Mimì – Il principe delle tenebre di Brando De Sica

Mimì – Il Principe delle Tenebre (Italia, 2023)

Regia:
Brando De Sica. Soggetto: Brando De Sica. Sceneggiatura: Ugo Chiti,
Brando De Sica, Irene Pollini Giolai. Fotografia: Andrea Arnone.
Montaggio: Francesco Galli. Musiche: Pasquale Catalano. Scenografia:
Daniele Frabetti. Costumi: Lavinia Bonsignore. Paese di Produzione:
Italia, 2023. Durata: 103’. Genere: Horror. Case di Produzione:
Indiana Production, Bartleby Film, Rai Cinema. Distribuzione
(Italia): Luce Cinecittà. Interpreti: Domenico Cuomo (Mimì), Sara
Ciocca (Carmilla / Renata), Mimmo Borrelli (Nando), Giuseppe Brunetti
(Bastianello), Abril Zamora (Giusi), Dino Porzio (capo dei goth),
Daniele Vicorito (Rocco).

Resterà
deluso chi cerca un horror italiano come si facevano una volta, roba
alla Dario
Argento

e Lucio
Fulci
,
viscere e frattaglie, puro genere, senza alcuna implicazione sociale.
Mimì
– Il Principe delle Tenebre

è tutt’altra cosa, è un film sull’ansia e la difficoltà di
crescere, una disperata storia d’amore e morte, un violento
splatter disturbante, persino anatomia dello squallore dei bassifondi
d’una Napoli violenta (come il titolo d’un vecchio film).
L’horror italiano (e non solo) del passato si nota a livello di
citazione, sia per i vermi che riportano a Fulci
e Mattei
che per l’atmosfera gotico-cimiteriale che profuma di Mario
Bava
,
ma anche per gli spezzoni e gli ammiccamenti al cinema di Herzog
e di Murnau.
L’ambientazione è costruita benissimo in una Napoli decadente e
spettrale, fotografata da Andrea
Arnone

con toni giallo ocra anticati, introdotta e accompagnata da una
suggestiva colonna sonora di Catalano,
che comprende persino il motivetto (calza a pennello!) Un
giudice

di De Andrè. Protagonisti della storia sono Mimì – un orfano che
lavora come pizzaiolo, affetto da una malformazione ai piedi e
bullizzato
da Bastaniello,
un
camorrista cantante – e Carmilla (vero nome Renata, come scopriamo
nel finale), una ragazzina schizofrenica scappata di casa che crede
di discendere da Dracula. Il film vive tutto su un singolare incontro
esistenziale, mettendo in scena una storia d’amore e follia che
porta il ragazzo a cambiare vita, a fare di tutto per assecondare
l’amata, persino a diventare vampiro, per poi giungere a una
cruenta ecatombe finale. Domenico
Cuomo

e Sara
Ciocca

sono giovanissimi (17 e 12 anni) quanto bravissimi, perché recitano
con l’espressione degli occhi; i loro dialoghi sono intensi ed
evocativi, persino poetici. Mimì
– Il Principe delle Tenebre
,
opera
prima di Brando
De Sica

(figlio e nipote d’arte che fa di tutto per affrancarsi da quanto
hanno fatto i suoi progenitori), selezionata
fuori concorso al Locarno Film Festival, cerca di rappresentare
l’importanza dei sogni, al tempo stesso simbolizza con i piedi
deformi del protagonista la difficoltà di un adolescente a muoversi
in un mondo che non conosce. Il regista cerca di dosare con sapienza
toni da commedia e puro dramma, sconfinando nel grottesco, persino
negli eccessi splatter. Mimì
non è cinema di genere, ma cinema d’autore che usa il genere per
comporre un’opera pop onirica e fantastica, dal finale
sconcertante, intrisa di uno squallore pasoliniano e di puro amore
per i vicoli di Napoli. Un esordio incoraggiante per grande sfoggio
di capacità tecnica e scenografica, cura nelle citazioni,
originalità nei movimenti di macchina, location
suggestive. A nostro parere ci sarebbe stato da lavorare ancora un
po’ sulla sceneggiatura per renderla più fluida, ma forse
confondere le idee – da un certo punto in poi – era proprio quel che
voleva fare il regista. Un film insolito nel panorama cinematografico
italiano, che consigliamo di vedere. Noi ci siamo riusciti grazie al
Piccolo Cineclub Tirreno di Follonica, realtà benemerita maremmana
che si batte per portare ancora i film in sala, nel luogo dove sono
nati per essere condivisi, dove dovrebbero continuare a essere visti
per rivitalizzare il cinema.

