La belva dei Carpazi di Gordiano Lupi

La belva dei Carpazi di Gordiano LupiRicordi di Erzsébet Báthory
Castello di Csejthe, 21 agosto 1614

Non avrei mai creduto di finire la mia vita rinchiusa come una belva feroce, come un animale braccato, condannata per sempre a invecchiare in solitudine, a bramare la morte come una liberazione. Perché la cosa peggiore che mi può ancora accadere è quella di vedere il mio corpo appassire sotto i colpi inclementi del tempo che scorre. C’è ancora lo specchio nella mia stanza. Nessuno lo ha portato via. Sono costretta a guardare la vecchiaia che avanza inesorabile. Si avvererà la profezia della vecchia megera che un giorno mi disse: “Diventerai come me, contessa! Nessuno ti vorrà più baciare!” Ridevo di lei, della sua bruttezza, avevo obbligato il mio amante a scendere da cavallo e a baciare quelle labbra raggrinzite, ad accarezzare quella pelle sfiorita. Le parole della vecchia mi entrarono nell’anima e subito smisi di ridere, perché era vero che presto sarei diventata vecchia e brutta. Pure io, che ho avuto tanti amanti e ho sempre potuto scegliere tra i nobili più attraenti, mi sarei trasformata in una vecchia megera e gli uomini non avrebbero voluto toccarmi. Solo per questo ho cercato di oppormi al tempo che passa. Non potevo attendere la fine della gioventù senza provare a fare qualcosa. Non potevo. Amavo il biondo dei miei capelli e lo conservavo lavandoli con cenere, zafferano e camomilla. Volevo che la mia pelle restasse bianca e vellutata. Volevo essere giovane per sempre. Per questo mi hanno murata viva nel mio castello. Ho letto le accuse della corte e immagino lo sguardo accusatore di quei venti giudici, dei testimoni e di quel maledetto prete Ponikenus. Non ho voluto subire l’onta del processo, sono rimasta al castello, nelle mie stanze. Non potevano giudicare una contessa come una volgare plebea. Non ne avevano il diritto. Ho letto pure la sentenza: “Avendo le confessioni e le testimonianze dimostrato la colpevolezza di Erzsèbet Báthory e di come ella abbia commesso delitti contro persone di sesso femminile, visto che i suoi complici esigono una punizione, abbiamo deciso di strappare le dita con le pinze a Jò Ilona, di condannare a morte Ficzkò che sarà decapitato e gettato tra le fiamme…”. Parole terribili che percuotono ancora la mia mente. Non potevano fare questo anche a me, ero pur sempre la contessa Erzsèbet Báthory, mica una serva di palazzo. E allora mi hanno rinchiusa in questa stanza buia, murata viva ad appassire come un fiore che attende il suo inverno. Resta una feritoia per far passare la luce e un filo d’aria, un anfratto di parete dal quale fanno entrare da bere e da mangiare. Resta quel maledetto specchio che riflette giorno dopo giorno la vecchiaia che avanza inesorabile e scolpisce rughe sul mio volto. E adesso ha vinto lei, purtroppo. Non c’è proprio niente che possa fermarla.

