Le visioni di Laura 2 – La villa dei lamenti di Gordiano Lupi
Torno a casa a bordo della mia auto e sono ancora una volta i ricordi a tenermi compagnia. Devo fuggire da quel vecchio casolare…
Voci che si rincorrono nei sotterranei. Alberi che stendono braccia di rami nella notte scura. Vento che fischia, mi dico. Rumori della notte che avanza. Casolari sperduti nella nebbia tra campi di grano e campagna sterminata. Ricordo tutto con angoscia…
Leggo sul giornale di oggi che vendono a buon prezzo un casolare in periferia, lontano dal mare, una casa da ristrutturare.
Ci sarà da spendere parecchio denaro per farne una villa… penso
Era il sogno di mio padre. A lui sarebbe piaciuta una casa in campagna.
“Voglio morire dove sono stato bambino” diceva.
Era nato nelle colline del Chianti. Costretto a vivere sul mare, a Porto Fabbrica, per mandare avanti un cantiere navale che aveva messo su a prezzo di fatica e rinunce. Lo ricordo come un uomo solo, triste e pensieroso, invecchiato nel ricordo della mamma. La mamma vestita di stoffa sottile è passata come un soffio di vento nella mia vita. Un tumore se la portò via che io e mia sorella eravamo appena bambine.
“Dobbiamo accettare il destino” diceva mio padre.
Io non capivo neppure cosa fosse il destino. Giocavo con Marina, credevo ancora alle fiabe e la mamma se ne andava per sempre.
“Un giorno ce ne andremo via di qui” proseguiva mio padre.
Lui odiava Porto Fabbrica e la vita di città, lo stress, le abitudini. Poi intorno c’erano solo cose che gli ricordavano la mamma ed era questa la cosa più difficile da accettare.
“Un giorno smetterò di lavorare e ce ne andremo in campagna. Compreremo un casolare e ne faremo una villa”.
Non so se lo diceva per darsi una speranza e per non pensare. Forse credeva davvero che un giorno sarebbe stato capace di farlo. Ma io lo sapevo che non era così. Lui non avrebbe mai abbandonato il cantiere navale e il suo lavoro. Erano la sua unica ragione di vita.
Adesso sei morto papà. Te ne sei andato via con i tuoi sogni mai realizzati. Hai visto morire mia sorella in un giorno d’inverno e mi sei stato vicino. Ma quella casa voglio comprarla lo stesso e devo darle il tuo nome. Mi hai lasciato tanti soldi con il lavoro di una vita e il cantiere è così ben avviato che va avanti anche da solo. C’è un direttore che pensa a tutto, a me basta fare solo qualche controllo, di tanto in tanto. Non devo lavorare per vivere. Grazie a te. Grazie a quel che mi hai lasciato. E allora non mi resta che un modo per onorare la tua memoria. Realizzare un sogno. Un tuo vecchio desiderio.
È solo per questo che sono venuta qui.
Perché i sogni diventassero realtà.
L’agente immobiliare mi dice che Villa Arcon è perfetta per me.
“È un casolare vecchio stile e non costa molto. Certo che ci sarà da lavorare e da spendere per rimetterlo in sesto”.
Un particolare che non mi interessa. Tempo e danaro non mancano. Realizzare il sogno di mio padre, invece è la sola cosa importante. Esco di casa in auto al mattino presto di un sabato d’inverno. Sola. Voglio assaporare la sensazione di attraversare la città mentre la vita si risveglia. Catturarne il fascino discreto dei semafori spenti e del salmastro sottile che si appiccica alla pelle e accompagna il rombo del motore. La mia vita è fatta di solitudine, di incontri fugaci, senza impegni. Non ho intenzione di promettere il futuro a un uomo, anche perché gli uomini che mi girano intorno vogliono soltanto il denaro che ha lasciato mio padre. Gli uomini non sono mai stati un problema, so dove trovarne quando ne ho voglia. Preferisco la solitudine e respirare il silenzio del mattino. Preferisco svegliarmi sola in una casa priva di doveri. Vivere è soltanto questo per me. Cogliere gli istanti. Almeno per ora. Marco è l’uomo che condivide il mio letto, di tanto in tanto, quando sono io a decidere che ho voglia di fare l’amore, ma non può influire sulla mia vita. So badare a me stessa.
