Il Sacco di Caleb Battiago e Paolo Di Orazio

IL SaccoRoma, 31 Dicembre 2018

Il Reverendo Wallace, dalla magra torre della nunziatura, che ingoia una scalinata di pietra sbavata dal tempo, osserva la notte dipingere col suo unguento nero, lucido, la pelle secca di Roma, costringendola a farsi troia, a stringere le calze a rete ai basamenti dei ponti, ad accendere le sue centinaia di cupole, quella pandemia di seni giganti, con crocefissi di bronzo inchiodati sui capezzoli, che mappa il centro: serbatoi colmi di latte santo che pendono sopra al pantheon forato del ventre della città, col suo cimitero di semafori dagli occhi arancioni spalancati, intermittenti, voraci di coprifuoco.
Cherubini spennati sono appena volati via dalle orecchie del prete, uscendogli dalla mente: è quello che aspettava, la mezzanotte oscena dai bulbi oculari di madreperla, oliati di vaselina e incollati sotto l’aureola di stagno che gli mostra là sotto, tra le vene varicose dei sanpietrini, i colonnati vertebrali percorsi da parassiti castrati, le mille vesciche levigate che pisciano giochi d’acqua in ogni piazza e le cantilene di fantasmi d’incenso: il corpo sdraiato della vecchia puttana, la città infetta a cosce aperte, con una lunga fila di anime, come formiche dalle zampe falliche, che si arrampicano sul pantheon forato di un pube immondo.
Un vento gelido attraversa le trifore della torre, fischiando canzoni oscene, rinfrescando i polmoni e il cervello del Reverendo, che ha un’ora di tempo prima che l’anno nuovo inizi a respirare, sputando dalla bocca larga gli ultimi sorsi di sciroppo di placenta avariata. Poi sarà troppo tardi.
Il prete rientra nella sua stanza, lecca il muro per saggiare il sapore di quel momento speciale che cola salato sulle pareti, dividendosi in piccoli rivoli sulla cornice del ritratto di Papa Francesco che aspira anime sottili nei fanoni avvitati alle mascelle: una dentiera apocalittica. Sente il cuore pulsare con la forza di un cavallo meccanico a vapore, gonfia il torace risucchiando un profondo respiro, lasciando lavorare nella carne della schiena i ganci di ferro del cilicio che lo stringe; gli stessi arnesi affilati che facevano godere Santa Chiara, spalancandole visioni di stupri dall’odore di ciclamino.
Anche lei doveva mordersi le labbra, fino a farle sanguinare, in quello scottadito di anima, pensa il prete mentre indossa la maschera di cuoio, stringendo al massimo i cinturini e le fibbie dietro la testa. La mente lo precede nella discesa verso i sotterranei, come un re osceno che poggia il culo nudo su un trono nuovo di zecca. Una porta, un lucchetto, una serratura, un sacco di tela appeso al soffitto con una lunga catena, qualcosa dentro che si divincola, gonfiando e torcendo i muscoli come spire in corto circuito, pronto a mordere e graffiare.
Il sacco animato è come un cuore asciutto, messo a essiccare alla luce ipodotata di una candela. Nessun battito, solo pulsazioni isteriche, spasmodiche, scomposte, arrapanti come la danza del generoso bacino di un’odalisca da centoventi chili. Non c’è sangue da pompare fuori dalla iuta, ma solo schizzi di rabbia e paura. Macchie che corrodono lentamente il grezzo tessuto.
Non è facile prevedere fin dove la claustrofobia possa spingere qualcuno — la donna là dentro, con la sua carnosa orchidea che stilla rubini liquidi, come vuole la natura una volta al mese — imprigionato nel ruvido, buio utero di un’estranea ossessione. Ma un prete sa scandagliare la mente di ogni capo nel suo gregge, meglio di qualsiasi psicanalista dalle labbra annerite da sigari da meditazione, e scegliere la giusta eletta durante l’anno sabbatico di preparazione e astinenza, caccia e cattura, annusando segnali, cronometrando ovulazioni, aprendo teste con l’apriscatole della confessione.