Le accuse del prete Jànos Ponikenus
Castello di Thurzò a Bicse, 2 gennaio 1611

Signori giudici, sono venuto davanti a questa corte per raccontare le mille nefandezze di cui sono stato testimone e non mi fermerò davanti a niente, non mi lascerò intimorire. Questa donna è una belva sanguinaria e le cose che ha fatto sono così scellerate che brividi di disgusto mi fanno tremare la voce mentre racconto. Tutto è cominciato una notte in cui ho avuto la notizia che al castello di Csejthe avevano sepolto nove fanciulle e non c’era traccia di epidemia o pestilenza nella zona. Subito mi sono precipitato al castello in compagnia del fido valletto Jàno e ho perlustrato la cripta. Nei sotterranei della chiesa ho visto l’orrendo spettacolo dei sarcofagi di legno ricolmi di cadaveri accatastati e mutilati di giovani ragazze. Mi sono fatto prendere dallo sconforto e anche dalla paura, lo confesso. I volti delle ragazze erano sfigurati, graffiati con chiodi e attrezzi acuminati, di sicuro avevano subito atroci torture prima di morire. Riconobbi molte di quelle fanciulle. Si trattava di persone scomparse da alcuni giorni e al villaggio si era sparsa la voce che fossero state divorate da qualche belva feroce, oppure che i briganti le avessero rapite e poi uccise. Nessuno poteva immaginare che la belva omicida era proprio la contessa e che al suo castello si consumavano macabri riti di torture e uccisioni. Guardavo i corpi di quelle donne e i loro arti spezzati, i bulbi oculari che uscivano fuori dalle orbite, gli orecchi mozzati. Sentivo che il mio solo dovere era quello di denunciare un simile eccidio. Il mio predecessore Berthoni di sicuro era a conoscenza delle atrocità che si consumavano al castello ma non aveva mai fatto niente. Si era limitato a scrivere in latino le cronache di Csejthe, annotando decessi e sepolture, senza indagare sui motivi, senza chiedersi perché morivano così tante ragazze e soprattutto chi erano quelle sventurate. Berthoni era vecchio e non voleva fastidi, però ha commesso un peccato mortale e di sicuro tacendo su crimini tanto mostruosi non è morto in grazia di Dio. Io non potevo agire come il mio predecessore, però ho usato la cautela di denunciare i misfatti della contessa a Presburgo e non al sovrintendente di Bicse. Temevo che la Báthory intercettasse la mia lettera e se ciò fosse accaduto poteva farmela pagare molto cara. La contessa appena saputo della denuncia mi ha fatto arrestare, ma era troppo tardi e adesso ci troviamo davanti a una corte di giustizia che farà luce sulla verità e saprà punire con durezza quella belva sanguinaria e i suoi turpi complici.
Ho vergogna di ciò che sto per dire ma è la pura verità. La contessa ha ucciso indisturbata tante fanciulle perché si trattava soltanto di serve e povere contadine. Penso che il Dio in cui tutti noi crediamo è venuto sulla terra e si è fatto crocifiggere per difendere i deboli. Ecco perché ho trovato il coraggio di denunciare questo turpe abominio. Un nobile non può abusare del suo potere e non deve pensare che uccidere un povero non è peccato. Gli uomini non sono oggetti. Siamo tutti figli di Dio.

