La seconda morte di Maurizio Cometto 2° parte

Cover La seconda morte 2° parte

Mercoledì si svolse tutto come lunedì.
Non la vidi in treno la mattina, del resto non la cercai neppure. Non venne a lezione di Costruzione di macchine. Non la incontrai sul treno del ritorno, su cui invece c’erano, seduti uno di fronte all’altro, il sacerdote e il tipo con “Il Sole 24 Ore”. Dovevano conoscersi, perché facevano sempre coppia.
Prima di dar sfogo al mio disappunto, decisi di aspettare il venerdì. Non l’avevo incontrata proprio di venerdì, sul treno per Cuneo delle diciotto e venti? Qualcosa voleva pur dire.
Ma venerdì, sia sul treno delle dodici e venti per Torino (del resto abbastanza deserto, e lo perlustrai tutto), sia a esercitazione di Costruzione di macchine, io non la vidi.
Arrivai alla stazione alle diciotto precise. Sapevo che se non l’avessi vista sul treno, probabilmente non l’avrei vista mai più. Anche se la settimana dopo avrei continuato a cercare. Poi non ci sarebbe stato più nulla da fare, perché finivano le lezioni e iniziavano gli esami.
Feci il giro del treno, già abbastanza affollato. Non la trovai.
Mentre risalivo sconsolato le carrozze, notai nuovamente il sacerdote grassoccio (già mezzo addormentato) e il tipo elegante nascosto dal “Sole 24 Ore”, ovviamente seduti uno di fronte all’altro. Rallentai il passo. Mi venne in mente di sedermi lì, di fianco al tipo elegante, lato finestrino, come avevo fatto il venerdì precedente. Chissà che non avrebbe portato fortuna?
Ma il posto era già occupato. Da uno studente di Informatica di Savigliano, un tipo solitario e taciturno, che aveva fama di genio e che conoscevo di vista. Aveva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Sembrava che dormisse a occhi aperti.
Decisi comunque di sedermi vicino a loro. Due dei quattro sedili dall’altra parte del corridoio erano liberi; ne occupai uno. Appena il treno fosse partito, avrei fatto un ultimo, disperato giro di controllo. E poi mi sarei dedicato all’autocommiserazione, arte in cui ero maestro.

Devo ripetermi ancora una volta, purtroppo. Girai tutto il treno e non la trovai.
Tornai al mio posto. Maledicevo la mia sfiga in generale, la mia tendenza a imbattermi nelle situazioni più strane, nelle persone più inaffidabili. Imprecavo mentalmente contro di lei per non aver tenuto fede alle sue promesse. Mi sentivo stanco, depresso, con nessuna prospettiva sentimentale. Mi consideravo un fallito. Canticchiavo a memoria una canzone dei Danny Wilson di un album uscito cinque anni prima, Imaginari girl. Si adattava perfettamente allo stato d’animo in cui mi trovavo.
Dopo Carmagnola, abbastanza prevedibilmente, stavo già sbollendo. Ero troppo stanco per continuare a compatirmi. Inoltre cominciavo ad almanaccare che forse lunedì avrei potuto rivederla. E se fosse stata a casa un’intera settimana per un malanno? Magari un’influenza intestinale, con il caldo che aveva fatto… Chissà, forse c’era ancora qualche possibilità…
Rivolsi l’attenzione ai tre tipi seduti alla mia sinistra. Il sacerdote dormiva e ogni tanto russava. La faccia del tipo elegante, al solito, era nascosta dal “Sole 24 Ore”. Mi colpì l’atteggiamento dell’informatico saviglianese. Fissava un po’ fuori del finestrino, un po’ davanti a sé, il posto rimasto vuoto, con occhi spalancati e aria imbambolata. Ebbi l’impressione che ogni tanto parlasse da solo. Forse il troppo studio l’aveva fatto uscire di testa.
In prossimità di Savigliano cominciò a prepararsi per scendere. Si alzò e recuperò lo zaino con mosse impacciate, come se temesse di urtare qualcuno o disturbare troppo. Si portò sul corridoio. Stava per allontanarsi, quando d’improvviso si voltò a guardare il posto vuoto, davanti a quello che aveva appena lasciato.
Fece un timido sorriso. Poi disse, come in risposta a qualcuno:
– Va bene, a lunedì mattina.
Si allontanò verso la piattaforma di uscita, con passo rapido.
A lunedì mattina…
Proprio in quel frangente di improvviso smarrimento ricordai un particolare. Venerdì scorso, appena uscito dal treno, avevo dato un’occhiata attraverso il finestrino, al posto in cui lei doveva essere seduta. Volevo farle ciao con la manina.
Il posto era vuoto. Lei non c’era più.
O forse non c’era mai stata?