A
colloquio con Brando De Sica

Perché
il genere horror?

Mimì
è un film sull’importanza dei sogni; è un film sull’amore, sul
primo amore di due ragazzi, sulla passione e sulla fuga dalla realtà.
Poi viene il genere, ben presente nel mio immaginario, dato che
questa storia l’ho scritta dieci anni fa ma che oggi pare ancora
più contemporanea, se pensiamo ai problemi giovanili, soprattutto
alla costruzione di quelle torri d’avorio adolescenziali erette su
Tik Tok e Instagram”.

Quindi
un film d’autore …

“Un
film che pretende di dire qualcosa. Un film sulla ricerca di
un’identità, sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Poi dentro c’è tutta la simbologia vampirica, come ci sono i piedi
deformi di Mimì che rappresentano la difficoltà a muoversi per le
strade di un mondo pieno di ostacoli”.

E
la camorra?

“Non
credo che c’entri molto con il mio film. Resta sullo sfondo.
Bastianello è un artista più che un criminale, quello che vuol fare
nella vita è soprattutto cantare, poi usa metodi delinquenziali e
bullizza Mimì, ma ciò che m’interessava ai fini del film era
rappresentare due gruppi di persone cresciute in ambienti culturali
diversi”

Come
nasce l’idea del film?

“I
tempi di realizzazione sono stati lunghi dalla nascita dell’idea
alla sua realizzazione. Sono stato suggestionato da diverse immagini,
persino dalla storia di Pistorius e dei suoi arti artificiali che gli
hanno fatto prima vincere medaglie, poi commettere un crimine. Una
serie di immagini inconsce mi ha portato al film, in un immaginario
vampirico che fa parte delle mie passioni”

Perché
Napoli?

“Prima
di tutto sono napoletano, la mia famiglia proviene da Napoli, persino
il ramo relativo a Mario Verdone – che è toscano – ha origini
napoletane. E poi c’è il fascino della tomba di Dracula, tutto
parte dal sepolcro di Vlad Tepes l’impalatore. Infine Napoli ha
molta magia esoterica diffusa per le sue strade e il mio film è
costruito in una Napoli atemporale, stratificata.”

Come
ha scelto gli attori? Era capiente il budget del film?

“Avevo
un budget piccolo, la maggior parte delle risorse le ho spese per
fare un anno di casting e incontrare di persona i possibili
protagonisti. Domenico e Sara sono bravissimi, molto espressivi, sono
due ragazzi di 17 e 12 anni, ma recitano come attori consumati. Ho
girato sei scene al giorno con una camera sola. Mi sono fatto tutti
gli storyboard disegnati come se fosse una graphic novel, poi ho
dovuto tagliare alcune scene per carenze di budget”.

A
mio parere il film più che un horror è un noir metropolitano …

“Non
starei a definire il genere, anche se nel finale la scelta
fantastica è chiara. Mimì
è un viaggio picaresco per le strade della vita. Se si vuole ricorda
anche la storia di Pinocchio (al contrario), dove la ragazzina è il
Lucignolo che porta il ragazzo verso l’autodistruzione. Mimì
è una sorta di apologo sull’accettazione della diversità”

Primo
film, un passato da attore, cosa vuol fare da grande Brando de Sica?

“Se
capita tornerò anche a recitare, i registi dicono che sono bravo, ma
non è il mio sogno per la vita. Preferisco stare dietro la macchina
da presa e fare il regista. Non è necessario che mi si veda. Amo
molto il momento della scrittura di una storia, mi piace essere colui
che decide cosa raccontare”.

Progetti
futuri?