Arrivo nelle campagne appena fuori Porto Fabbrica quando il sole comincia ad annaspare tra la nebbia. Percorro pochi chilometri e mi immergo in un mondo diverso, lontano dalla vita che corre, il silenzio rotto soltanto dal rintocco di un campanile, le strade che si animano lentamente, l’odore di caffè e di paste calde dai bar appena aperti. Le cose che mi piacciono. Quelle che sono venuta ad assaporare in questo mattino d’inverno. Scendo dall’auto e alzo il bavero del cappotto. Fa freddo. Parcheggio nei pressi di un vecchio ponte. Sotto vedo il fiumiciattolo che scorre lento e tranquillo. Mi lascio penetrare dal sapore consueto dell’aria umida del mattino e gocce di nebbia solida mi bagnano il viso. Il fiume è l’immagine di una vita che passa con lentezza. Mi sento padrona dell’orizzonte e di quel che la nebbia lascia intuire.
Tutto questo a mio padre sarebbe piaciuto, penso.
L’odore del caffè che proviene dal vicino bar si fa più intenso e mi distoglie dai pensieri. Il caffè per me è un vizio irrinunciabile. Ne consumo molto anche se il medico dice che fa male. Papà è morto d’infarto a sessant’anni e non poteva soffrire il caffè. La mamma se l’è portata via un cancro allo stomaco, nonostante facesse diete di ogni tipo e mangiasse soltanto cose sane.
I bar di campagna sono pieni di gente strana. Chiacchieroni. Sputasentenze. Tecnici di calcio. Persone che aspettano il primo forestiero per attaccare bottone. Di solito cerco di evitare personaggi simili. Oggi però mi serve uno di loro, uno che sappia tutto del posto, che conosca persino i casolari più sperduti. Devo chiedere informazioni su Villa Arcon. Seduta al tavolino osservo i clienti. Accanto a me c’è un tipo dall’età indefinibile, alto, capelli e barba rossiccia. Nello stesso tempo che bevo il mio caffé lui fa fuori tre campari.
“Mi sa dire dov’è Villa Arcon?” chiedo.
“Villa Arcon?” risponde lui meravigliato.
“Sì, Villa Arcon”.
“E cosa ci va a fare a Villa Arcon?”.
Il fatto che siano affari miei non lo sfiora neppure per un attimo. È fatta così la gente di campagna e se chiedi un’informazione devi sottostare a ogni loro curiosità.
“Ho un appuntamento con l’agenzia immobiliare per trattarne l’acquisto”.
“Oh, questa sì che è bella…” fa lui.
E si lascia andare a una risata sguaiata.
“Non vedo cosa ci sia da ridere se voglio comprare una casa”.
“Se Villa Arcon fosse una casa come tante avrebbe ragione lei…”
Il tipo comincia a incuriosirmi.
“Cosa c’è di particolare a Villa Arcon?” chiedo.
“Se mi offri un campari te lo dico” risponde.
Passa al tu. Ormai siamo in confidenza. Sta per rivelarmi una storia importante. Pago il campari e ci sediamo al tavolo. Lui se lo beve in un sorso. E sono quattro, penso. Comincia a raccontare.
“Villa Arcon qui la conoscono tutti come Villa dei lamenti e nessuno oserebbe avvicinarsi alle sue mura”.
“Perché?”.
“La storia è lunga e risale alla metà del milleseicento. Allora vi abitavano le quattro sorelle Arcon, le ultime proprietarie della villa. Villa dei lamenti da allora è disabitata”.
“Come mai?”.
“La famiglia Arcon era la più ricca e nobile del paese, però le quattro sorelle erano donne terribili”.
“In che senso?” chiedo sempre più incuriosita.
“Si diceva che fossero streghe. Cominciarono a sparire dei ragazzi nei pressi della villa e nessuno seppe più niente di loro. I corpi si volatilizzavano. Il paese fu preso dallo sgomento e un giorno la rabbia esplose con l’assedio alla villa. I popolani la misero a ferro e fuoco e catturarono le quattro sorelle, quindi le trascinarono nel sotterraneo e le torturano fino alla morte. È la sotto che le seppellirono. I corpi dei ragazzi scomparsi però non vennero mai ritrovati”.