Il governatore di Presburgo
Castello di Thurzò a Bicse, 2 gennaio 1611

Mi chiamo György Thurzò e governo Presburgo. Sono io che ho raccolto la denuncia di padre Ponikenus e che ho verificato la terribile verità della sua lettera. Adesso c’è chi fantastica sulla contessa Erzsébet Báthory e dice che è un vampiro perché ha visto sullo stemma del suo casato un cane con tre lunghe zanne che disegnano una lettera E. Non è così. Levatevi dalla testa queste fandonie leggendarie. La contessa non beveva sangue di ragazze, come crede qualche accusatore, ma rapiva e uccideva fanciulle vergini per praticare la magia nera. Era stata Darvulia, la strega di corte, a farle credere che il sangue delle ragazzine conservasse la pelle giovane. Tra l’altro la contessa aveva esperimentato questo potere un giorno che punì duramente una serva. Una goccia del sangue della ragazza cadde sulla sua mano e in quel punto il colore bianco si modificò, tanto che la pelle divenne più rosea e fresca. Era di certo la sua mente malata che le faceva vedere cose tanto assurde. Erzsébet Báthory da quel giorno pretese che le venissero portate ragazze vergini da uccidere e derubare del loro sangue. La contessa faceva bagni caldi in una grande vasca ed era convinta che solo così avrebbe raggiunto l’immortalità fisica. La Báthory credeva che quel sangue avesse il potere di fermare il tempo e di mantenere la sua pelle giovane e fresca. Conservava il sangue delle fanciulle rapite e uccise dopo selvagge torture dentro grandi bacinelle che le serve riscaldavano e facevano affluire in una grande vasca. Purtroppo ho visto con i miei occhi le orribili attrezzature da bagno e i terribili strumenti di morte e di tortura che ho sequestrato e fatto distruggere. La contessa aveva fatto costruire una bambola metallica a orologeria irta di pugnali e una gabbia metallica imbottita di aculei e coltelli. Era dentro a questi attrezzi infernali che faceva rinchiudere e massacrare le vittime ignare. Erzsébet Báthory non organizzava da sola questi massacri, disponeva di una corte di accoliti che era un orribile bestiario di individui folli. Il suo servo prediletto lo potete vedere sul banco degli accusati, è un essere brutto e deforme di nome Ujivàr Jànos, pure se tutti lo hanno sempre chiamato Ficzkò. Il servo era un ragazzo del paese di Csejthe, gobbo e mezzo idiota, perfido nell’animo e succube della padrona, che lo aveva avuto in dono quando era piccolo e lo aveva cresciuto al seno della sua follia. Al castello Ficzkò si esibiva come nano acrobata e buffone di corte, ma crescendo divenne piuttosto forte e anche la sua cattiveria aumentò a dismisura. Il nano sadico era la mannaia perversa della contessa che si abbatteva sulle giovani fanciulle del paese. Ficzkò procurava le prelibate prede e le catturava con l’inganno, prometteva un lavoro al castello come inserviente o dama di compagnia, ogni scusa era buona. Le ragazze lo seguivano felici di poter guadagnare un po’ di denaro, non sapevano che al castello le attendeva una terribile sorpresa. Qui incontravano la spietata Jo Ilona, una donna dai lineamenti orribili che aveva il turpe compito di uccidere e dissanguare. Jo Ilona la vedete accanto a Ficzkò e potete giudicare dai tratti del volto la sua grande perfidia. Era la seconda complice della contessa, forse la più detestabile, di sicuro Jo Ilona è la più sadica e perfida donna che abbia mai conosciuto. Indossava un cappuccio nero di lana abbassato sugli occhi e sembrava un terribile boia. Non è finita qui. Accanto a lei operava Dorottya Szentes che tutti al castello chiamavano Dorkò, un’altra orribile donna forte come un mulo che legava le vittime e dava una mano per il massacro finale. Dorkò era un’esperta di magia nera e forse è stata anche lei a convincere la Báthory sulle proprietà del sangue. Pure questa orribile megera è sul banco degli imputati. Potete giudicare voi stessi lo sguardo diabolico dei suoi occhi neri. Tra gli accusati di questa corte degli orrori manca soltanto Erzsébet Báthory, la sanguinaria organizzatrice di tutto, la mente malata che ha sconvolto la pace del nostro borgo. La perfida contessa sostiene che una nobile non può farsi giudicare da un tribunale. Attende la fine del processo nelle stanze del suo tetro castello e rimugina sulla sua triste vita fatta di orrori, pure se non credo sia pentita per quello che ha fatto. Gli esseri diabolici non provano sentimenti, sono governati dal maligno e ogni loro azione è uno schiaffo contro Dio, uno sberleffo orribile alla giustizia. Sono sicuro che questo tribunale emetterà una sentenza esemplare contro Erzsébet Báthory e che non si farà intimorire dal suo alto lignaggio.

