Un gruppo di ragazzini attraversa le
strisce pedonali, in fila per due, tenendosi per mano.
La loro maestra cammina davanti a
loro. Sta salendo sul marciapiede.
Spesso si volta indietro.
Un vigile urbano, un uomo panciuto di
mezza età, e una donna anziana guardano i bambini e sorridono, compiaciuti
delle loro risate e delle loro espressioni felici.
In secondo piano,
a velocità elevata,
si avvicina un auto.
In testa al gruppo di bambini,
davanti a tutti, stringendo la mano al primo di loro,
cammina la Morte.
di Luca Bonatesta
(lucabonatesta71@gmail.com)
L a belva dei Carpazi di Gordiano Lupi
Ricordi di Erzsébet Báthory Castello di Csejthe, 21 agosto 1614
Non avrei mai creduto di finire la mia vita rinchiusa come una belva feroce, come un animale braccato, condannata per sempre a invecchiare in solitudine, a bramare la morte come una liberazione. Perché la cosa peggiore che mi può ancora accadere è quella di vedere il mio corpo appassire sotto i colpi inclementi del tempo che scorre. C’è ancora lo specchio nella mia stanza. Nessuno lo ha portato via. Sono costretta a guardare la vecchiaia che avanza inesorabile. Si avvererà la profezia della vecchia megera che un giorno mi disse: “Diventerai come me, contessa! Nessuno ti vorrà più baciare!” Ridevo di lei, della sua bruttezza, avevo obbligato il mio amante a scendere da cavallo e a baciare quelle labbra raggrinzite, ad accarezzare quella pelle sfiorita. Le parole della vecchia mi entrarono nell’anima e subito smisi di ridere, perché era vero che presto sarei diventata vecchia e brutta. Pure io, che ho avuto tanti amanti e ho sempre potuto scegliere tra i nobili più attraenti, mi sarei trasformata in una vecchia megera e gli uomini non avrebbero voluto toccarmi. Solo per questo ho cercato di oppormi al tempo che passa. Non potevo attendere la fine della gioventù senza provare a fare qualcosa. Non potevo. Amavo il biondo dei miei capelli e lo conservavo lavandoli con cenere, zafferano e camomilla. Volevo che la mia pelle restasse bianca e vellutata. Volevo essere giovane per sempre. Per questo mi hanno murata viva nel mio castello. Ho letto le accuse della corte e immagino lo sguardo accusatore di quei venti giudici, dei testimoni e di quel maledetto prete Ponikenus. Non ho voluto subire l’onta del processo, sono rimasta al castello, nelle mie stanze. Non potevano giudicare una contessa come una volgare plebea. Non ne avevano il diritto. Ho letto pure la sentenza: “Avendo le confessioni e le testimonianze dimostrato la colpevolezza di Erzsèbet Báthory e di come ella abbia commesso delitti contro persone di sesso femminile, visto che i suoi complici esigono una punizione, abbiamo deciso di strappare le dita con le pinze a Jò Ilona, di condannare a morte Ficzkò che sarà decapitato e gettato tra le fiamme…”. Parole terribili che percuotono ancora la mia mente. Non potevano fare questo anche a me, ero pur sempre la contessa Erzsèbet Báthory, mica una serva di palazzo.