“E con questo? È una storia di tanti anni fa…”.
“Sì, però i lamenti si sentono ancora. E non si sa se sono le grida delle streghe o delle loro vittime. In certi giorni nella villa si accendono fioche luci, la gente che passa di là racconta di aver udito strane risate, lugubri e agghiaccianti grida di terrore…”.
“Sono leggende. Soltanto leggende” concludo.
“Al tuo posto prenderei la macchina e me ne tornerei a casa”.
La storia è inquietante, però è una delle tante storie di streghe che si narrano attorno ai casolari abbandonati. Non c’è paese che non abbia la sua. Decido di pagare il conto e di lasciare il bar per andare a vedere da vicino la mia futura villa.
“Villa Arcon è proprio in fondo al fiume. Segui per la strada da dove sei venuta e non puoi sbagliare. Però non ci andrei” conclude.
Lo saluto con un sorriso.
“Non credo alle favole. Sono grande ormai” dico.
Riprendo la guida nella foschia di quel mattino d’inverno. L’appuntamento con l’agente immobiliare è fissato per la tarda mattinata. Dobbiamo visitare insieme il casolare. Quando lo raggiungo noto che è davvero in pessimo stato. Pareti cadenti, porte sgangherate, erbacce incolte, imposte divelte. A dar retta a quel che diceva il tizio del bar da secoli non vi abita nessuno. Però porte e finestre sono abbastanza moderne, sia pure in cattive condizioni, è evidente che qualcuno c’è stato in tempi recenti, magari di nascosto. Forse il casolare è stata residenza clandestina di qualche extracomunitario di passaggio. Ce ne sono tanti da queste parti e la cosa spiegherebbe le luci e i rumori. Chissà. Scendo dall’auto e mi avventuro tra la folta vegetazione. Una strada sterrata conduce alla porta d’ingresso e anche quella è una traccia che qualcuno vi ha abitato da poco.
Quel vecchio ubriacone ha detto un sacco di balle, penso.
“Entriamo che le mostro la casa. Farà un buon affare, mi creda” dice l’agente immobiliare.
“Certo che è ridotta molto male…” commento.
Mi trovo davanti un solido portone di legno con i pomelli in ferro battuto. Basta una spinta con il palmo della mano per aprirlo. Dentro pare una casa abbandonata da secoli. Ragnatele e muffa. Scheletri di vecchi mobili. Lampadari cadenti. Se qualcuno ha abitato nel casolare lo ha fatto senza toccare niente, utilizzandolo solo come rifugio. Un ampio salone fa da ingresso e una scalinata conduce ai piani superiori, mentre una porticina in fondo alla sala porta ai sotterranei.
“Vado a vedere di sotto” dico.
Chissà perché decido di aprire quella porta e scendere le scale che conducono alle zone più segrete del casolare. Forse per via del racconto dell’uomo del bar. Forse perché le cose misteriose mi hanno sempre affascinato. Comincio a scendere mentre assi di legno marcito fanno affondare i miei piedi e sento rumori inquietanti. Saranno dei gatti, penso. E continuo la discesa. Intorno c’è solo buio e silenzio e i rumori si fanno sempre più vicini a ogni scalino che scendo. Quei rumori come lamenti di donne, come sussurri di vento. Che cosa sono? Comincio ad avere un po’ di paura. Ripenso alla leggenda delle quattro sorelle Arcon e alle parole dell’uomo. Nel sotterraneo c’è la loro tomba, ha detto. E i lamenti vengono proprio da là.
Gatti, sono solo degli stupidi gatti, penso per farmi coraggio.
Questa può essere la mia futura casa, la villa che mio padre avrebbe sempre voluto per sé. Sono qui per decidere se comprarla e devo esplorare anche quel sotterraneo.
Le streghe non esistono – penso – Sono tutte leggende.