Solo più tardi mi resi conto che il sacerdote grassoccio, subito dopo che l’informatico saviglianese aveva lasciato la scena, si era svegliato emettendo una specie di tremendo gorgoglio. E che il tipo elegante finalmente aveva ripiegato con cura la sua copia del “Sole 24 Ore”, rivelando la faccia scavata e il paio di occhiali con spesse e rotonde lenti nere che già conoscevo.
I due si erano scambiati un sorriso.

Il fine settimana fu terribile. Di giorno non studiavo, di notte non dormivo. Avevo paura di essere uscito di testa.
Mi telefonò tre volte Luca: voleva parlarmi di Anna. Fui disturbato da altri conoscenti che da tempo non sentivo. Mia sorella mi chiedeva lumi sulle travi reticolari. Declinavo sempre, adducendo scuse con quel poco di lucidità che mi era rimasta.
Di notte se chiudevo gli occhi rivedevo lei. Ogni particolare mi era tornato alla mente, nitido e preciso. I capelli biondo-rossi e le ciocche intorno al volto. Gli occhi azzurro-viola, tanto che pareva indossasse lenti a contatto. L’altezza superiore al metro e settanta, la pelle delle braccia nude bianchissima, la scollatura generosa e le belle gambe…
Poi aprivo gli occhi, accendevo la luce, e lei si dissolveva. E mi sembrava di udire il suo lamento, addirittura un urlo, come se davvero il suo corpo si fosse smembrato. Soprattutto quell’urlo, sentito o immaginato, era insopportabile.
Ancor prima di domenica sera avevo già deciso. Avrei parlato con l’informatico saviglianese. Eravamo in due a essere coinvolti. Si trattava di unire le forze. Di capire cosa stava succedendo. Di portare luce in quell’oscurità.
Quando presi questa decisione, mi sentii meglio.

Lo sorpresi il mattino, a Savigliano. Entrò proprio nel vagone dov’ero sistemato io. Capii dalla faccia che nel fine settimana non aveva dormito. Avanzò nella calca guardandosi attorno con aria fintamente casuale. Era già in caccia, poverino.
Mi alzai e gli andai dietro. Come non avevo fatto io, percorse tutto il treno del lunedì mattina, ovviamente senza risultato. Si sedette in fondo al treno, dove c’era ancora qualche posto libero, e io mi sedetti di fronte a lui.
Guardava fuori del finestrino, malinconico.
Affrontai l’argomento nell’unica maniera possibile: quella diretta.
– Guarda che è inutile: lei non esiste -, affermai deciso.
Spostò lentamente gli occhi su di me. Sembrava infastidito, più che sorpreso.
– Come savebbe? -, domandò. Non sapevo avesse la erre “moscia”, ma da noi non è infrequente.
– La ragazza che hai visto venerdì scorso, in treno, e che ti ha dato appuntamento per oggi. Alta, bionda, occhi azzurro-viola, aria aristocratica. Gran bel pezzo di figliola. Ebbene, non esiste.
– Come fai a sapeve… Ova vicovdo! Evi seduto vicino a noi!
– Non solo per quello. Il venerdì precedente l’ho veduta io! E mi ha dato appuntamento al lunedì successivo, a lezione di Costruzione di macchine. Figurati se poi l’ho incontrata. Né a lezione né in treno; né lunedì né mercoledì né venerdì. Niente: scomparsa nel nulla. Ma c’è un’altra cosa, ben più importante…
– Ah, sì? Sentiamo…
– Venerdì scorso seduto davanti a te non c’era nessuno! Il posto era vuoto!
Questo sembrò scuoterlo.
– Non c’eva nessuno…? Intendi dive che non c’eva lei? Ma se io l’ho vista! – Dietro gli occhiali strabuzzò gli occhi.
– Non c’era nessuno. Vedevo te gesticolare e parlottare, scusa se mi permetto, come un pazzo con sé stesso. E non c’era nessuno. Ma soprattutto, ho visto come alla fine, in piedi, hai salutato e dato appuntamento a lunedì prossimo a “qualcuno” … Ti stavi rivolgendo al sedile!
Arrossì improvvisamente.
– È lei che mi ha dato appuntamento, non io. Non mi savei mai pevmesso. Diceva di conoscevmi, ma io non l’avevo mai vista pvima d’ova, te lo giuvo!
Mi fece compassione.
– Non ci cvedo che non c’eva nessuno. Io non sono pazzo. Sono cevto che oggi a lezione la vedvò.
– Ok, imbecille. Incontriamoci sul treno delle tredici e venti, se ti va, e vedremo cos’avrai da raccontarmi.
Annuì. Non mi pareva sconvolto o incredulo. Era semplicemente offeso.