“Sto
lavorando da anni a una storia complessa che – come questa – non sarà
facile portare a compimento. Una storia sul mostro di Firenze, vista
da un’ottica diversa, per cercare di raccontare la verità. Ci sto
lavorando con Michele Giuttari, che a suo tempo si è occupato delle
indagini, e con il mio collaboratore di fiducia Ugo Chiti.

Cosa
vuol dire con il suo cinema?

Cerco
di esplorare dei mondi e dei personaggi. Non faccio film per dare
risposte, ma per suscitare dubbi, domande, incertezze … Il cinema
(non solo il mio) deve far pensare, non è compito di chi racconta
una storia facilitare la vita allo spettatore, anzi, deve complicarla
intellettualmente e mettergli in testa un sacco di dubbi”.

Le
domande e le risposte di Brando De Sica sono la registrazione
sintetica della conversazione che il regista ha avuto con il pubblico
del Piccolo Cineclub Tirreno di Follonica, al termine della
proiezione di Mimì – Il Principe delle Tenebre, avvenuta in data 11
febbraio 2024, ore 23 e 30.

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Mario Bava. Il maestro del cinema horror italiano

Mario Bava (1914 – 1980) può considerarsi a ragione il padre dell’horror italiano. Non vi fate ingannare se trovate i nomi di John Foam, Marie Foam o John M.Old. Si tratta sempre di Mario Bava sotto pseudonimo anglofono, come usavano fare negli anni Sessanta molti registi e scrittori horror. Il figlio Lamberto, per una sorta di omaggio al padre, ha utilizzato spesso il nome di John M.Old jr

Bava
inventa gran parte dei trucchi cinematografici e delle trasformazioni
visive tutt’ora in uso e prima di essere un artigiano della
regia
è un formidabile maestro della fotografia. La definizione
di artigiano viene coniata dallo stesso Bava durante
un’intervista rilasciata a Luigi Cozzi nel 1971 per la
rivista Horror. Il cinema italiano di quel periodo dispone di
budget limitati e Bava è un grande economizzatore, un
artigiano capace di costruire film validi con poca spesa.

Gli
esordi nel cinema vedono Bava in sodalizio con l’amico
Riccardo Freda, prima ne I Vampiri (1957) e poi in
Caltiki, il mostro immortale (1959). In Caltiki – per
esigenze di produzione diventa John Foam – Bava gira gran parte delle
sequenze mostruose ponendo un marchio indelebile sull’opera. Lo
stesso Freda attribuisce il film a Bava, perché fa
parte del suo modo di fare cinema. L’ameba gorgogliante che
sommerge e divora esseri viventi è sicuramente un’idea di Bava che
la realizza usando budella di animali.

Il
suo primo lavoro da regista è La maschera del demonio (1960),
ancora oggi uno dei più celebrati. Si tratta di un film sulle
streghe girato in bianco e nero ma dotato di una stupenda fotografia,
elemento basilare per la buona riuscita di un horror. La protagonista
è Barbara Steele che interpreta il doppio ruolo di vergine e
strega. La storia è tratta molto liberamente da Il Vij di
Gogol e sceneggiata da Ennio De Concini. Il film ha un
successo incredibile in America e in Francia, meno apprezzato in
Italia, dove l’horror stenta ad affrancarsi dall’etichetta di
cinema di serie B. In Inghilterra passa dei guai con la censura per
alcune scene di violenza ed erotismo. Bava rende esplicita sin
dalla prima opera la scelta di seguire i canoni del fantastico
letterario e anche nei lavori successivi cerca l’aiuto di
sceneggiatori come Alberto Bevilacqua per trasporre capolavori
di Gogol, Maupassant e Merimée. Bava ambienta
quasi tutti i primi film in periodi storici che vanno dal 1500 al
1800, rispettando una moda lanciata dalla casa inglese Hammer e dalle
case produttrici d’oltre oceano. L’horror anni sessanta segue
criteri precisi di ambientazione e soltanto con Dario Argento
vedremo su grande schermo orrori contemporanei. La maschera del
demonio
fa venire a mente la strega che non muore tra le fiamme
ma torna in vita e seduce dalla tomba nascosta nella foresta. È un
film impregnato di sadismo, necrofilia, erotismo e sensualità. Per
dirla con Teo Mora è il trionfo del fantastico
dell’erotismo
. In ogni caso la pellicola saluta la nascita di
un maestro del genere. Bava sperimenta altri settori come il
western, il mitologico-fiabesco, il fantascientifico e persino il
sexy prima maniera, ma dimostra di trovarsi a suo agio con le
creazioni fantastiche. Inutile dire che i critici italiani stroncano
il film e che l’intera produzione di Bava (come per Totò)
è stata rivalutata dopo la morte del regista.