Completo la discesa. Arrivo in uno scantinato buio e freddo, intorno c’è soltanto umidità e muffa. Ragnatele pendono dal soffitto di travi e ostacolano il mio cammino. E i lamenti si fanno ancora più forti. Ma forse sono soltanto io che li sento. È la mia immaginazione.
A Villa dei lamenti ci sono le streghe, mi ripete una voce.
Scappa finché sei in tempo, insiste.
Io invece vado avanti. Ho paura ma vado avanti.
Ed è in quel preciso momento che vengo folgorata da una visione. Immagini del passato si fanno concrete e reali al mio passaggio. Quella sorta di maledizione che mi è rimasta addosso dopo la morte di mia sorella permette ai morti di impossessarsi del mio corpo e di mostrarmi le loro sofferenze. Appaiono due occhi verdi di un uomo con il volto semicoperto da un passamontagna e sento un profumo intenso di cloroformio. Sudo freddo e mi volto spaventata per distogliere lo sguardo da uno spettacolo orribile che non vorrei vedere. So che non è possibile fuggire al mio destino. Accade di nuovo. Non posso evitarlo. Come davanti al corpo senza vita di Marina, pure se in quella casa ci siamo soltanto io e l’agente immobiliare. La visione diventa parte di me. Mi vedo legata a una sedia accanto all’uomo con il passamontagna marrone che copre il suo volto. Sento dentro il mio corpo tutto l’orrore subito dalla vittima.
“Per pietà, lasciami andare” mormora la ragazza.
Il suo aguzzino brandisce un coltellaccio e con quello tagliuzza il corpo nudo della giovane donna. Ho paura di quel che vedo. So che non sono fantasie ma immagini reali che vengono dal passato, cose turpi accadute in quella casa.
Salgo trafelata le scale e torno al piano di sopra.
“Ho bisogno di un bicchiere d’acqua” dico in preda all’agitazione.
“Cosa ha visto che l’ha spaventata?” chiede l’agente preoccupato.
Non rispondo. Non posso dire a uno sconosciuto che sento nel mio corpo l’orrore delle cose accadute. Bevo a piccoli sorsi e continuo a vagare per la casa. L’agente è accanto a me. Entro nella sala e d’un tratto mi vedo nuda e legata al pianoforte con robuste corde. Accanto c’è il killer con il passamontagna che affonda il coltellaccio nel mio petto e lo spinge verso la gola. Subisco nel mio corpo il dolore della giovane donna e soffro per lei quando sento le mie carni dilaniate dalla lama. Vedo il killer mentre solleva appena il passamontagna per sfiorare con un bacio le labbra fredde della ragazza squartata. Sento il contatto con il suo alito disgustoso, provo dolore e ribrezzo. Sono inorridita ma non posso parlare. Adesso so che in quella villa sono accaduti fatti orribili negli ultimi giorni. Lo sento dalla presenza delle vittime e dal dolore intenso che ogni stanza trasmette al mio corpo.
“Prima di decidere vorrei vedere questa casa da sola” dico.
“Va bene. Le lascio le chiavi. Ci vediamo domani per concludere” risponde l’agente.
Saluto l’uomo e resto sola nella villa. Quello che voglio fare è perlustrare ogni stanza, anche se il terrore non mi abbandona. Non è facile restare calma dopo le atrocità che ho visto. Il folle individuo che ha ucciso quelle ragazze potrebbe tornare perché quella casa abbandonata è stata il suo rifugio. Là dentro ha seviziato, massacrato e lasciato la sua tragica impronta. Non può stare molto tempo lontano da quelle mura che odorano ancora di morte e della sua pazzia.