– Avevi vagione. Non s’è fatta vedeve, quella stvega. Eppuve sembvava sinceva, diceva di conoscevmi…
– Non te la prendere. Vieni con me. Dobbiamo andare dai due tipi, il prete e quella specie di broker, li ho visti in cima al treno.
Era ovvio che c’entravano qualcosa. Nelle due occasioni in cui lei era apparsa, erano stati presenti. E avevo ricordato il brusco risveglio del prete, il giornale ripiegato sulle ginocchia dell’altro, il sorriso complice che si erano scambiati.

Esistono visioni che possono condurre un semplice studente sull’orlo della pazzia. L’urlo disumano, il sangue che filtra da sotto la porta, la gente che passa indifferente… Sono immagini che temo perseguiteranno le mie notti prima tranquille. Notti popolate tutt’al più da ingenue paranoie sugli esami più pesanti, o da sogni romantici o erotici accompagnati dalla musica pop. Avrei fatto meglio a non propormi come cavia per l’esorcismo escogitato da quei due. Del resto, che dire? L’informatico saviglianese non aveva il coraggio; io, da parte mia, volevo rivederla. Ed è stato un caso, in fin dei conti, che proprio io sia rimasto coinvolto?
Il prete grassoccio si rivelò un esorcista con facoltà medianiche. Il tipo elegante dall’aria del broker, un famoso studioso del paranormale. Il prete quando andava in trance si addormentava e russava, e in tal modo attirava in questo le creature dell’altro mondo. Il falso broker aveva inventato una sorta di “visore paranormale”, complicatissimo, che per i comuni mortali aveva forma di un paio di occhiali da sole. I due, ci dissero, erano stati ingaggiati in gran segreto dalle Ferrovie dello Stato. Dovevano liberare la linea Cuneo – Torino da una presenza fantasma, più volte avvistata dal personale ferroviario e da alcuni passeggeri.
Dieci anni prima una studentessa di Scienze Politiche di nome Esmeralda Giordanengo si era tolta la vita nel bagno del treno, tagliandosi le vene dei polsi.
La causa del suicidio era stata una delusione amorosa. Esmeralda aveva sorpreso il suo ragazzo, Giuseppe Giraudo, mentre si sbaciucchiava con un’amica, in uno scompartimento con le tendine tirate. Era corsa nel bagno del treno e aveva posto fine ai suoi giorni, utilizzando come arma un paio di forbici da unghie.
Di questa cruenta storia non avevo mai saputo niente. Neppure l’informatico saviglianese l’aveva mai sentita. Era così, ci spiegarono i due, perché le famiglie coinvolte e le Ferrovie dello Stato avevano cercato di far trapelare il meno possibile.
La ragazza che avevamo visto era Esmeralda. Il suo fantasma si aggirava sui treni della Cuneo – Torino e faceva promesse d’amore ai ragazzi più “solitari e indifesi” (così dissero), promesse che ovviamente non manteneva. Era il suo modo per vendicarsi del torto subito da Giuseppe.
– Solitavi e indifesi? Cosa intendevebbe dive…? -, saltò su il mio compagno.
– Vuol dire più predisposti da un punto di vista psicologico -, spiegò il falso broker, ghignando apertamente.
Per far cessare le apparizioni esisteva una sola soluzione, a detta dei due. Bisognava far “rivivere” (usarono questo verbo) al fantasma di Esmeralda la scena che l’aveva portata al suicidio. Solo così, riaffrontando lo shock, avrebbe finalmente avuto pace. Un po’ come succede in una seduta psicanalitica.
D’istinto mi offersi di convincere Esmeralda. L’informatico saviglianese avrebbe sostenuto la parte di Giuseppe, chiudendosi in uno scompartimento, e facendo finta – al momento opportuno – di sbaciucchiare qualcuna. Qualcuna che poi sarebbe stata sua sorella, appassionata lettrice – venne fuori – di Dylan Dog.
Combinammo tutto per il giorno dopo, treno delle undici e quarantacinque per Torino, uno dei meno affollati.
“Giuseppe” e sua sorella andarono a chiudersi in uno scompartimento. Io mi sedetti di fianco al “broker”, nervoso all’idea di rivedere Esmeralda. Mentre il “broker” infilava gli occhiali da sole (il “visore paranormale”) e spiegava la sua copia del “Sole 24 Ore” (vecchia di un mese), il prete grassoccio chiuse gli occhi e in men che non si dica il sonno diede un’aria ancora più placida al suo volto già placido.
Cominciò a russare.