La
ragazza che sapeva troppo
(1962) è un thriller alla Hitchcock,
non solo perché nel titolo ricorda L’uomo che sapeva troppo
del maestro inglese, ma soprattutto per la tensione e le divagazioni
umoristiche inserite ad arte per stemperare i momenti topici della
narrazione. Dario Argento lo prende come modello per L’uccello
dalle piume di cristallo
.

La
frusta e il corpo
(1963) è un classico film gotico ambientato in
un castello in riva al mare, tetro al punto giusto, fotografato con
attenzione ai toni scuri e sottolineato da un’efficace colonna
sonora. Bava ci trascina in una spirale di suspense e
di orrore a metà strada tra realtà e fantasia. La frusta e il
corpo
è un film gotico alla Roger Corman, anche se
sarebbe più giusto invertire l’ordine, perché l’autore
statunitense spesso si ispira alle atmosfere e alle suggestioni del
regista italiano. Bava analizza una relazione sadomasochistica
in una cornice gotica, inserendo suggestioni erotiche che
diventeranno tipiche della narrativa e della cinematografia horror
italiana. La storia è basata su un solido soggetto e su una
sceneggiatura immune da pecche realizzata da Ernesto Gastaldi, Ugo
Guerra
e Luciano Martino, che si firmano con nomi
anglofoni. Nel 1963 era innovativo e anticonformista girare una scena
sulla spiaggia con un sadico che frusta una masochista e subito dopo
la possiede. Nonostante queste sequenze morbose, siamo di fronte a un
film fantastico, che contamina diversi generi come il giallo,
l’horror, l’erotico, ma è percorso anche dalle suggestioni del
romanzo d’appendice e del thriller. La storia gode di un’ottima
ambientazione gotica e la dimensione macabra del racconto resta
confinata in una dimensione onirica, negli incubi della protagonista
suggestionata da un amore malato. Bava conduce il film sul
doppio binario del thriller e del fantastico, fino alla scena madre,
vista dagli occhi della moglie e secondo la prospettiva del marito.
Resta il doppio finale che può far credere sia a una storia frutto
della follia di Nevenka, che ai delitti di un terribile spettro. La
frusta e il corpo
pare che sia considerato un cult-movie
da Martin Scorsese, in realtà dovrebbe esserlo per chiunque
ami il buon cinema realizzato con cura, fotografato con eleganza e
girato con maestria. Il ritmo è lento e ossessivo, le morti
misteriose soltanto due, ma la suspense è notevole per tutta
la pellicola, che non presenta cadute di tono. I dialoghi risultano
in parte datati, ma tutto il resto del film è ancora godibile e non
risente minimamente del tempo passato. Un capolavoro del gotico
italiano, capace di fondere erotismo morboso e tensione narrativa da
giallo classico.

Un
capolavoro di Bava che ha lasciato il segno è I tre volti
della paura
(1963), un film a episodi che porta sullo schermo tre
diversi modi di affrontare la paura. Bava avverte che i
racconti sono di Cechov, Aleksej Tolstoj e
Maupassant
ma non tutti concordano sulla veridicità delle fonti.
Per Renato Venturelli, si tratterebbe soltanto di
un’esibizione letteraria, ma il film sarebbe costruito su una
storia di Snyder e una di Maupassant molto adattate.

