Sognando Infinite Morti 4

Sto leggendo un racconto che parla di morte. Di tante morti che si susseguono una dietro l’altra. Faccio fatica a capirne il senso. Che numero di morte è questa? La settima? O la decima? Provo a contarle ma ogni volta perdo il conto. Ricomincio per tre volte e poi lascio perdere e riprendo da dove ho interrotto. Mia moglie si agita nel sonno e mi distrae. Spero che stia sognando un mostro che se la mangi ‘sta troia stupida. Guardo il suo corpo grasso. Lei crede che non sappia dei suoi amanti. Quanti sono? Provo a contarli ma perdo il conto. La guardo. Socchiude la bocca. Le labbra siliconate. Quanti cazzi sono entrati lì dentro? Si sposta sul fianco, una mano le cade tra le gambe. Qaunti cazzi le sono entrati nella fica?
Riprendo a leggere. Ma è sempre lo stesso personaggio che muore? O sono personaggi diversi? Mi ha stufato ‘sto racconto del cazzo.
Mi alzo. Mi è venuta fame.
In cucina mi preparo un panino e lo divoro con avidità. Penso alla merce che arriverà domani in negozio. Domani c’è Piero? Piero è il mio commesso. Quanti giorni di fiere gli ho dato quest’anno? Provo a contarli ma non ci riesco.
Torno a letto. Passo prima dalla stanza di mio figlio. Mi affaccio. Sta dormendo. È un bel bambino. Senza dubbio. Alla sua età io non ero così bello. Non ha preso il mio naso aquilino. E neanche quello all’insu della madre. Ha un naso dritto, da profilo greco. E gli occhi azzurri? Quelli li ha presi dalla madre. E il colore dei capelli? Quella sfumatura biondo rossiccia? Quando sarà grande, diventeranno scuri come i miei? O biondo platino come quelli di sua madre? O resteranno rossi? Come sono lunghi… domani lo porto dal barbiere. Provo a contare i capelli di mio figlio ma perdo il conto.
Entro nella stanza. Prendo un cuscino e lo appoggio sulla faccia del mio bambino.
Il corpicino si dibatte violentemente. Le manine artigliano l’aria cercando di bloccare il misterioso aggressore. L’orco che finalmente è arrivato. L’uomo nero.
Quando mio figlio smette di agitarsi, spingo ancora per mezzo minuto e poi tolgo il cuscino.
Gli occhi sono spalancati. La lingua estratta. La pelle cinerea.
Torno da mia moglie.
Attraversando il corridoio, provo a contare quante volte si ripete il motivo ornamentale del pavimento ma perdo il conto.
Anche per lei il cuscino. Ma questa volta le braccia sono più lunghe e le dita riescono ad artigliarmi. Rivoli di sangue dalla mia pelle. Poi un colpo duro sulla testa. Una, due, tre volte. Finché non scendo dal letto e libero mia moglie che ha in mano il telefono sporco del mio sangue.
“Troia!” le urlo. Lei mi guarda tra lo stupito e lo schifato. Con un salto la raggiungo e la prendo a schiaffi. L’afferro. Lei fa resistenza. Mi graffia. Mi dà un calcio nelle palle. Urla. Grido anch’io e continuo a colpirla nonostante il dolore all’inguine. Poi il mio campo visivo viene mutilato. Il dolore. Forte. Dentro l’occhio. La troia mi ha infilato qualcosa nell’occhio. Le tocco. Sono forbici. Che ci fanno le forbici della cucina nella stanza da letto?
Mia moglie mi appare, tra le luci nere e rosse che esplodono, come una furia incazzata, disperata, piangente, urlante, finché non si volta ed esce correndo dalla stanza.
Io mi accascio per terra. Non vedo più niente. Sento il sangue che mi ricopre vischioso. Muoio ascoltando la voce di mia moglie urlare il nome di nostro figlio…




Sognando Infinite Morti 3

L’ultima moneta cade nella scatola di cartone. Come so che è l’ultima? Dal suono.
L’ultima ha sempre un suono particolare. È come una voce che mi dice che per oggi devo accontentarmi.
Devono essere le nove di sera, ormai. All’incirca. Non c’è più nessuno in strada. È ora di alzarmi, raccogliere tutte le monetine e andarmene. Per oggi basta elemosina. Ho abbastanza soldi per comprarmi una bottiglia di vino.
Di quello scadente, che sale subito alla testa e non mi fa pensare a tutto quello che avrei potuto fare nella mia vita, invece di finire a quarant’anni sulla strada.
Cammino. Li ho notati da almeno un quarto d’ora. Continuo a camminare.
Quando bevo non perdo la mia lucidità, anzi. Cioè: i pensieri diventano confusi e non riesco a concentrarmi su niente per più di un minuto, il che è una cosa buona perché i ricordi si allontanano, ma i miei sensi si affinano.