Esmeralda arrivò e si sedette esattamente come la volta precedente.
– Perché non sei venuta lunedì scorso? -, le domandai subito. La timidezza che avevo provato era scomparsa.
– Lunedì scorso? Dovevamo vederci? E perché?
Accavallò le gambe e mi guardò, con quegli occhi splendidi e dal colore indefinibile, in attesa di una risposta.
– Mi avevi dato appuntamento a lezione di Costruzione di macchine…
Sorrise lievemente.
– Guarda che ti sbagli. Io sono iscritta a Scienze politiche, non a Ingegneria. E poi sono già impegnata.
Deglutii a vuoto. Mi sentivo doppiamente preso in giro, perché non ammetteva di avermi ingannato. È solo un fantasma, pensai. Un’entità priva di coscienza. In fondo, nulla di ciò che fa è voluto.
Ma il mio disappunto non voleva retrocedere.
– Sei già fidanzata, certo -, dissi. – A proposito… Come sta Giuseppe?
Avvicinò il polso sinistro agli occhi, per consultare l’orologio, con un movimento che mi diede i brividi. Aveva i polsi intatti, bianchissimi.
– Non sapevo che tu conoscessi Giuseppe. Grazie, sta bene. Però è in ritardo. Avrebbe già dovuto essere qui…
– Infatti è già in treno -, le dissi, freddo. – Scusa se mi permetto. L’ho visto in uno scompartimento, insieme a una ragazza. Si stavano baciando.
– Non è possibile -, disse. Il sorriso le si spense, il labbro inferiore cominciò a tremarle.
– Invece è così. Non ti fidi di me? Vieni che ti faccio vedere…
Mi alzai, scavalcai le gambe dei due prezzolati delle FS e mi portai sul corridoio; lei mi seguì. Mi domandai se il rumoroso sonno del prete avrebbe mantenuto in vista l’apparizione anche a distanza. Ma forse Esmeralda viveva di una vita propria, indipendente da qualsiasi prete “medianico”.
Il treno era quasi deserto. Mister Visore Paranormale ci seguiva a distanza. Incrociammo un bigliettaio che ci lasciò passare (o mi lasciò passare?) senza dire nulla. Finalmente raggiungemmo lo scompartimento.
Aprii lo sportello con gesto violento. “Giuseppe” e sua sorella stavano fingendo di baciarsi, o si baciavano davvero, non so. “Giuseppe” era di spalle. La sorella da dietro occhieggiava avida verso di noi. Era uno spettacolo a dir poco nauseante.
Esmeralda li vide. La sua pallida faccia si fece di fuoco. Vene sulle tempie cominciarono a pulsarle.
D’un tratto fuggì via. Io le corsi dietro. Pur essendo più veloce, non riuscii – o non volli? – raggiungerla. Arrivai davanti alla porta del bagno, ansante, e mi fermai. Non toccai neppure la maniglia.
L’aria fu subito invasa da un urlo disumano. Un rivolo di sangue cominciò a filtrare attraverso la fessura del battente della porta. Un’atmosfera di cupa tragedia, simile a un odore appestato, si stava posando su tutto.
In quei momenti transitarono delle persone davanti alla porta del bagno. Nessuno diede segno di vedere o di sentire qualcosa. Sembravano di un’altra dimensione, dimensione a cui avrei tanto voluto appartenere.
– Entriamo -, disse mister Visore Paranormale. La sua voce, improvvisa e inaspettata, mi fece trasalire.
Scoprii che la porta del bagno era aperta. Fiotti di sangue imbrattavano il lavabo, lo specchio, la tazza. Sul pavimento se n’era già formata una pozzanghera.
Esmeralda non c’era, ma si avvertiva la sua angosciata presenza, e faceva male dentro.
– Stavolta s’è uccisa davvero -, disse l’uomo.
Si tolse gli occhiali e cominciò a fissarmi. Aveva gli occhi tra l’azzurro e il viola, lo stesso colore indefinito di quelli di Esmeralda. Sarei pronto a giurare che il suo sguardo mi accusasse di qualcosa. Che fosse stato il padre? mi chiesi. No, impossibile. Chissà se anche lui portava lenti a contatto…

