Sognando Infinite Morti 1

Abbiamo imposto alla festa la nostra musica. Via quella merda di house o dance o quello che cazzo è e vai con la voce di David Bowie dall’album Pinups.
Ci scateniamo. Agitiamo braccia e gambe. Scuotiamo le teste con espressioni serie e ispirate. I nostri movimenti generano disappunto e disgusto negli altri, ma anche curiosità in chi è abituato ad altri suoni.
Il sudore esce dai pori della pelle surriscaldata e si congela subito. Sensazioni di caldo e freddo. Il tempo scorre in fretta o si cristallizza nello spazio di pochi secondi. Velocità e lentezza. Le luci colorate creano universi nelle nostre pupille. I corpi si intersecano dando vita a geometrie nuove.
Angela sorride e mi guarda, mi guarda e sorride.
Le sue treccine rasta sono bionde come l’oro e il volto pallido con le gote arrossate sembra la maschera di un clown. Gli occhi sono azzurri come il ghiaccio: distese infinite di gelo e di luce bianca e fredda che accoglie tutti i colori dello spettro.
Adesso siamo in uno dei bagni. Apro la busta di plastica e lascio cadere la polvere bianca sul ripiano verde chiaro. Separo sei strisce (sei è il mio numero fortunato) con una scheda telefonica e arrotolo una banconota.
Angela tira per prima, poi tocca a me.
Iniziamo a baciarci con la lingua e a toccarci.
Consumiamo tutta la coca: conviene non far rimanere niente nelle tasche in caso di controlli.
Umidità e calore. Carne che cede e che resiste. Elasticità e spigoli. Lo spazio intorno si modifica per adattarsi ai nostri movimenti. I seni nudi di Angela sono due animali ribelli nelle mie mani, mentre lei mi morde un orecchio alitandomi all’interno. La sua mano va su e giù sul gonfiore che tende i miei slip neri. Lo tiro fuori. È così duro che mi fa male. Angela apre le gambe e mi accoglie dentro di lei. È superumida. Muove i fianchi assecondando i miei colpi vigorosi.
Poi inizia a gridare.
Io guardo fisso verso di lei senza vederla mentre Angela continua a strillare.
Avverto il sangue che mi esce dal naso come la lava da un vulcano che io sto osservando mentre si risveglia dopo secoli di inattività.
L’ultima cosa che sento in questa vita sono le urla di Angela che si ripetono a intervalli regolari…

di Luca Bonatesta
(lucabonatesta71@gmail.com)




In utero

Che silenzio…
Quanta acqua…
Vi sono immerso dentro…
Sono nell’utero di mia madre.
Sento la sua voce e avverto la carezza delle dita.
Percepisco la paura di mio padre e vorrei consolarlo. Subito dopo la mia nascita inizierà a soffrire di disturbi psichiatrici. E io sono qui dentro, al sicuro. Protetto. Non posso fare niente per aiutarlo. Vorrei espandere la mia mente per raggiungere la sua. Trasmettergli tranquillità, senso di sicurezza. Le stesse sensazioni che provo io. Vorrei comunicargli tutte le mie conoscenze, prima di perderle.
Appena aprirò col mio corpo la vagina di mia madre, diverrò un essere ignorante, fragile, bisognoso di protezione. Il cordone ombelicale, unico legame ancora con la mia genitrice, verrà tagliato. Il ginecologo mi prenderà per i piedi. La luce mi ferirà gli occhi e strillerò per la paura. Contrarrò i muscoli appena formati. Mi agiterò tra le braccia di un’infermiera finché la mia rabbia non troverà la sua stanchezza.
Eccomi, attaccato al seno materno.
Mi nutro.
Ho ceduto al ricatto.
Del resto ho solo vaghissimi ricordi di quello che ero prima.
Sono consapevole di essere fragile ora.
Ho bisogno dell’aiuto di mia madre e di mio padre se voglio continuare a esistere.

di Luca Bonatesta
(lucabonatesta71@gmail.com)




Una notte del 31 ottobre di Davide Stocovaz

Appena aprii gli occhi, mi trovai avvolto da un’oscurità impalpabile.
Non avevo memoria di quanto avessi dormito, né del luogo nel quale mi trovavo. Provai a muovere un braccio. Lo sentii urtare contro una superficie dura, liscia. Alzai anche l’altro, poggiandolo a quello che sembrava essere il soffitto di una minuscola stanza.
Anelavo la luce del sole, così vivida nei miei ricordi. Desideravo respirare aria fresca, sentirla entrare nel naso e scendere fino ai polmoni. Alzai entrambe le braccia. I palmi delle mani poggiati sulla superficie sopra la testa. Spinsi con tutte le mie energie. Non accadde nulla. Mi sentii soffocare. L’aria, all’interno dello stanzino, era irrespirabile; un odore acre, pungente, mi intasava le narici fin dal mio risveglio. Dovevo assolutamente uscire da lì, o sarei impazzito. Allungai nuovamente le braccia verso l’alto. Strinsi i denti. Raccolsi ogni briciolo di forza. Spinsi ancora. Sentii il soffitto gonfiarsi e piegarsi sotto le mani. Uno scricchiolio legnoso mi indicò che stavo raggiungendo il mio scopo. Con un ultimo, sovrumano sforzo, alzai il busto, spinsi ancora. Lo sentii cedere e spalancarsi. Una valanga umida e compatta mi travolse, spezzandomi il respiro. Trattenni il fiato, agitai braccia e gambe spingendomi verso l’alto. Mi trovai a nuotare nel cuore di quella strana valanga dal fresco odore pungente. Chiusi gli occhi, muovendomi alla cieca. Annaspai per un tempo che mi sembrò eterno, finché urtai con le dita una nuova superficie; più dura e fredda della precedente. Dovevo sollevarla il prima possibile. Provai a forzare quel secondo soffitto. Piegai le ginocchia, sollevai il busto, e lo tentai ripetutamente, spingendolo verso l’alto. Lo sentii smuoversi appena. Forse qualche centimetro. Lasciai la presa, recuperai le energie e, dopo qualche secondo, lo attaccai di nuovo. Con uno sforzo supremo, stringendo i denti a tal punto che iniziarono a dolermi, riuscii a scostare il soffitto, spingendolo a lato. L’aria fredda e briosa della notte mi colpì le narici con una folata. Fui subito pervaso dall’estasi più pura che abbia mai conosciuto. Trattenni il respiro e mi infilai nella fessura appena creata. Uscii all’esterno alzandomi contro il cielo punteggiato di stelle. La luna rifulgeva tra gli alberi scheletrici. Mi guardai attorno, aspettando di ritrovarmi su un qualche tipo di tetto, a osservare la città dall’alto. Invece davanti a me si stendeva una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch’esse di marmo.
Semincosciente, avanzai verso un cancello. Lo aprii.