Il Reverendo, incendiato dagli spasmi del sacco, trattiene a stento una schiumata di sperma che gli scala l’asta turgida, come la colonnina di mercurio di un termometro infilato nel culo di un uomo appena arso vivo. Quella poltiglia bianca è da troppo tempo imbottigliata nelle palle — 364 Ave Maria — e il cilicio costringe il piacere a fondersi nel dolore. Lo sperma, la quintessenza di uomo, il serpente bianco senza occhi, è sempre pronto a uscire dalla sua calda tana per spruzzarsi sulla pelle profumata della preda. Ma il Reverendo tira forte le briglie, costringendolo ad aspettare, accumularsi, potenziarsi, macerare nel parossismo. Lo tiene in gabbia, lo ascolta ringhiare, viscido e sovraccarico, mentre si lancia sui picchi più alti, quelli con le corna fra le nuvole, per poi sprofondare, subito dopo, nella gola del precipizio, annodandosi intorno alla lingue a mulinello là sotto, in fondo, che spuntano come murene dalle croste dell’inferno di ogni giorno.
Basta tirare e allentare la cima libera del cilicio, e andare avanti — 364 Padre Nostro.
Il Reverendo, in piedi davanti al sacco, si spoglia mostrando la sua carne sfatta, grigiastra, fremente, segnata ovunque da arabeschi di unghie. Sulla schiena ha tatuati gli scarabocchi dei ganci, mezzelune viola, cicatrici — le sue ali di angelo, disegnate da un Caravaggio avvelenato dal piombo — e tutta la costellazione scorsoia della stretta del cilicio, coi morsetti a molla decorati da denti umani, strappati dalle bocche urlanti delle farciture vive di altri sacchi, di altri anni morti, che ora fanno parte di lui, conficcati nel costato, nei lombi, insieme a tutte le altre spine del suo medioevale congegno di estasi.
Tira forte la cima del cilicio e strangola l’eiaculazione, quasi risucchiata fuori dal semplice, cieco pulsare del sacco che gli carezza la pelle nuda con un impercettibile spostamento d’aria.
Inizia a girare la carrucola, che tiene tesa la catena alle travi del soffitto, facendo scendere il sacco fino a pochi centimetri dal pavimento, preparandosi, con le dita unte di adrenalina, a sciogliere il nodo e liberare la sua inquieta Maddalena, che scalcia sempre più forte in quell’utero di iuta; la crisi claustrofobica della donna sta accelerando, è come vetro negli occhi.
Il sacco cade a terra aperto, ai piedi del Reverendo, che finalmente vede guizzarvi fuori mani, braccia, capelli, occhi come bocche di fuoco e tutto il resto, livido, di quel corpo scelto per il rito di fine anno. Ciò che si mostra è una maschera di rabbia attaccata sul collo della donna nuda, avvolta da spirali di filo spinato. Sembra una rosa, quella bocca così rossa, montata su un gambo dotato di spine di metallo.
L’aria viziata di quell’antro malefico le invade gola e polmoni; serrando gli occhi, che bruciano come la sua furia, riesce a inquadrare la sagoma sfocata di quell’uomo, là davanti, che apre lentamente le braccia per accogliere qualsiasi cosa. Graffi, pugni, morsi, squarci, bestemmie. Tutto il miele che lei può offrirgli, in quel momento.
Capace di staccare la testa di un toro a morsi, per ciò che è stata costretta a subire per giorni, per quella flebo di claustrofobia attaccata alle braccia legate a croce come quelle di Gesù Cristo, la donna punta subito quell’uomo che l’ha appena liberata, e che adesso sorride con la bocca piena di denti falsi che spuntano da sotto quella strana maschera: è il suo aguzzino — chi altri potrebbe essere, quel grasso porco — dovrà pagarla cara, con più di un litro di sangue.