Ricordi di Erzsébet Báthory
Castello di Csejthe, 21 agosto 1614

La mia vita scorre come un fiume in piena nel vortice dei ricordi. Mio padre e mia madre erano due baroni protestanti e quando ero piccola si sono occupati poco di me. Mi lasciavano sempre insieme a servitori e istitutori, così io studiavo molto, dicevano che ero intelligente e pure i miei genitori si compiacevano nel sentirmi parlare bene latino, greco, tedesco e ungherese. Sono sempre stata malata, sin da bambina, questa è una croce che mi sono portata dietro per tutta la vita, l’epilessia mi prendeva improvvisa ed erano crisi convulsive violente che mi facevano soffrire. I compagni mi deridevano, quei maledetti non capivano che ero malata, che non c’era niente da ridere. Sono cresciuta solitaria. Non avevo bisogno di persone intorno che mi facessero soffrire. Non volevo compagni di giochi che ridessero delle mie sventure, gente debole e insulsa che un giorno avrei punito con durezza perché io ero nobile e destinata a comandare. Avrebbero capito chi ero una volta per tutte mentre si rimangiavano le loro risate e le offese una per una. Non ho avuto amici nella mia fanciullezza, me ne stavo da sola a osservare il cielo al tramonto quando si tingeva di rosso sangue e restavo estasiata a contemplare il sole che se ne andava di là dai monti. Giocavo con gli insetti, catturavo grilli, farfalle, formiche con le ali, coccinelle. Avevo un bestiario di piccoli insetti ed era così eccitante quando li giustiziavo dopo averli torturati. Mi inebriava staccare le ali delle formiche, togliere la polverina alle farfalle, spezzare le zampe ai grilli e vederli arrancare nella polvere. Giocavo pure con gli animali, la cosa che più amavo era catturare i gatti del castello che scuoiavo vivi dopo averli legati. Era troppo eccitante sentire i loro miagolii lamentosi e terrorizzati.
Sono cresciuta insieme a mio zio e a sua moglie. Avevo solo dieci anni quando lui ha cominciato a parlarmi di Satana e mi ha portato alle sedute dove si sacrificavano animali per il principe delle tenebre. Mio zio faceva parte di una setta di adoratori di Satana e io rimasi affascinata da uno spettacolo esaltante di riti demoniaci, dove il sangue che scorreva sull’altare era la prima regola. Alla stessa età ho visto ammazzare un gitano che aveva venduto il figlio ai turchi e fu uno spettacolo memorabile, perché mio zio lo fece cucire vivo nella pancia del suo cavallo. Dopo tutto il gitano aveva avuto la giusta punizione e fu davvero sublime vederlo morire tra atroci tormenti, mentre la bestia andava in decomposizione. Uno zingaro è carne da macello, poco più che un oggetto o un animale, e quando si comporta fuori dalle regole deve essere punito con ferocia. Pure mia zia Klara era satanista, ma io la ricordo soprattutto perché è stata lei a iniziarmi alle gioie dell’amore. Era lesbica, lo compresi quando avevo tredici anni e durante una riunione di satanisti cominciò a carezzarmi le gambe spingendo le mani vogliose verso il mio sesso acerbo. Stavano uccidendo una ragazza, l’avevano legata sul patibolo e il boia mascherato con un cappuccio marrone teneva in alto un coltello che l’avrebbe uccisa. Quando il grido della ragazza si levò acuto e sconvolse la stanza io sentivo la lingua di Klara che perlustrava il mio sesso. Ricordo che mi piacque molto. Il sangue che sgorgava sull’altare, la vita di una giovane donna che fuggiva dal corpo inerme e le carezze abili di mia zia composero una miscela esplosiva di piacere.
Mi piaceva molto assistere alle esecuzioni capitali che mio zio ordinava. Non me ne perdevo una. E lui era d’accordo. Osservavo morire i condannati con un taglio netto di mannaia o con una corda che stringeva la gola. Mi affascinavano le torture raffinate e le smorfie di terrore negli occhi supplicanti delle vittime.
“Per comandare occorre essere spietati e quando il popolo sbaglia ci vuole mano dura. La compassione è solo dei deboli” diceva.
Mi sono sposata che avevo appena quindici anni con il conte Ferencz Nàdasdy, un eroe della patria, uno che combatteva da anni per la libertà delle nostre terre. Sono venuta a vivere nel castello di Csejthe insieme a Ferencz, pure se lui era sempre in guerra contro i Turchi, non lo vedevo mai, e poi mica lo amavo, era stata la famiglia a volere le nozze, lui era molto più vecchio di me. Quando lui non c’era mi dovevo pur divertire, la mia bellezza era al massimo dello splendore, la mia sessualità era dirompente, non potevo certo aspettare che lui tornasse dalla guerra per fare l’amore. Divenni padrona del castello di Csejthe, dove organizzavo orge e festini, i miei amanti mi facevano dono di giocattoli erotici che venivano dall’Italia e animavano i nostri incontri. Una volta sono pure fuggita con un giovane nobile che tutti dicevano fosse uno stregone e un vampiro. Non era vero, però come amante era formidabile. Sono tornata al castello dopo un paio di mesi e mio marito mi ha accolta senza punirmi. Era così innamorato che da me accettava tutto.
Non ho mai sopportato le insubordinazioni e gli errori dei servi, ho imparato da mio zio che quando un sottoposto sbaglia va usata soltanto la frusta. E io per le mancanze più gravi avevo ideato verghe speciali fatte di ortiche pungenti. I servi disubbidienti li marchiavo a fuoco e ai bugiardi facevo strappare la lingua con le pinze. La sorte peggiore toccava ai ribelli che uccidevo con le mie mani dopo che avevo fatto massacrare il loro corpo a colpi di rasoio.
Un giorno mio marito scoprì che avevo denudato e legato a un albero del bosco una serva dopo averla cosparsa di miele. Aveva rubato venti denari ed era una giusta punizione farla divorare dagli animali, ma quello sciocco di Ferencz ne ebbe pietà e la liberò. Il giorno dopo però doveva partire per una delle tante guerre contro gli Ottomani e io feci arrestare di nuovo la serva, la denudai e ordinai che venisse bruciata lentamente per mezzo di monete arroventate. Avrebbe capito il suo errore tra atroci sofferenze.
Ho avuto cinque figli da quell’inetto di marito prima che se ne andasse per sempre. Mi ha lasciata sola in questo immenso castello dove ho visto morire due dei miei figli a causa di malattie incurabili. Però finalmente ero libera di fare quello che avevo sempre sognato, potevo comandare e punire chi lo meritava. Ho radunato maghi, alchimisti, streghe e fattucchiere e ho dato inizio a un periodo di torture e di flagellazioni. Mi piaceva troppo abbandonarmi all’estasi quando vedevo il sangue che sgorgava dalle ferite delle mie vittime. Gli amanti non mancavano e adesso che ero sola potevo ricevere chi volevo, sia di giorno che di notte. Potevo abbandonarmi tra le braccia di una bella fanciulla e assaporare il suo giovane sesso, come potevo passare intere giornate con gli stallieri o con i nobili dei vicini castelli. Ero la padrona indiscussa di Csejthe.
Le mie disgrazie sono cominciate quando ho deriso quella vecchia megera mentre tornavo con un amante da una gita a cavallo.
“Presto sarai come me, contessa!” Aveva gridato.
Parole terribili come un triste presagio che percuoteva la mia anima.
È stato da allora che l’ossessione di invecchiare si è impadronita di me. E non mi ha più lasciata.