L’udito e l’olfatto soprattutto.
Ed è così che avverto l’odore di hashish e sento le loro risate sommesse e lo scambio di battute.
Sono tre, sui vent’anni. E ce l’hanno con me.
Indossano giacche di cuoio nero e jeans scoloriti o strappati. Portano capelli tagliati molto corti, alcuni a zero.
Ghignano.
Ridono.
Uno di loro mi colpisce con una catena arrugginita.
Un altro usa un’asse di legno staccata da una panchina.
Il terzo mi prende a calci quando sono ormai a terra.
Gli ultimi suoni che sento in questa vita di merda sono urla e risate idiote…




Sognando Infinite Morti 2

Qualcosa di umido e appiccicoso mi aderisce alla pelle.
Muovo le mani e le braccia, ma non riesco a stacccare questi filamenti sottili che avvolgono interamente il mio corpo.
L’oscurità è totale.
Rumori come fischi o respiri affannati si diffondono tutto intorno a me.
Non disringuo nessuna forma, ma il modo in cui avverto i suoni mi fa capire che mi trovo in un ambiente vasto.
Mi accorgo che una parte di quei suoni viene da me.
Un’aria fredda soffia sulla mia pelle sudata.
Sono nudo.
Vedo provenire da lontano una luce rossa.
È così minuscola che deve essere molto distante.
È chiaro che sto sognando.
Ne sono pienamente conscio.
Ma la consapevolezza non mi induce a svegliarmi.
Faccio comunque un tentativo e ripeto: “Sto sognando, sto sognando, sto sognando…”
Intanto la luce lentamente si ingrandisce.
Man mano che si avvicina, rischiara tutto l’ambiente.
Distinguo le forme di altri corpi. Altri esseri umani.
Uomini e donne di tutte le età che si dibattono in questa… ragnatela enorme.
Adesso la luce si è divisa in due fari rossi che si avvicinano sempre più rapidamente.
Sono gli occhi di un ragno gigantesco.
Le mandibole della creatura che si aprono sono l’ultima cosa che si imprime sulla mia retina prima di morire nel sonno senza più uscire dall’incubo…




Sognando Infinite Morti 1

Abbiamo imposto alla festa la nostra musica. Via quella merda di house o dance o quello che cazzo è e vai con la voce di David Bowie dall’album Pinups.
Ci scateniamo. Agitiamo braccia e gambe. Scuotiamo le teste con espressioni serie e ispirate. I nostri movimenti generano disappunto e disgusto negli altri, ma anche curiosità in chi è abituato ad altri suoni.
Il sudore esce dai pori della pelle surriscaldata e si congela subito. Sensazioni di caldo e freddo. Il tempo scorre in fretta o si cristallizza nello spazio di pochi secondi. Velocità e lentezza. Le luci colorate creano universi nelle nostre pupille. I corpi si intersecano dando vita a geometrie nuove.
Angela sorride e mi guarda, mi guarda e sorride.
Le sue treccine rasta sono bionde come l’oro e il volto pallido con le gote arrossate sembra la maschera di un clown. Gli occhi sono azzurri come il ghiaccio: distese infinite di gelo e di luce bianca e fredda che accoglie tutti i colori dello spettro.
Adesso siamo in uno dei bagni. Apro la busta di plastica e lascio cadere la polvere bianca sul ripiano verde chiaro. Separo sei strisce (sei è il mio numero fortunato) con una scheda telefonica e arrotolo una banconota.
Angela tira per prima, poi tocca a me.
Iniziamo a baciarci con la lingua e a toccarci.
Consumiamo tutta la coca: conviene non far rimanere niente nelle tasche in caso di controlli.
Umidità e calore. Carne che cede e che resiste. Elasticità e spigoli. Lo spazio intorno si modifica per adattarsi ai nostri movimenti. I seni nudi di Angela sono due animali ribelli nelle mie mani, mentre lei mi morde un orecchio alitandomi all’interno. La sua mano va su e giù sul gonfiore che tende i miei slip neri. Lo tiro fuori. È così duro che mi fa male. Angela apre le gambe e mi accoglie dentro di lei. È superumida. Muove i fianchi assecondando i miei colpi vigorosi.
Poi inizia a gridare.
Io guardo fisso verso di lei senza vederla mentre Angela continua a strillare.
Avverto il sangue che mi esce dal naso come la lava da un vulcano che io sto osservando mentre si risveglia dopo secoli di inattività.
L’ultima cosa che sento in questa vita sono le urla di Angela che si ripetono a intervalli regolari…

di Luca Bonatesta
(lucabonatesta71@gmail.com)