Passo di stanza in stanza, circospetta. Nella cucina assisto a una nuova orribile scena. Vedo me stessa nei panni di una giovane donna massacrata dall’uomo con il passamontagna che seziona il cadavere a colpi di mannaia. Riesco soltanto a scorgere per un attimo i suoi penetranti occhi verdi nel silenzio glaciale della casa abbandonata. È la mia ultima visione mentre mi aggiro tra mobili polverosi che trasmettono sensazioni di paura e di angoscia. Per oggi ne ho abbastanza. Esco da quella casa e cerco un posto dove passare la notte. Non ho portato bagagli perché non prevedevo di trattenermi fuori Porto Fabbrica. Devo riposare e riprendermi dalle emozioni. Domani penserò al da farsi. Prendo una camera in un Motel frequentato solo da agenti di commercio e camionisti, l’unico posto che trovo in quel paese di campagna. Non è facile prendere sonno in compagnia dei ricordi. Quando mi addormento sogno mia sorella Marina e siamo ancora due bambine che giocano con le bambole mentre nostro padre ci osserva sorridendo. Ma il suo sorriso diventa prima una smorfia di dolore, poi un pianto e infine un ghigno crudele. Mi risveglio alle prime luci del mattino con il sole che penetra nella stanza e mi fa uscire dal letto dove sono rintanata tra le coperte per fuggire ai ricordi. Mio padre è morto tanto tempo fa, ormai. Mi è stato molto vicino quando è morta mia sorella. Non ha capito come ho potuto scoprire l’assassino di Marina e non ha mai chiesto niente sul mio potere. Lui era un uomo che credeva soltanto alle cose che vedeva e non avrebbe mai accettato una spiegazione così surreale. Io stessa fatico a capire…
Il giorno dopo decido che la sola cosa da fare è andare alla polizia. C’è un commissariato in paese, vicino al bar dove ho incontrato il vecchio ubriacone che raccontava assurde storie di streghe. Altro che leggende. L’orrore che ho visto fa parte del presente…
Mi riceve un ispettore cortese, un uomo alto, baffi e capelli neri, occhiali scuri sempre calati sul volto. Deve avere qualche problema alla vista perché nell’ufficio non filtrano i raggi del sole. Comprende che sono nervosa da come gesticolo e mi muovo. Mi tranquillizza e mi fa mettere a sedere su un divano. Racconto di getto tutto l’orrore che ho visto, i particolari delle vittime, l’uomo con il passamontagna e i modi terribili con cui ho visto morire le ragazze in quel casolare.
“Ispettore, sono una sensitiva. Sento su di me gli orrori che accadono agli altri da quando uccisero la mia sorella gemella…” dico.
“È davvero incredibile. Ha raccontato dei particolari che solo i poliziotti della scientifica possono sapere. Stiamo cercando quel pazzo da mesi…” risponde il poliziotto.
Usciamo dalla centrale per andare di nuovo a Villa Arcon. Questa volta non sono da sola, però. Accanto a me c’è l’ispettore Di Salvo.
“In questi giorni è scomparsa anche la figlia del sindaco. Abbiamo paura che l’abbia rapita lo stesso killer…” dice.
Mentre entriamo nella villa squilla il mio telefono cellulare.
All’altro capo c’è Marco, il mio ragazzo.
“Laura, quando torni?”
“Marco, non rompere. Sai che ho da fare…”
“Sono due giorni che ti chiamo a casa ma non ti trovo mai”.
“Ti ho detto che devo concludere l’affare della villa in campagna”.
“Vengo da te. Ho voglia di vederti”.
“Nemmeno per idea! Non ti provare…”
Marco non si rassegna.
“Devo sapere cosa stai facendo. Questa cosa non mi convince…”
Stacco la comunicazione.
Marco è troppo geloso e io non sopporto di essere controllata in questo modo. Appena torno a casa lo mollo.
Scendo nelle cantine della villa. Sotterranei bui e cadenti che hanno bisogno di essere restaurati. Mentre sfioro un mobile vicino a una parete ammuffita mi sento assalire da una nuova orribile visione. Sono io quella ragazza legata a un tavolo e accanto c’è l’uomo con il passamontagna che agita un coltellaccio per disegnare sul mio corpo cerchi concentrici a forma di bersaglio.
Il killer parla con voce roca.
“Ti odio, mamma. Da piccolo mi portavi a casa dei tuoi amanti e non pensavi a me. Per questo ti ho uccisa. Non ti preoccupavi per quello che facevo”.
“Ti prego. Non uccidermi. Non sono tua madre…” supplico.
Vedo il mio volto angosciato riflesso negli occhi della vittima. Sento tutta la sua sofferenza dentro le mie carni. La ragazza fotografa una smorfia di terrore sulle labbra e i suoi occhi sono pupille dilatate nella notte scura. Ha capito che deve morire nel modo più atroce.