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La casa nella nebbia di Alda Teodorani
La vecchia viveva sola, in una casa di campagna della pianura romagnola, vicino a Pontesanto. Una casa in mezzo al nulla. Solo una piatta distesa nebbiosa. Per questo il cadavere fu ritrovato solo parecchie settimane dopo. Il contadino raccontò che aveva sete, e si era fermato a bere al pozzo della vecchia. “Quella là,” disse ai carabinieri sforzandosi di parlare in buon italiano, non in dialetto, “non usciva mai di casa. Ciò, l’è longa in bicicletta da Sasso a Toscanella e mi fermo sempre là a bere e magari a cambiare l’acqua ai lupini. Lei non mi ha mai detto niente, non l’ho mai vista, neppure.” E alle domande dei carabinieri, che non sapevano cosa voleva dire cambiare l’acqua ai lupini ma erano più interessati a un’ipotesi di delitto, rispondeva: “A’ ne so, gli portavano da mangiare quelli del comune. Dicevano tutti che era una strega, o qualcosa del genere. Ma io non l’ho mica neanche mai vista.” I carabinieri conclusero che la vecchia doveva essersi buttata nel pozzo da sola, e commentavano su quel disgraziato di Pirotti, che era stato il primo ad arrivare sul posto e aveva dovuto aiutare a tirar su la morta, già mezzo putrefatta. La vecchia non aveva parenti, e il comune di Imola aveva pagato i funerali, facendo suoi casa e podere. E la storia parve finita.
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Il mio inferno di Luca Bonatesta
È giorno fatto. I vostri occhi sono disturbati dalla luce, la maggior parte di voi si sta risvegliando adesso. Siete dentro un pullman. Seduti su di un morbido rivestimento di stoffa a motivi floreali azzurro e verde, le teste reclinate sui poggiatesta integrati in vinile blu oceano. Sopra i tavolinetti ci sono riviste e quotidiani e, negli spazi porta bibite, bottigliette d’acqua ormai sgassata e lattine vuote. Il sole si alza lentamente ma inesorabilmente nel cielo color candeggina. È estate. State viaggiando su una strada di campagna. In fondo c’è un paesino in collina, ma ancora non lo vedete. Una voce, che sembra venire dal conducente dietro il vetro, annuncia: “Buongiorno, signori, ben svegliati! Avete riposato bene? Come promesso, alle prime luci del mattino, ci stiamo avvicinando all’ingresso dell’Inferno.”
Ai lati della superstrada la sterpaglia brucia e diventa cenere, si innalzano grandi fuochi e il fumo si diffonde come nebbia. Ancora non vedete il paese. La voce del conducente prosegue: “Notate gli alti falò che avvertono il visitatore dell’approssimarsi all’entrata.” Il pullman grigio – i raggi del sole creano riverberi sulla superficie lucida del tetto – scivola nell’aria come un balenottero nell’acqua. “Non badate agli sguardi ostili” dice il conducente. “L’Inferno non è un bel posto e la gente non è molto socievole. Ma voi, signori, non abbiate paura: viaggiate con la nostra agenzia!” L’autocorriera si è avvicinata all’ingresso del paese, che adesso entra nel vostro campo visivo anche se è ancora distante.
Castellabate, regione del Cilento (Campania) – 30 Settembre 2018
Fa ancora molto caldo e il mare sembra più bello che mai da qui. Godo di una vista paragonabile al sublime dei grandi Romantici. C’è l’acqua con i suoi riflessi verdi, grigi, azzurri sempre più sfumati fino al taglio netto che li separa dall’orizzonte offuscato che lascia viaggiare lontano la mente, i ricordi, i sogni. Gli strappi oscuri che occhieggiano dai nembi rammentano alla mia anima degli incubi che trattengo a fatica dentro di me.
Sono seduto sulla collina vicino alla casa che fu di mia nonna e che ora non è abitata da nessuno. Proprio lì, nella vecchia cantina, ho trovato un prezioso documento che avrei fatto meglio a consegnare a uno dei musei locali dove però avrebbero potuto bollare il contenuto come una burla ai danni di una storia sacra. Sì perché il contenuto riguarda Costabile Gentilcore, colui che diede inizio alla costruzione del castello che poi ha dato il nome a questo paese, Castellabate (Castrum Abatis). Lui era l’abate e mia nonna ne è diretta – seppur lontana – discendente, almeno così si dice. Ormai è tardi e serbo con me il contenuto di quelle pagine. Si tratta di appunti scritti, riscritti, costantemente tramandati da secoli e via via adattati nel linguaggio, temo non nel contenuto. La prova tangibile è proprio accanto a me nel momento in cui scrivo.
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