Il governatore di Presburgo
Castello di Thurzò a Bicse, 2 gennaio 1611

Le accuse diventano più terribili a mano a mano che la follia della contessa si fa più grande. Erzsébet Báthory cominciò ad avere il terrore di invecchiare. Passava giornate intere davanti allo specchio, cambiava pettinatura più volte al giorno, pensava di poter fermare lo scorrere del tempo. Le streghe di cui si era circondata la convinsero che il sangue delle fanciulle vergini era un elisir di lunga vita capace di conservare per sempre la sua bellezza. Follia senza scampo. Pura follia criminale che si faceva largo in una mente malata.
Erzsébet abbinava rituali satanici ereditati dalle abitudini dello zio a orge sadiche, flagellava e torturava giovani donne, le spogliava, le dissanguava, versava il sangue in una grande vasca e subito dopo vi si immergeva. Darvulia era la strega più crudele di tutta la corte e proprio lei indusse la contessa a uccidere le ragazze e a praticare riti estremi di magia nera, attrezzando nei sotterranei del castello la camera di tortura che abbiamo ritrovato. Il bagno nel sangue delle vergini doveva preservare la giovinezza della contessa che, aiutata da Dorkò e Darvulia, torturava le vittime e infine le prosciugava del prezioso liquido vitale. La contessa Erzsébet Báthory con l’aiuto dei suoi folli complici ha seviziato e ucciso nelle segrete del castello più di seicento ragazze. Non solo plebee, tra l’altro. Negli ultimi tempi sono scomparse anche molte fanciulle di famiglie nobili e alcune di loro sono state ritrovare massacrate nei sotterranei. Secondo la strega Erzsi Majorova il sangue delle ragazze nobili aveva un potere maggiore per arrestare l’invecchiamento della pelle e garantire eterna bellezza. Pure questa megera dagli occhi terrificanti è nel banco degli imputati e anche contro di lei chiedo una pena esemplare.