Boris
Karloff
introduce la pellicola e ci accompagna sino alla fine con
la sua presenza da voce e immagine fuori campo. Il telefono è
il primo episodio, definito da Fabio Giovannini come un
piccolo capolavoro del brivido a base di coltellate e strangolamenti
in una stanza da letto claustrofobica
. Non siamo così entusiasti
e lo riteniamo il più debole dell’intera opera, ma la tensione è
ben espressa e si affrontano temi nuovi per il cinema italiano
(l’amore lesbico tra le protagoniste). I wurdalak vede Boris
Karloff nelle vesti del vampiro-zombie della tradizione slava e la
sua interpretazione fa dimenticare alcuni dialoghi che risentono del
tempo passato (le scene d’amore tra Sdenka e Wladimir su tutte).
L’atmosfera di terrore è notevole e i colori cupi della fotografia
contribuiscono a rendere realistica una storia fantastica. La
goccia d’acqua
è davvero un piccolo capolavoro. Il padre di
Bava, Eugenio, scolpisce la maschera della morta, vera
protagonista dell’episodio che tormenta l’autrice di un furto
sacrilego. Il terrore quotidiano è reso molto bene e l’intervento
del soprannaturale si innesta soltanto alla fine in una storia ben
congegnata per tensione e ritmo. I protagonisti dei tre episodi si
trovano in un luogo chiuso alle prese con le loro paure. Sorprendente
il finale con Boris Karloff a cavallo di un manichino che
svela agli spettatori i trucchi di scena, quasi per tranquillizzare.
I tre volti della paura ha successo negli Stati Uniti, dove
esce come Black Sabbath, e ancora oggi gode dello status di
cult movie.

Talmente
cult che ha dato il nome al famoso gruppo rock inglese anni
settanta, antesignani del metal, in particolare del doom metal.

Sei
donne per l’assassino
(1964) è di pochi mesi dopo e segna il
ritorno al giallo anticipando tematiche tipiche di Dario Argento.
La fotografia dai colori brillanti e violenti è il dato
caratteristico di una pellicola che possiamo definire un thriller
orrorifico. Per uccidere si cominciano a usare normali oggetti del
quotidiano come coltelli e rasoi, il killer si aggira con un
impermeabile nero e viene rappresentato come un signore del male con
cui è impossibile lottare. Dario Argento si ispira a questa
pellicola per realizzare Profondo Rosso.

Terrore
nello spazio
(1966) rappresenta un’incursione nel
fantascientifico che si avvale della sceneggiatura di Alberto
Bevilacqua, Callisto Cosulich
e Antonio Romano. Gli
effetti speciali sono tipici del cinema fanta-horror e il colpo di
scena finale vale da solo l’intero film. La pellicola viene girata
in grande economia, utilizzando rocce di plastica, zampironi
fumogeni e scenografie di fortuna. Il risultato raggiunto rappresenta
un vero miracolo e il film ricorda Alien, anticipando un
prodotto statunitense.

Operazione
paura
(1966) segna il ritorno di Bava all’horror puro.
La storia è una raffinata vicenda gotica calata in un’atmosfera
fantastica e resa in una credibile ambientazione settecentesca. Bava
lo ritiene il suo film migliore, in un’intervista Luigi Cozzi
si rammarica per un presunto plagio perpetrato da Federico Fellini.
Il regista romano riprende per il suo Toby Dammitt l’idea
della bambina fantasma che gioca a palla, ma a noi fa piacere pensare
che si sia trattato non tanto di un plagio ma di una sorta di
omaggio. Operazione paura è il classico horror anni Sessanta
a base di cripte, notti ventose, castelli maledetti e donne vampiro.
Un film girato in economia nel quale solo la maestria di Bava
rende realistici scenari realizzati in studio.

Accade
anche in Diabolik (1968), dove la produzione De Laurentiis
obbliga il regista a realizzare il film con duecento milioni. Era il
periodo del boom dei fumetti neri e l’operazione doveva essere
soprattutto commerciale… Bava ricorda l’esperienza di
Diabolik come uno degli episodi più allucinanti della sua
carriera. Deve girare un film ricorrendo a modellini e fotografie
ritagliate al momento e utilizzate per ovviare allo squallore della
scenografia. Tant’è vero che rifiuta con decisione di lavorare
alla seconda parte del film, quel Diabolik alla riscossa che
la produzione gli propone subito, dopo il successo di Diabolik.
Mario Bava sa far rendere al massimo il poco che i produttori
gli mettono a disposizione, da grande artigiano del cinema, ma a
causa della sua fama tutti pretendono miracoli.