In utero

Che silenzio…
Quanta acqua…
Vi sono immerso dentro…
Sono nell’utero di mia madre.
Sento la sua voce e avverto la carezza delle dita.
Percepisco la paura di mio padre e vorrei consolarlo. Subito dopo la mia nascita inizierà a soffrire di disturbi psichiatrici. E io sono qui dentro, al sicuro. Protetto. Non posso fare niente per aiutarlo. Vorrei espandere la mia mente per raggiungere la sua. Trasmettergli tranquillità, senso di sicurezza. Le stesse sensazioni che provo io. Vorrei comunicargli tutte le mie conoscenze, prima di perderle.
Appena aprirò col mio corpo la vagina di mia madre, diverrò un essere ignorante, fragile, bisognoso di protezione. Il cordone ombelicale, unico legame ancora con la mia genitrice, verrà tagliato. Il ginecologo mi prenderà per i piedi. La luce mi ferirà gli occhi e strillerò per la paura. Contrarrò i muscoli appena formati. Mi agiterò tra le braccia di un’infermiera finché la mia rabbia non troverà la sua stanchezza.
Eccomi, attaccato al seno materno.
Mi nutro.
Ho ceduto al ricatto.
Del resto ho solo vaghissimi ricordi di quello che ero prima.
Sono consapevole di essere fragile ora.
Ho bisogno dell’aiuto di mia madre e di mio padre se voglio continuare a esistere.

di Luca Bonatesta
(lucabonatesta71@gmail.com)




Una notte del 31 ottobre di Davide Stocovaz

Appena aprii gli occhi, mi trovai avvolto da un’oscurità impalpabile.
Non avevo memoria di quanto avessi dormito, né del luogo nel quale mi trovavo. Provai a muovere un braccio. Lo sentii urtare contro una superficie dura, liscia. Alzai anche l’altro, poggiandolo a quello che sembrava essere il soffitto di una minuscola stanza.
Anelavo la luce del sole, così vivida nei miei ricordi. Desideravo respirare aria fresca, sentirla entrare nel naso e scendere fino ai polmoni. Alzai entrambe le braccia. I palmi delle mani poggiati sulla superficie sopra la testa. Spinsi con tutte le mie energie. Non accadde nulla. Mi sentii soffocare. L’aria, all’interno dello stanzino, era irrespirabile; un odore acre, pungente, mi intasava le narici fin dal mio risveglio. Dovevo assolutamente uscire da lì, o sarei impazzito. Allungai nuovamente le braccia verso l’alto. Strinsi i denti. Raccolsi ogni briciolo di forza. Spinsi ancora. Sentii il soffitto gonfiarsi e piegarsi sotto le mani. Uno scricchiolio legnoso mi indicò che stavo raggiungendo il mio scopo. Con un ultimo, sovrumano sforzo, alzai il busto, spinsi ancora. Lo sentii cedere e spalancarsi. Una valanga umida e compatta mi travolse, spezzandomi il respiro. Trattenni il fiato, agitai braccia e gambe spingendomi verso l’alto. Mi trovai a nuotare nel cuore di quella strana valanga dal fresco odore pungente. Chiusi gli occhi, muovendomi alla cieca. Annaspai per un tempo che mi sembrò eterno, finché urtai con le dita una nuova superficie; più dura e fredda della precedente. Dovevo sollevarla il prima possibile. Provai a forzare quel secondo soffitto. Piegai le ginocchia, sollevai il busto, e lo tentai ripetutamente, spingendolo verso l’alto. Lo sentii smuoversi appena. Forse qualche centimetro. Lasciai la presa, recuperai le energie e, dopo qualche secondo, lo attaccai di nuovo. Con uno sforzo supremo, stringendo i denti a tal punto che iniziarono a dolermi, riuscii a scostare il soffitto, spingendolo a lato. L’aria fredda e briosa della notte mi colpì le narici con una folata. Fui subito pervaso dall’estasi più pura che abbia mai conosciuto. Trattenni il respiro e mi infilai nella fessura appena creata. Uscii all’esterno alzandomi contro il cielo punteggiato di stelle. La luna rifulgeva tra gli alberi scheletrici. Mi guardai attorno, aspettando di ritrovarmi su un qualche tipo di tetto, a osservare la città dall’alto. Invece davanti a me si stendeva una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch’esse di marmo.
Semincosciente, avanzai verso un cancello. Lo aprii.

Continua a leggere sul portale il racconto di Davide Stocovaz:

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