Si morde le labbra, pianta le unghie nei palmi delle mani: è pronta a saltargli addosso. Proprio quello che il Reverendo vuole; quello sguardo inferocito, da tigre ferita ma non doma, che quasi schizza fuori dalle orbite come inchiostro bianco, rosso e nero, è meglio di un porporato, di una poltrona sul sacro Getsemani, tra le foglie che puntano Gerusalemme come cartelli viventi, delle chiappe lisce di una novizia da decorare a crudo con una Via Crucis di tagli; è meglio di qualsiasi altra cosa.
Le membra della nuova Maddalena, con la mente schermata dalle lenti d’ingrandimento dell’istinto, scattano per assecondare un solo lucido pensiero, luminoso come un lingotto di neon: devastare quella figura umana dinanzi a lei, farla a pezzi. L’aria fetida di quella stanza senza tempo, senza senso, le entra nella gola e poi, finalmente, esce sotto forma di grido. Cerca di alzarsi, scattando su, ma si rende conto che dal pavimento ascende una folgore di dolore. I denti vibrano, i nervi bruciano; là sotto devono esserci invisibili fiamme che la stuzzicano perverse. Le ginocchia si piegano, cade all’indietro. Solleva le gambe, ne sfiora le estremità con le dita: dalla pelle dei polpacci i polpastrelli passano direttamente alla polpa di tessuti tranciati che finiscono le sue gambe come frange. Grida di nuovo: il bastardo le ha mozzato i piedi, e restare in equilibrio su mozziconi di carne viva, su tralicci di tibie, va oltre le capacità della sua rabbia.
Ma scopre presto che non serve muoversi, camminare, per vendicarsi. L’uomo si avvicina, poi si piega per stendersi accanto a lei. Sussurra qualcosa verso il soffitto marcio, forse sta pregando, mentre affonda le dita nelle sue stesse carni già straziate dal cilicio, cercando di dare di nuova vita a ferite quasi morte e cicatrici da risvegliare. Il Reverendo, adesso carponi sulla donna a terra, si lascia ghernire, graffiare, mordere. Le dita di Maddalena si aggrappano al cilicio e tirano, mentre coi denti affonda sui flosci, insipidi pettorali: nidi di naftalina, nient’altro, spolverati da zucchero di borotalco — sapore di medicina, di ospedale. Il prete soffia tutto il suo dolore e piacere all’interno della maschera di cuoio, il paradiso lo pervade, come melassa bollente, in ogni cellula urlante, mentre sente il pene farsi maglio, pronto per inchiodare la donna ormai esausta, e terminare il lavoro.
Il serpente bianco adesso è libero di uscire, la porta di Gerusalemme è aperta, e i suoi tesori damascati luccicano giù in fondo, dietro i sipari di velluto delle grandi labbra. Le unghie della donna affondano sulla maschera che protegge il volto del bastardo: vede quegli occhi folleggiare dietro le grate di protezione, e poi sollevarsi, ruotare del tutto e mostrare un bianco, integrale delirio. Poi, finalmente, il Reverendo lancia nella donna il suo serpente scodante, insieme ai frammenti cristallizzati della livrea a diamanti, e forma un grido preumano che rimbomba nella stanza, e che racconta tutto: la divisione dei pani e dei pesci, la cacciata degli Ebrei, la convocazione dei Quattro Cavalieri, l’Apocalisse con la gonna stracciata, i tacchi alti e le guancie pallide che suona il corno d’ossa, mentre la linea dell’orizzonte, spezzata dalla verticalità della Torre, si fa improvvisamente di traverso, facendo colare il mondo nell’imbuto gigante dello spazio nero.
Un solo secondo, così corto e immenso, volatile e perpetuo, un chiodo che entra, di colpo, in una delle braccia di legno di una croce, quella croce, attraversando tessuti caldi, ancora vivi.
Dolore, piacere, resurrezione. Sono tutto mio Padre, pensa il prete.