In
tema di cinema fantastico non dobbiamo dimenticare che, tra il 1968 e
il 1969, Bava cura lo stupendo episodio di Polifemo per
la riduzione televisiva dell’Odissea. Lo sceneggiato fa furore e
contribuisce a divulgare la conoscenza del poema epico nelle case di
milioni di italiani. Polifemo è un eroe tragico, muove a sentimenti
di compassione e pena, ma il regista lo realizza con una maschera
terrificante. Per il trucco Bava è davvero un maestro.

Il
rosso segno della follia
(1969), che il regista definisce la
storia del solito pazzo,
è uno dei suoi film più studiati e
meglio riusciti. Anticipa i futuri thriller di Dario Argento e
approfondisce la psicologia contorta dell’omicida. Il protagonista
è un assassino dalla sessualità repressa e deviata. Cinque
bambole per la luna d’agosto
(1969) è la rilettura di Dieci
piccoli indiani
di Agata Christie, un film da dimenticare,
girato in fretta e poco ispirato. Lo stesso Bava lo ritiene il
suo lavoro peggiore, fatto solo per motivi alimentari.

Reazione
a catena
(1971), noto anche come Ecologia del delitto e
Antefatto, è di grande importanza perché rappresenta
un’incursione nello splatter violento e un’anticipazione
di quello che sarà Venerdì 13 di Sean Cunningham. I
delitti sono centrali alla storia e quasi la sostituiscono, quel che
conta è come morirà la prossima vittima. Siamo in pieno cinema
macelleria: i morti si susseguono a colpi di coltelli, asce e
affilate lame d’acciaio. Nel cast c’è pure un’affascinante
Edvige Fenech, che non fa una bella fine.

Gli
orrori del castello di Norimberga
(1972) è un altro film gotico
vecchio stile, una favola paurosa. Una sorta di omaggio al cinema
fantastico degli anni cinquanta e sessanta, girato con cura e
attenzione ai particolari.

La
casa dell’esorcista
(1975) giunge in pieno boom da Esorcista,
quando i peggiori mestieranti si cimentano in squallide copie del
film di William Friedkin. La pellicola di Bava dovrebbe
intitolarsi Lisa e il diavolo, avere una struttura originale,
colta e raffinata, tant’è vero che viene presentata al Festival di
Cannes nel 1973. Nessuno vuole produrla perché ritenuta inadatta al
pubblico italiano. Per metterla sul mercato si procede al massacro
sistematico: il titolo viene cambiato, molte scene modificate e altre
inserite ex novo. Bava si rifiuta di stare al gioco e ripudia
il film che esce nelle sale, del tutto diverso dall’idea originale.

Cani
arrabbiati
(1976) è tratto da un romanzo di Ellery Queen ed è
un buon film riscoperto da pochi anni in Italia. Si tratta della
storia di quattro banditi mascherati che rapinano un portavalori,
ammazzano due guardie, ma nella fuga uno di loro rimane ucciso. I tre
rimasti catturano due donne in un garage, una finisce sgozzata,
l’altra continua a servire per proteggere la fuga. Durante la fuga
prendono un uomo come ostaggio e accadono diversi colpi di scena che
rendono il film interessante fino alla parola fine. Un thriller sui
sequestri di persona duro e inquietante, molto esplicito e diretto
come contenuti e scene di sangue. Non ha mai trovato un distributore
ed è stato messo in circolazione in Italia nel 1995, dopo la morte
del regista, con il titolo Semaforo rosso.

Shock
(1977) è l’ultimo film di Bava. Un vero e proprio
omaggio a Dario Argento, il suo allievo più geniale che aveva
riempito le sale con Profondo Rosso. Shock rappresenta
il simbolico passaggio di consegne e la fine di un modo di fare
horror tipico del decennio precedente. Protagonista è Daria
Nicolodi
, regina dell’horror italiano anni Settanta, attrice
prediletta di Dario Argento e sceneggiatrice di molti film.
Shock è un capolavoro di tensione, un racconto angoscioso
girato quasi tutto in interni, una raffinata storia di fantasmi che
ricorda il vecchio La frusta e il corpo. Ha un gran successo
in Giappone, mentre in Italia passa inosservato.

