Uironda di Luigi Musolino

Luigi Musolino, nato e cresciuto in provincia di Torino, è tuttavia in parte di origine Campana, ed è forse questo mix tra ombrosità nebbiosa e solarità
mediterranea a rendere così vivide e angoscianti le visioni che emergono dai suoi racconti. Dopo i due volumi di Oscure Regioni, in cui emerge non solo
l’interesse di Luigi per il variegato patrimonio folcloristico e mitologico della penisola italiana ma anche il suo percorso di formazione stilistica, la
raccolta Uironda propone otto racconti di media lunghezza e due opere di più ampio respiro che si possono considerare romanzi brevi. Nelle storie raccolte si evidenzia la maturazione stilistica e contenutistica raggiunta da Musolino rispetto alle prime opere, proponendo qui una forma di horror che da un lato
si stacca dal patrimonio folkloristico e mitologico regionale proponendo in molti casi rielaborazioni e attualizzazioni di figure archetipe e atmosfere in qualche modo vicine a grandi autori internazionali di
genere, dall’altro resta comunque radicato nella sensibilità italiana, indagando temi spesso di scottante
attualità e a noi molto vicini, quali il problema degli sbarchi migratori sulle coste e la crisi della società moderna, negli aspetti sociali, familiari, affettivi e lavorativi.

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Il signor Naif di Vincenzo Barone Lumaga

Disteso sul prato, il Signor Naïf ammirava il sole pigro del pomeriggio.
Adagiato sul piccolo telo, accanto a sé aveva la moglie e i loro due bambini,
ognuno disteso sulla sua piccola stuoia. Poco lontano da loro poggiato un
cestino, che raccoglieva ora solo i resti del picnic appena terminato. L’aria
era bella, il cielo punteggiato di nuvole rade che si spostavano rapide nel
vento. Il Signor Naïf osservò tutto questo, poi la moglie e i bambini. Pensò
che era davvero fortunato per la bella famiglia che aveva. Sua moglie aveva
forse il corpo un po’ sproporzionato rispetto alle gambe e le braccia sottili,
ma occhi belli grandi e un dolce sorriso, sotto i capelli di un rosso acceso. I
loro bambini forse erano venuti un po’ troppo tozzi, dai lineamenti sfuggenti,
quasi abbozzati, ma erano due buoni ed educati. In quel momento si sentì felice.
Peccato che il tempo iniziasse a guastarsi. Pochi minuti ele nuvole isolate si
trasformarono in una cappa grigia che nascondeva loro il sole, e scuriva
minacciosa. Non fece neppure in tempo a far notare la cosa alla sua famiglia
che la prima goccia di pioggia lo colpì sulla mano. Tante altre rapide la
seguirono. Il signor Naïf fece per alzarsi e cercare un riparo. Si accorse solo
in quel momento di non potersi muovere. Per ignota ragione non poté staccarsi
dall’asciugamano su cui era steso e dal prato. Tentò di gridare, ma scoprì di
non poter emettere suono. Fissò la moglie e i figli, e dall’espressione
terrorizzata dei loro sguardi capì che erano paralizzati anche loro. Stettero
muti, immobili e impotenti sotto la furia del maltempo. Si sarebbero di certo
buscati un febbrone con tutta quell’acqua. Ormai erano inzuppati Il signor Naïf
si guardò le braccia. E rimase ancora più sconvolto.

Vide, con orrore, le sue braccia che si stavano sciogliendo. I contorni
delle sue mani, il rosa della carne, il blu della giacchetta, tutto perdeva
forma e compattezza. Guardò gli altri. La moglie e i figli si stavano
sciogliendo sotto le gocce d’acqua, il viso di lei già stato cancellato del
tutto. Tutto si scioglieva, i loro vestiti, le asciugamani, il prato stesso si
scoloriva nelle pozze chiare che si stavano formando, il verde schiariva sempre
più fino a degenerare in un bianco sporco.

Solo allora il signor Naïf comprese che egli, la sua famiglia, il prato in cui si erano riposati dopo il picnic, altro non erano che lo scarabocchio di un bambino che poi li aveva abbandonati all’aperto, forse su una panchina, forse un marciapiede, ad ammirare il cielo di un pomeriggio d’autunno che si era rannuvolato all’improvviso, e costretto il loro Creatore tornare dentro casa. Poi due gocce gli caddero sugli occhi, e ogni immagine si spense.