2018 ©Alessandro Manzetti e Paolo Di Orazio
Tutti i diritti riservati

GLI AUTORI

Caleb Battiago, pseudonimo di Alessandro Manzetti (Roma, 1968) è un autore di narrativa dark e fantastica, vincitore del prestigioso Bram Stoker Award® (e sette volte finalista), oltre a decine di nominations ad altri premi internazionali, curatore e traduttore. Ha pubblicato, con diversi editori, col proprio nome e con lo pseudonimo di Caleb Battiago, varie opere di narrativa, poesia e saggistica, tra le quali i romanzi Samsara, L’Isola degli Urlanti (2018), Il Custode di Chernobyl (2018), Naraka – L’Apocalisse della Carne (2013), Shanti – La Città Santa (2014), Kiki: The Beginning (2016), le raccolte di racconti Il Giardino delle Delizie (2017), I Figli di Uxor 77 (2018), la novella Area 52 (2016) e il saggio Monster Masters (2015). Tra le sue opere in lingua inglese: il romanzo Naraka: The Ultimate Human Breeding (2018), le raccolte di racconti The Garden of Delight (2017), The Monster, the Bad and the Ugly (2016, con Paolo Di Orazio), The Massacre of the Mermaids (2015) e le raccolte di poesie Dark WAR (2018, con Marge Simon), No Mercy (2017), Eden Underground (2016), Sacrificial Nights (2015, con Bruce Boston) e Venus Intervention (2014, con Corrine De Winter). Ad Aprile 2019 il suo secondo romanzo in inglese, Shanti – The Holy City, sarà pubblicato da Necro Publications, casa editrice leader nell’hardcore horror dal 1993. Tra le opere come curatore: le antologie The Beauty of Death (2016), The Beauty of Death Vol. 2Death by Water (2017, con Jodi Renee Lester) e Monsters of Any Kind (2018, con Daniele Bonfanti).
Diversi suoi racconti e poesie sono stati pubblicati su vari magazines e antologie in Italia, Stati Uniti e Inghilterra.
Oltre al Bram Stoker Award®, premio che ha vinto nel 2015, per il quale ha ricevuto anche sette nominations (Edizioni 2014, 2016, 2017, 2018), ha ricevuto diverse altre nominations ai premi internazionali Splatterpunk Awards (2 volte), This Is Horror Awards, Elgin Awards e Rhysling Awards, e sue opere di narrativa e poesia dark hanno ricevuto venti honorable mentions nei Best Horror of the Year Volumi 7-8-9-10 a cura di Ellen Datlow.
Sito web: www.battiago.com

Paolo Di Orazio, Roma, 1966. Pioniere dello splatterpunk Italiano con l’antologia Primi Delitti (1989), denunciata dal Parlamento per istigazione a delinquere, pubblica racconti, romanzi e fumetti con Granata Press, Addictions, Castelvecchi, Radio Rai, Urania, Sergio Bonelli Editore, «Cattivik», «Heavy Metal», Coniglio editore, Cut Up Publishing, Nicola Pesce, Beccogiallo, Clair de Lune, Rizzoli e Independent Legions. Creatore ed editor della rivista cult «Splatter». Tra le sue pubblicazioni in lingua Italiana: Madre Mostro (1991), Prigioniero del Buio (1992), Il Dipinto Ucciso (1993),Che hanno da strillare i maiali (2009), Vloody Mary (2011), Chiruphènia (2012), Debbi la Strana e le Avventure Bipolari del Coniglietto Ribes (2014), Black & Why (2015), Nero Metafisico (2016), Il Sogno Dormiente (2016), Il Morso dello Sciacallo (2016), Putridarium (2018), col quale ha vinto il Premio Laymon, e Debbi La Strana: Le Avventure Oltranziste nel Ventre della Balena Ginger (2018). Tra le ultime pubblicazioni come sceneggiatore di fumetti: Il Bambino dei Moschini 1 e 2 (2018), Cadaveri e Polpette e Cadaveri e Polpette: Anche gli Zombie si Sposano! (2018), per i quali ha realizzato anche i disegni e l’illustrazione di copertina.

Tra le sue pubblicazioni in lingua inglese: il romanzo Dark Mary (2018), le raccolte di racconti Dark Gates (2014, con Alessandro Manzetti), My Early Crimes (2015) e The Monster, the Bad and the Ugly (2016, con Alessandro Manzetti), e i racconti Candy e Periscope of the Dead nelle antologie in lingua inglese The Beauty of Death Vol. 1 (2016) e Vol. 2 (2017). Il suo racconto Hell (da Dark Gates, 2014) è stato inserito nella lista del Best Horror of the Year – Volume 7 curato da Ellen Datlow. Ha tradotto opere di Richard Laymon e Jack Ketchum. È Active Member della Horror Writers Association.

Sito Web: www.paolodiorazio.com