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Il signor Naif di Vincenzo Barone Lumaga

Disteso sul prato, il Signor Naïf ammirava il sole pigro del pomeriggio.
Adagiato sul piccolo telo, accanto a sé aveva la moglie e i loro due bambini,
ognuno disteso sulla sua piccola stuoia. Poco lontano da loro poggiato un
cestino, che raccoglieva ora solo i resti del picnic appena terminato. L’aria
era bella, il cielo punteggiato di nuvole rade che si spostavano rapide nel
vento. Il Signor Naïf osservò tutto questo, poi la moglie e i bambini. Pensò
che era davvero fortunato per la bella famiglia che aveva. Sua moglie aveva
forse il corpo un po’ sproporzionato rispetto alle gambe e le braccia sottili,
ma occhi belli grandi e un dolce sorriso, sotto i capelli di un rosso acceso. I
loro bambini forse erano venuti un po’ troppo tozzi, dai lineamenti sfuggenti,
quasi abbozzati, ma erano due buoni ed educati. In quel momento si sentì felice.
Peccato che il tempo iniziasse a guastarsi. Pochi minuti ele nuvole isolate si
trasformarono in una cappa grigia che nascondeva loro il sole, e scuriva
minacciosa. Non fece neppure in tempo a far notare la cosa alla sua famiglia
che la prima goccia di pioggia lo colpì sulla mano. Tante altre rapide la
seguirono. Il signor Naïf fece per alzarsi e cercare un riparo. Si accorse solo
in quel momento di non potersi muovere. Per ignota ragione non poté staccarsi
dall’asciugamano su cui era steso e dal prato. Tentò di gridare, ma scoprì di
non poter emettere suono. Fissò la moglie e i figli, e dall’espressione
terrorizzata dei loro sguardi capì che erano paralizzati anche loro. Stettero
muti, immobili e impotenti sotto la furia del maltempo. Si sarebbero di certo
buscati un febbrone con tutta quell’acqua. Ormai erano inzuppati Il signor Naïf
si guardò le braccia. E rimase ancora più sconvolto.

Vide, con orrore, le sue braccia che si stavano sciogliendo. I contorni
delle sue mani, il rosa della carne, il blu della giacchetta, tutto perdeva
forma e compattezza. Guardò gli altri. La moglie e i figli si stavano
sciogliendo sotto le gocce d’acqua, il viso di lei già stato cancellato del
tutto. Tutto si scioglieva, i loro vestiti, le asciugamani, il prato stesso si
scoloriva nelle pozze chiare che si stavano formando, il verde schiariva sempre
più fino a degenerare in un bianco sporco.

Solo allora il signor Naïf comprese che egli, la sua famiglia, il prato in cui si erano riposati dopo il picnic, altro non erano che lo scarabocchio di un bambino che poi li aveva abbandonati all’aperto, forse su una panchina, forse un marciapiede, ad ammirare il cielo di un pomeriggio d’autunno che si era rannuvolato all’improvviso, e costretto il loro Creatore tornare dentro casa. Poi due gocce gli caddero sugli occhi, e ogni immagine si spense.




Il violino maledetto di Biancamaria Massaro

Amici e parenti avevano tentato senza risultato di confortarlo, ricordandogli che era fortunato a essere ancora vivo, ma l’uomo pensava solo alla famiglia che aveva perduto, alle gambe che non avrebbe più potuto muovere e al suo viso deturpato dal fuoco e dalle cicatrici.
Certo, gli restava ancora il violino, che non aveva bisogno che si alzasse in piedi per essere suonato. Come poteva però presentarsi in pubblico con quell’orribile volto che avrebbe ricordato a tutti – lui per primo – che era sopravvissuto gettandosi fuori prima dell’impatto con l’albero, mentre la moglie e le sue due bambine erano morte carbonizzate sotto i suoi occhi, perché non era riuscito a trascinarsi fino alla macchina per aiutarle?
Non partecipò più ai concerti e si rinchiuse nella villa fuori città, in compagnia del suo violino. Vivendo molto distante dalle altre abitazioni, poteva suonare indisturbato a tutte le ore, confondendo il giorno per la notte e lasciando intatti i pasti che la governante gli preparava.

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