La
carriera di Mario Bava si conclude nel 1978 con il telefilm
del mistero La Venere d’Ille, girato in collaborazione con
il figlio Lamberto. Protagonista è ancora Daria Nicolodi,
ma il risultato finale non è dei migliori. Come eredità fantastica
di Bava preferiamo ricordare Shock, un film che
influenza l’opera successiva di Dario Argento e dei migliori
autori horror.

Mario
Bava
è l’unico regista italiano ad aver lavorato con le
principali star del cinema horror inglese e americano, attori del
calibro di: Christopher Lee, Boris Karloff, Vincent Price, Barbara
Steele
(lanciata come dama nera del gotico anni sessanta) e
Joseph Cotten. Non solo, ci sono attori scoperti da Bava
e consacrati a futuri ruoli nel cinema horror italiano. Basti per
tutti l’esempio di Nicoletta Elmi ne Gli orrori del
castello di Norimberga
che ritroviamo in Profondo Rosso di
Dario Argento e in Dèmoni di Lamberto Bava come demoniaca
bigliettaia.

La
stampa contemporanea affibbiano a Mario Bava l’epiteto di
Hitchcock di Cinecittà, prendendo spunto da titoli di film come La
ragazza che sapeva troppo
. In realtà Bava ha un suo stile e con
il grande maestro del giallo ha soltanto debiti di ispirazione. Bava
eredita dal padre scultore la passione per i colori e per le
immagini, vorrebbe fare il pittore ma approda al cinema, un mezzo
artistico che utilizza in modo originale.

Concludo
riportando una valutazione di Pascal Martinet.

Bava
crea un’estetica della morte e del crimine. Al diavolo la logica.
Importa solo la descrizione grafica della violenza. Carni torturate,
graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della macchina da
presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino
colpisce. Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione e la
cui assenza di fisionomia rimanda ai nobili incubi archetipici.
Aggiungiamo noi (con Fabio
Giovannini
) che Bava
riesce a rendere il paesaggio mediterraneo credibile per ambientare
storie horror. È uno dei primi a farlo, insieme al Pupi
Avati
di capolavori come
La casa delle finestre che ridono.
Il gusto per il terrore è un’altra sua caratteristica ed è ben
rappresentato dall’utilizzo frequente di coltelli e pugnali per gli
omicidi, particolare che Dario
Argento
spinge
all’eccesso. La lama è cinematografica,
dice lo stesso Bava.

Bava
si cimenta in quasi tutti i generi cinematografici in voga a
Cinecittà negli anni Sessanta – Settanta, seguendo i grandi successi
che venivano dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti, ma spesso
anticipando idee future. Nella presente trattazione non abbiamo
citato i film di argomento mitologico, fantascientifico, favolistico,
western e sexy. Per completezza ci limitiamo a elencarli.
L’appassionato di Mario Bava troverà un’esauriente
catalogo dell’opera del regista. Le fatiche di Ercole
(1957), Ercole e la regina di Lidia (1958), La battaglia di
Maratona
(1959), Ercole al centro della terra (1961), Gli
invasori
(1961), Le meraviglie di Aladino (1961), La
strada di Fort Alamo
(1965), I coltelli del vendicatore
(1966), Le spie vengono dal semifreddo (1966), Raycolt e
Winchester Jack
(1969) e il censuratissimo Quante volte…
quella notte
(1969 – 73).

Riferimenti
bibliografici:

Fabio
Giovannini
“Serial Killer-i grandi assassini del cinema”,
Macabro Show e-book 2002

Antonio
Tentori
“Lo schermo insanguinato” – Solfanelli, 1990

Renato
Venturelli
“Horror in cento film” – Le Mani, 1997

Intervista
a Mario Bava, a cura di Luigi Cozzi, in Horror 13 – Sansoni
1971

Pascal
Martinet
“Mario Bava” Film n.6 – Ediling Paris, 1984

Luigi Cozzi – Mario Bava, i mille volti della paura – Profondo Rosso, 2001