Poco dopo ci raggiunsero il prete-esorcista, l’informatico saviglianese e sua sorella.
– Se n’è andata davvevo…?
Intanto anche il sangue era sparito.
– Sì, se n’è andata per sempre -, rispose il prete, parlando per la prima volta.
Io mi sentivo come se l’avessi uccisa.
Pensai a come avevo frenato nella rincorsa. Al fatto che non ero riuscito a raggiungerla; che non avevo neppure tentato di aprire la porta del bagno. Lo sguardo accusatore di mister Visore Paranormale.
Ricordai il sogno, le mani imbrattate di sangue.
Già allora sapevo che l’avrei uccisa.
Eppure nel contempo mi sentivo sollevato.

Dopo questi eventi, inaspettatamente, cominciai a stare meglio. Ero più sereno, mi applicavo nello studio con maggiore impegno, la mia mente era sgombra come una limpida mattina di primavera. Sembrava che mi fossi sgravato di un peso.

Rividi Luca in occasione del trattato di pace con Anna. Eravamo nel dehor del caffé Roma, era domenica e faceva di nuovo caldo. Luca era raggiante.
– Adesso stiamo insieme -, disse, davanti a un gelato alla fragola. Rimasi stupito. Per la prima volta gli sentivo fare un’affermazione simile.
– Ehi, veramente? Sono contento. Ma non eravate insieme già da un po’?
Mi scoccò un’occhiata fintamente offesa.
– In un certo senso sì, però non ufficialmente. Ora invece ci siamo impegnati. Lei ha accennato addirittura alla convivenza…
Mi trattenni a fatica dal ridere. Lui se ne accorse. Si rabbuiò un poco, cercò di sviare il discorso.
– E tu, quella bionda? L’hai poi rivista?
Ecco, ci siamo, pensai. Feci due respiri lenti, belli lunghi.
– Sì, l’ho rivista. Una sola volta. Ma era già impegnata.
I due prezzolati delle FS ci avevano fatto promettere di mantenere il silenzio. In fondo non era difficile. Chi avrebbe mai creduto a una storia del genere?
Lui scosse la testa, sornione.

Mai più parlai di quanto accaduto, né con Luca né con nessun altro. Ma col trascorrere del tempo prese forma una certezza dentro di me. Che a uccidere Esmeralda, a ucciderla davvero, ero stato io.
Io le avevo dato la seconda morte, quella definitiva.
E in fondo me ne vantavo, perché l’avevo liberata dalla sua terribile prigione.
Un giorno, forse, mi avrebbe ringraziato.

Maurizio ComettoL’AUTORE
Maurizio Cometto è nato a Cuneo nel 1971. Tra i suoi libri pubblicati, il romanzo Il costruttore di biciclette (Il Foglio 2006), la raccolta L’incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici (Il Foglio 2008), il romanzo per istantanee Cambio di stagione (Il Foglio 2011). Nel 2016 sono usciti in e-book il racconto lungo La macchia, per Acheron Books, e il romanzo di formazione Michele e l’aliante scomparso, per Delos Digital. Nel dicembre 2017 è uscita la raccolta di racconti Heptahedron, per Acheron Books. A fine 2018 è uscito per le edizioni Il Foglio Magniverne, contenente la riedizione de Il costruttore di biciclette insieme ad altri racconti lunghi accomunati da temi e ambientazioni. Nel settembre 2018 il racconto La Tierra Blanca, tradotto in inglese da Rachel S. Cordasco, è stato incluso nel primo numero della prestigiosa rivista The Silent Garden, edita da Undertow Publications. Ha pubblicato numerosi racconti in antologie, siti internet e riviste. Laureato in Ingegneria Meccanica, vive a Collegno.