Ricordi di Erzébet Báthory
Castello di Csejthe, 21 agosto 1614

Il mio solo errore è stato quello di ascoltare i consigli di Erzsi Majorova, la strega che era giunta al castello dopo la morte della vecchia Darvulia. Se avessi continuato a uccidere popolane e contadine nessuno mi avrebbe mai denunciato, neppure quel prete che durante il processo ha fatto tanto il moralista. A chi può interessare una contadina che viene messa a morte? Una campagnola al cospetto di una contessa è soltanto un oggetto e io che sono nobile posso distruggerlo quando voglio. Erzsi mi convinse che i bagni di sangue blu avrebbero avuto un potere maggiore nel conservare la freschezza della pelle. Ho accettato il rischio. Ne valeva la pena. Quel fottuto prete ha parlato al tribunale di una cosa che chiamano giustizia e di un Dio che si è fatto crocifiggere per i poveri. Che vada al diavolo, lui e i suoi poveri. La giustizia la facciamo noi e da sempre sono i nobili che l’amministrano. Pure lui con tutte le sue ipocrisie è uno di noi. Se non avessi ucciso ragazze di alto lignaggio nessuno mi avrebbe mai processato e adesso non sarei qui rinchiusa a vedermi invecchiare davanti a questo specchio inclemente. Che sia maledetto pure mio cugino György Thurzò, governatore di Presburgo, che ha dato ascolto a quel prete e ha indagato sui delitti. Ricordo ancora la notte che piombò di sorpresa al castello, scoprì una ragazza nel salone con gli abiti stracciati e il corpo pieno di graffiature e soprattutto vide le prigioniere nelle segrete della cripta. György Thurzò non aspettava che questo per impossessarsi delle mie terre, per lui accusarmi voleva dire aumentare il suo potere. La giustizia non c’entra niente con quello che mi hanno fatto. Mio cugino ha scoperto anche i cadaveri delle giovani donne sepolte dentro al castello e fuori delle mura. Mi hanno arrestata in una notte d’inverno, mentre la luna rifletteva la bellezza del mio volto e la fierezza del mio sguardo. Non ho voluto subire l’onta di un processo, sentire le accuse di mio cugino, di quel maledetto prete e di tutti i testimoni dei delitti. Non sono mai stata presente nel castello di Thurzò a Bicse, dove venti giudici e tredici testimoni hanno condannato Ilona Joo e Dorkò a essere bruciate vive con le dita strappate da pinze infuocate. Il mio fedele servo Ficzkò invece l’hanno decapitato e gettato sul rogo. Non potevano uccidere anche me. Sono una contessa e mio marito era un eroe, quel conte Nàdasdy che aveva combattuto i Turchi. Mi hanno condannata a morire sepolta viva nella mia camera del castello e solo una ferita nella parete comunica con l’esterno. E io non posso continuare a vedere quell’orribile specchio che riflette il passare del tempo, che mi fa contare le rughe sul mio volto giorno dopo giorno. Sono sempre di più e non le puoi fermare. Solo il sangue di una fanciulla vergine lo potrebbe. Solo un bagno rigeneratore. Ma non posso più fare niente di tutto questo e il terrore di vedermi vecchia come nella profezia di quella maledetta megera è troppo più grande della paura di morire. Non mi resta che una cosa da fare. C’è una fiala di potente veleno nel cassetto dello scrittoio, un veleno che simula un arresto cardiaco, che non lascia traccia. Adesso è il momento di usarla. Il servitore che verrà a lasciare il pranzo da quella feritoia non sentirà la mia voce e i miei passi. Nessuno piangerà la mia morte. Nessuno capirà ciò che è accaduto. Mi seppelliranno fuori terra consacrata, da peccatrice. Ma io avrò vinto la mia battaglia e le tristi parole della vecchia megera non si avvereranno. Nessuno saprà mai che la contessa Erzsébet Báthory si è uccisa per conservare in eterno la sua bellezza immortale.

Gordiano LupiL’AUTORE
Gordiano Lupi ( 1960) – tre volte presentato al Premio Strega – ha dedicato alla sua città: Lettere da Lontano, Piombino tra storia e leggenda, Cattive storie di provincia, Piombino leggendaria, Piombino a tavola, Alla ricerca della Piombino perduta, Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano, Piombino con gusto, Sogni e altiforni – Piombino Trani senza ritorno (con Cristina de Vita) oltre a un sacco di racconti e articoli di cui non è facile conservare traccia. Molti racconti piombinesi sono sul blog TUTTOPIOMBINO edito ogni domenica dal quotidiano telematico QUI NEWS VALDICORNIA. Si occupa di cultura cubana, traduce ispanici, scrive di cinema e pubblica monografie su registi e attori italiani. Sito Internet: ww.infol.it/lupi. E – mail: lupi@infol.it. Blog di cinema: La Cineteca di Caino(http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Blog di cultura cubana e letteratura: Ser Cultos para ser libres (http://gordianol.blogspot.it/)