“Non dovevi pensare agli altri più che alla tua famiglia” conclude.
L’uomo con il passamontagna solleva il coltellaccio, lo fa cadere sul petto della vittima, apre con forza il corpo dal collo alla vulva, fa uscire le viscere e le palpa con voluttà. Riesco a capire che quel pazzo gode alla vista delle interiora della donna e raggiunge il culmine della passione inserendo le mani nel corpo sezionato.
Non riesco a sopportare l’orrore di un massacro che rivivo nella mia carne. Corro spaventata lungo le scale che portano al piano superiore.
“Odia le donne. Per questo le uccide…” mormoro.
L’ispettore però non mi segue. Rimane nella cantina e impugna la pistola. Lo vedo mentre salgo le scale e mi fermo per capire quello che sta accadendo. Deve aver sentito dei rumori sospetti. Mi dico che forse ha scoperto il rifugio dove il mostro nasconde i corpi delle vittime. Alla fine vedo un uomo affacciato al lucernario che tenta di entrare in cantina. Ecco cosa ha insospettito l’ispettore. Il poliziotto non può sapere che è soltanto il mio agente immobiliare.
“Cosa state facendo?” grida dalla finestra che è riuscito ad aprire.
Il rumore della sua voce fa sussultare il poliziotto. Non faccio in tempo a gridare che l’ispettore ha già impugnato la pistola e preso la mira. Un proiettile in fronte fredda l’agente immobiliare che cade dentro la stanza riverso su se stesso. Assisto a quella scena come pietrificata. Scendo di nuovo in cantina e mi avvicino all’ispettore.
“Lo ha ucciso…” mormoro.
“Si calmi. Dovevo farlo” risponde.
Il poliziotto mi avvicina una sedia e cerca di tranquillizzarmi, ma dentro questa maledetta villa me ne stanno accadendo troppe per essere serena. Mi siedo e sto ancora pensando a quelle giovani ragazze torturate, a un uomo ucciso per errore da un poliziotto frettoloso, alla villa dei lamenti che non è soltanto una leggenda, quando sento scattare un paio di manette ai polsi.
“Cosa sta facendo?” chiedo.
“La sola cosa che mi resta da fare” risponde.
L’ispettore afferra una robusta corda, mi lega forte alla sedia e alla fine si toglie dal volto gli occhiali scuri.
“I tuoi occhi…” mormoro inorridita.
“Hai capito, finalmente”.
Un misto di paura e angoscia si impadroniscono di me.
I suoi occhi verdi penetranti. Sono gli occhi del mostro.
“Sei la prima a vedere il mio volto, ma non ti servirà…”
L’ispettore è l’uomo con il passamontagna, il killer psicopatico che uccide le donne dentro questa villa degli orrori. E io sono nelle sue mani. Non posso fare niente per liberarmi. Il terrore delle vittime indifese che ho sentito toccando mobili e oggetti, diventa orrore reale che vivo sulla mia pelle.
“Ti ho desiderata sin dal primo momento. Tu comprendi le mie emozioni perché hai visto i miei capolavori. Sai tutto di me…”
Vedo quel folle allontanarsi e subito dopo tornare verso di me impugnando un coltello da cucina che teneva nascosto in un angolo della cantina. Sudo freddo per la paura. So che vuole uccidermi come ha fatto con tutte le altre donne che ha macellato in questa stanza.
“Peccato che tu debba morire…” mormora.
Lo vedo avvicinarsi a passi lenti con un sorriso da folle dipinto negli occhi verdi. Le corde mi stringono forte e mi segano i polsi. Impossibile liberarsi. Il coltello si avvicina al mio petto, fa saltare i bottoni della camicetta e fa uscire fuori i seni che accarezza con voluttà. La lama incide piccoli segni sulle mammelle e fa uscire rivoli di sangue che colano lungo il vestito strappato. Il killer è in preda a un’estasi senza fine. Sta per uccidere ma lo vuole fare gustando la mia fine attimo dopo attimo. All’improvviso sento dei rumori alle spalle. Vedo cadere a terra il mio aguzzino con una smorfia di dolore. Tiene le mani sul petto e dal suo corpo esce sangue. Un colpo di pistola ha freddato un’espressione terminale di follia. Vedo Marco sulle scale della cantina con una pistola in pugno ancora fumante. Mi ha salvato la sua gelosia, la sua brama di vedermi…
“Laura, dobbiamo avvisare la polizia!” grida.