Horus di Vincenzo Barone Lumaga

Horus

Ero
nei guai. Tutti noi otto lo eravamo. Chiusi in quella stanza, ciascuno dinanzi
a un foglio bianco da riempire. Una storia, dovevo trovare una storia… come se
fosse facile! Eppure, era fondamentale farlo. Se avessimo imparato a governare
con strumenti razionali i meccanismi che presiedevano alla nostra sfera
immaginifica, se fossimo riusciti a prendere consapevolezza di ciò che era
frutto della reale percezione della realtà, e cosa invece un elaborato frutto
esclusivo della nostra mente, le terribili allucinazioni di cui soffrivamo
avrebbero smesso di tormentarci. Era una terapia sperimentale, ma per quasi
tutti noi era davvero l’ultima speranza, laddove la scuola ufficiale e gli
psicofarmaci avevano fallito. Proprio la settimana prima, mia moglie m’aveva
trattenuto a stento mentre stavo per tuffarmi dal balcone al quarto piano,
convinto di scavalcare una staccionata che si frapponeva fra me e un verde
pascolo. Mi tormentavo il cervello da dieci minuti ma nulla ne usciva.
Sbirciavo il mondo oltre la finestra, prestando orecchio ai rumori della
strada. La stanza non offriva tanti appigli all’immaginazione. Bianche le
pareti, noi seduti vicino ai tavoli sparsi, a cercare di buttare giù due righe.
Unica nota caratteristica, alcuni papiri decorati, di quelli che si trovano su
qualsiasi bancarella degli africani. Horus, il dio dalla testa di falco, con la
sua regale tiara bianca, stava in piedi tra due sconosciuti le cui sembianze
ricordavano la maschera funeraria di Tutankhamon. Sì, avrei potuto immaginare
una storia ambientata in Egitto, qualcosa di esotico. Dalla strada giunse,
inatteso tra i rumori del traffico di città, un aspro verso d’uccello. Tornai a
fissare il papiro incorniciato. Uno degli uomini porgeva doni a Horus, l’altro
era rivolto verso una figura femminile. Iside, probabilmente. Quanto avrei
voluto conoscere quella scrittura fatta di occhi, uccelli stilizzati e altre
forme strane, per poter capire la storia che il disegno illustrava.

Ma così non era, e per giunta la stanza si era fatta scura e a stento riuscivo a distinguere i segni. Eppure, eravamo in pieno giorno. Tuttavia, in quel momento mi accorsi di essere solo. Spariti tutti gli altri, scomparsa la stanza con le pareti bianche. I geroglifici tracciati prima sul papiro incorniciato erano ora dipinti sulla parete di pietra. Scomparse anche le finestre, era in una larga stanza che sembrava un sotterraneo, illuminata da poche fiaccole. Nulla si udiva, tranne, a intermittenza, il verso d’uccello di prima, senza che però potessi individuarne la provenienza. Non capivo cosa mi ricordasse quel suono, poteva essere la voce di un falco? Cominciavo a esserne spaventato, non prometteva nulla di buono. Mentre lo cercavo con lo sguardo, in un angolo trovai un’apertura nel muro. Poco più che una larga e profonda fessura nel muro, in cui la paura mi spinse a infilarmi, graffiandomi il corpo contro la pietra. Appena oltre, uno scuro cunicolo in cui mi inoltrai spedito. Quasi subito distinsi un chiarore. Da lontano mi giunse quel verso minaccioso e seppi ch’era già sulle mie tracce. Così corsi, per quanto mi era possibile nell’oscurità, e man mano che il chiarore si avvicinava mi resi conto che il cunicolo sbucava nella stanza in cui mi trovavo poco prima. Vedevo tutti gli altri ancora intenti a scribacchiare su quel maledetto foglio come se nessuno avesse notato la mia assenza. Il grido del falco si avvicinava, io però ero sollevato, perché sapevo che rientrato nella stanza sarei stato al sicuro. Scattai avanti con frenesia verso la fine del cunicolo, ma invece di sbucare nella stanza bianca mi scontrai con un muro invisibile, impattando con fracasso e dolore. Con la pelle gelata per il contatto con la parete invisibile, osservai incredulo gli altri. Ancora non sembravano scuotersi dal loro torpore, nonostante il frastuono che avevo provocato. Il quel momento capii che ciò contro cui premevo era il vetro che proteggeva il papiro incorniciato, solo quel sottile strato di vetro che tuttavia io non riuscivo a sfondare. Horus, il maledetto, mi aveva catturato, lo sentivo avvicinarsi in volo nel buio lanciando il suo richiamo famelico. Io aspettavo la morte premendo disperato contro il vetro e urlando. Ma gli altri restavano pensosi sui loro fogli senza accorgersi di nulla.




Fornace di Livia Llwellyn

Liviia Llwellyn è nata in Alaska e, assieme al conterraneo Laird Barron e al canadese Simon Strantzas, compone una ideale avanguardia di nuovi autori di punta del weird provenienti dalla parte più settentrionale del continente nordamericano. Se in tutti e tre questi autori appare evidente il richiamo quantomeno tematico alla pesante eredità di Howard Phillips Lovecraft, forse proprio nelle narrazioni di Livia gli spunti di orrore cosmico e fascinazione verso l’ignoto del Maestro di Providence vengono sublimati al meglio rispetto agli altri autori citati, in una poetica del meraviglioso e del terrificante che riesce davvero a legarsi alle inquietudini della contemporaneità. 

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