sono morta. Mi dispiace. Davvero tanto, mi dispiace.
Ma ti volevo parlare un’ultima volta. Ti volevo avvisare…
»

Vanni
aprì e richiuse le labbra più volte, sentendosi immerso in un’aria
sempre più densa. Un calore innaturale aveva costretto ogni poro
della sua pelle a secernere goccioline che all’istante si
rappresero in una patina ghiacciata. La poltrona oscillava, e
ruotava. E la cornetta che gli si era incollata addosso, fra mano e
orecchio, aspettava che la sua lingua formulasse una frase, qualcosa
di pertinente, qualcosa di ragionevole. Ma la sua mente aveva smesso
di collaborare.

«Non…
non puoi… essere tu…» balbettò. «Tu sei… di là, a letto…»

La
voce (la voce di
Lucia
,
inconfondibilmente) non ebbe esitazioni: «
c’è solo il mio corpo, ma tu non ti devi fidare. Quel corpo è
morto. Io non sono più là dentro…
»

E
a quel punto accadde qualcosa che gli strappò un gemito e gli
contrasse le dita artigliate a un bracciolo della poltrona.

Un
rumore, dal corridoio. Un cigolio ben noto. La porta della camera da
letto… Si era aperta. Qualcuno stava camminando.

In
fondo, avrebbe dovuto sentirsi sollevato. Sua moglie si era
svegliata, alla fine. Non avendolo trovato al suo fianco, si era
alzata. Forse lo aveva sentito parlare, e adesso stava venendo a
controllare. Tutto normale…

Invece,
un terrore senza nome gli avvizzì l’anima.

«Non
fidarti, ti dico!
»
incalzò la voce di Lucia dalla cornetta. «Quella
che sta arrivando non sono io! Non devi guardarla! Chiudi gli occhi!
Non sono io!…
»

Vanni
provò una fitta al torace. Tutto il suo corpo pareva intorpidito.

«Chiudi
gli occhi!
»

I
passi in corridoio, lenti e strascicati, erano giunti quasi
all’altezza della porta del salotto. Presto avrebbe visto… Chi?

«Chiudi
gli occhi!
»

Un
fruscio di ciabatte, un respiro roco.

E
a quel punto l’uomo cedette alla valanga delle emozioni. Serrò gli
occhi, più forte che poté, stringendo i denti. Rimase così,
immobile, la cornetta premuta contro l’orecchio, il cuore
impazzito, un tremito diffuso a fior di pelle… finché un fruscio
segnalò l’apparizione della donna (Lucia,
doveva
essere lei!
)
sulla soglia del salotto.

Vanni
continuò a tenere le palpebre abbassate, solo vagamente consapevole
di apparire patetico agli occhi della moglie. Ma l’eco delle parole
iniettate in lui dalla voce al telefono non voleva saperne di
liberarlo, e la suggestione di quelle ultime tre parole lo teneva
prigioniero.

Passi
lenti – i passi di un corpo stanco, grosso, appesantito dagli anni –
gli si avvicinarono, e con essi anche quel respiro affaticato e
ruvido che credeva di riconoscere. Si aspettò che la moglie gli
domandasse cosa diavolo stesse mai facendo, lì, a quell’ora,
attaccato al telefono, gli occhi chiusi. Era forse sonnambulo? O era
uscito di senno?

Invece,
a poco meno di un metro da lui, la voce di Lucia gli fece rattrappire
la cute.

«Apri
gli occhi».

La
donna al telefono non esitò: «Non
farlo, ti prego! Non sono io! Io sono
morta!»

«Apri
gli occhi!» ripeté perentoria la donna che si trovava davanti a
lui, e che doveva essersi ingobbita per farsi più vicina. Avvertì
con una punta di ripugnanza l’odore del suo alito, acre di
medicinali.

«Non
guardala, non sono io!
»

Troppa
tensione. Non avrebbe potuto reggerla oltre. Doveva decidersi. L’urlo
che già da un po’ gli urgeva in gola prese corpo e forza,
gonfiandosi in lui come un grosso serpente fatto d’aria e paura.

«Apri
gli occhi!»

E
allora a Vanni sembrò di esplodere, di infrangersi contro una cometa
nera. Aprì la bocca. Uno strillo silenzioso gli graffiò le pareti
interne della gola, e mentre un sibilo dentro la sua testa saliva ad
altezze vertiginose non poté più trattenersi. Spalancò gli occhi,
e…

Tutta
la cacofonia interiore che lo aveva martoriato fino a quel momento si
dissolse all’istante, e attorno a lui fu di nuovo buio, e silenzio.

Rimase
in ascolto, i sensi elettrizzati pronti a captare il minimo stimolo,
il minimo suggerimento. E non gli volle molto per rendersi conto di
essere disteso nel proprio letto. D’istinto sporse un braccio sulla
destra, incontrando subito il corpo di sua moglie. Sospirò, e
sorrise. Un sogno. Non era stato che un orribile sogno. E che altro
mai avrebbe potuto essere?

Mentre
il cuore andava rallentando la sua corsa fece strisciare una mano
fuori dalle coperte e la portò tastoni al volto di Lucia, che
riposava su un fianco, rivolta verso di lui. Le accarezzò
amorevolmente una guancia, e lei mugolò. Forse l’aveva svegliata.
Poco male, non avrebbe faticato a riprendere sonno. Era bello
sentirla ancora lì, accanto a lui. Anche la donna, lentamente,
allungò una mano, raggiungendo con delicatezza il viso del marito.

Vanni
continuò a sorridere, nel buio, gli occhi aperti sull’oscurità. E
per non guastare quell’attimo di infinita tenerezza scacciò da sé
l’idea, davvero molto fastidiosa, che la guancia di Lucia adesso
fosse troppo fredda. E lo erano anche le sue dita, ruvide, secche,
che adesso gli scorrevano gelate lungo la gota sinistra…

Con
un fruscio di lenzuola e camicia da notte, Lucia gli si portò più
vicina, nella più totale oscurità. Produsse un rumoretto
risucchiante nel separare le labbra e muovere la lingua inaridita;
quindi sussurrò tre semplici parole: «Apri
gli occhi…
»

E il cuore dell’uomo rotolò nell’abisso.

Apri gli occhi di Nicola Lombardi