Scioglie i nodi che mi tengono legata. Prende le chiavi delle manette dalla cintura del poliziotto e mi libera. Non ho mai sentito di amare Marco così tanto come in questo momento. L’ho sempre utilizzato come un ragazzo con cui fare l’amore quando ne avevo voglia. Pensavo che fosse troppo geloso per me. Se non fosse stato per lui adesso sarei carne da macello per il coltello di quel folle poliziotto.
Scappiamo insieme lungo la scala della cantina ma è proprio quando arriviamo in cima che un nuovo colpo di pistola percuote l’aria. Marco si accascia a terra.
“Marco!” grido.
Per lui non c’è niente da fare. Il suo corpo privo di vita rotola in fondo alle scale. Il killer non era ancora morto. Si è vendicato nell’ultimo istante di vita. Adesso lo vedo cadere sopra la sua pistola e il cadavere di Marco finisce proprio accanto a lui sul pavimento della cantina.
Povero Marco. Lui mi amava e io non l’ho mai capito. Ha dato la vita per me che lo trattavo solo come una delle mie conquiste.
Esco da quella casa degli orrori. Villa dei lamenti adesso ha una vera leggenda da raccontare, oltre le favole dei vecchi ubriaconi di paese. Purtroppo quando arriva la polizia non c’è più nessuno da arrestare e da salvare. Rimane solo la processione di medici legali e di poliziotti della scientifica che riesumano i corpi e studiano la scena del crimine. In una stanza della cantina trovano pure la figlia del sindaco, massacrata come le altre, uccisa e sezionata a colpi di mannaia dalla follia di un maniaco. Tutto questo non mi riguarda. Ho già vissuto la mia dose di orrore e so bene come quel criminale uccideva le vittime.
Torno verso Porto Fabbrica a bordo della mia auto e adesso ho un altro morto da piangere nella solitudine della mia vita. Non avrei mai potuto comprare quella casa. Troppi ricordi tristi. Troppo orrore trasmettevano gli sguardi di quelle ragazze morte che sentivo dentro alle mie pupille. Gli occhi verdi di quel folle ispettore mi avrebbero torturato l’anima insieme al ricordo di Marina. E poi c’era Marco, un uomo che era stato capace di dare la sua vita per me che non lo avevo mai amato. La mia casa solitaria resta un porto in mezzo alle scogliere che vedo in lontananza mentre guido nella notte. Porto Fabbrica è la città dei miei ricordi di bambina, dove volano gabbiani angosciati nelle giornate di scirocco e subito dopo un soffio di maestrale spazza via nubi e pensieri. Questa è la casa che mio padre ha costruito davanti a un’isola che si specchia nel mare di cristallo ed è il mio solo posto per vivere.
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L’AUTORE
Gordiano Lupi ( 1960) – tre volte presentato al Premio Strega – ha dedicato alla sua città: Lettere da Lontano, Piombino tra storia e leggenda, Cattive storie di provincia, Piombino leggendaria, Piombino a tavola, Alla ricerca della Piombino perduta, Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano, Piombino con gusto, Sogni e altiforni – Piombino Trani senza ritorno (con Cristina de Vita) oltre a un sacco di racconti e articoli di cui non è facile conservare traccia. Molti racconti piombinesi sono sul blog TUTTOPIOMBINO edito ogni domenica dal quotidiano telematico QUI NEWS VALDICORNIA. Si occupa di cultura cubana, traduce ispanici, scrive di cinema e pubblica monografie su registi e attori italiani. Sito Internet: ww.infol.it/lupi. E – mail: lupi@infol.it. Blog di cinema: La Cineteca di Caino(http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Blog di cultura cubana e letteratura: Ser Cultos para ser libres (http://gordianol.blogspot.it/)