Abitavo a Gonaїves all’epoca dei fatti, una città di mare, un porto del Golfo della Gonâve aperto sull’Oceano Atlantico e ai traffici delle Antille. Per me era soltanto un porto di miseria, uno dei tanti di quest’isola disperata. La mia casa era in campagna, vicino alle foreste tropicali che si estendono ai piedi dei monti e dove scorre impetuoso l’Artibonite. Vivevo con mia moglie Marie e insieme tiravamo avanti coltivando la terra: cereali, manioca e un pugno di riso erano il nostro pranzo quotidiano. Adesso vivo a Port-au-Prince, centinaia di chilometri da dove sono nato, dalla terra dei miei avi. Sono rimasto solo e tutto quel che è accaduto mi pare un incubo, un sogno assurdo. Spero di svegliarmi, un giorno o l’altro, e di trovare ancora Marie accanto che mi dice: “Va tutto bene, caro. Siamo ancora insieme, nonostante tutto”. Quanto amavo Marie! E quanto mi manca in questa città dove incontro gente che passa e non si cura di ricambiare un saluto. Non conosco nessuno a Port-au-Prince. Nessuno mi conosce.
E forse è meglio così, dopo tutto.
Sono scappato lontano. In fuga dai ricordi che impietosi continuano a tormentarmi. Ho cercato di lasciare alle spalle un terribile passato, una storia che torna prepotente alla memoria. Una storia che non posso neppure raccontare perché mi prenderebbero per folle.
E allora, quando la bestia è lontana e non mi assale, prendo la penna e scrivo. Scrivo per ricordare a me stesso che tutto quel che è successo è soltanto la verità. La pura e semplice verità.

Cominciarono a morire bambini a Gonaїves e nessuno sapeva spiegare perché. Un terribile morbo, dicevano i medici. Un’epidemia, ribadiva il governo. Vaccinate i bambini, non esponeteli a rischi di contagio, non frequentate ambienti malsani e sconosciuti. Raccomandazioni inutili. Da che cosa dovevamo vaccinare i nostri bambini? Quali erano gli ambienti malsani? Nessuno sapeva quale fosse il male da prevenire. Nessuno. Restavano solo piccole salme nei letti ancora caldi, come se uno spirito maligno di notte succhiasse loro il sangue e ne rapisse lo spirito vitale. La disperazione si leggeva negli occhi della gente ed erano in molti a rifugiarsi nell’aiuto delle cerimonie vudù e dei riti magici. C’era chi sussurrava che tutto dipendesse da un loup-garou, uno di quegli strani esseri delle leggende che durante la notte si trasformano in bestie orrende e seminano il terrore tra la gente.
“Il loup-garou si ciba con il sangue dei bambini. Cresce con il loro spirito vitale”, dicevano gli stregoni.
Io e Marie non avevamo bambini, per fortuna. Eravamo così poveri che solo pensare a un figlio sarebbe stata pura follia. Lo avremmo voluto appena sposati, ma per fortuna non venne. Ad Haiti tanti ne uccide la fame e quel male qui c’è sempre stato.
“Lo vedi che è stato meglio così. Sembra un segno del destino”, le dicevo.
“Chi lo sa? Forse tutto avrebbe potuto essere diverso”, rispondeva lei.
Diverso cosa? Pensavo io. Il destino non si cambia di certo. Tutto è scritto in un certo modo, da sempre. La sua strana religione invece la pensava diversamente. Lei provava a spiegarmelo ma io non capivo.
“Il futuro dipende dalle nostre azioni. Tutto dipende da noi”, diceva.
Marie soffriva la mancanza di un figlio e quella brutta faccenda dei bambini che morivano pareva averla sconvolta. Frequentava le cerimonie vudù e partecipava a riti magici. Io non avevo niente in contrario, anche se non avevo mai creduto a quelle cose.
“Stiamo cercando di fare qualcosa perché non muoiano più bambini”, diceva.
“Pensate di risolvere il problema con i riti magici?”, rispondevo.
“Tu non sai che potere può avere il vudù. Non te ne rendi conto”.
“Non ci ho mai creduto, Marie. Non comincerò certo adesso”.
Lei andava da Terese, una vicina che riuniva gruppi di fedeli per invocare gli spiriti dei morti. Passava fuori buona parte della serata e spesso si tratteneva anche la notte. Quando rientrava da quelle sedute faceva discorsi senza senso, cadeva in una specie di trance e restava con lo sguardo perso nel vuoto. Era un po’ di tempo che succedeva e io non capivo cosa avesse.
“Devo fare qualcosa”, disse una sera.
“Ma cosa puoi fare?”, rispondevo.
“Terese ha detto che se intensifichiamo le sedute sconfiggeremo la maledizione”.
“Credi che possa bastare? Neppure la scienza comprende…”
“Non è cosa da scienziati, Paul. Cosa può fare la scienza contro un loup-garou? Solo i riti vudù possono scacciarlo via per sempre. Dobbiamo allontanare la maledizione dal corpo del posseduto. Lui sa di averla addosso, però da solo non può liberarsene”.
“Come puoi credere a queste sciocchezze? Un loup-garou! Sono favole buone per spaventare i bambini…”.
“Non sono favole, Paul. Ne so più di te. Credimi”.
Non risposi. Ero preoccupato per lei e per la sua salute che mi sembrava minacciata da quella assidua frequentazione della casa di Terese. Fu così che decisi di spiarla. Volevo capire che cosa facevano a quelle maledette riunioni. Volevo sapere. Ne avevo ben il diritto. Non era normale che uscisse da sola di notte e che tornasse a casa sempre più tardi. E poi mi ero accorto che dopo cena, poco prima che lei uscisse, mi addormentavo troppo facilmente. Lei mi portava sempre un infuso dolciastro che profumava d’incenso. Diceva che serviva per farmi dormire meglio.
Una sera decisi di non berlo.
Feci cadere il contenuto della tazza su una pianta, mentre lei era in cucina e stava lavando i piatti.
“Vai a riposare che io mi preparo per uscire”, disse appena ebbe finito.
L’assecondai. Dopo averla salutata andai a coricarmi e dopo poco mi finsi addormentato. Avevo deciso che l’avrei seguita, controllando cosa faceva da quella maledetta strega. L’atteggiamento di Marie non mi convinceva.
“Il sonnifero ha fatto effetto”, mormorò affacciandosi in camera.
Non poteva sospettare quello che era accaduto.
La vidi sollevare alcune assi di legno sotto al tavolo della sala e prendere una bottiglia con uno strano liquido di colore rosso. Non sapevo che ci fosse un nascondiglio sotto il pavimento e non avevo mai visto neppure quel liquido. Pareva vino, ma il colore era molto più intenso. Rimasi allibito quando vidi Marie spogliarsi completamente e cospargersi il corpo con quel liquido.
La sorpresa fu ancora più grande quando vidi che la pelle le scivolava via dal corpo. La pelle si staccò come fosse un abito da cambiare e lei rimase in un aspetto orrendo tutta fasci muscolari, vene e arterie.
Marie continuò la sua trasformazione in quell’essere mostruoso mentre io tremavo di paura sotto le lenzuola fingendo di dormire. Spiavo con un occhio soltanto, cercando di non farmi vedere. La vidi posare la pelle umana dentro la giara con l’acqua che tenevamo nell’angolo della cucina. Fu soltanto allora che comparvero fiamme sotto le ascelle e sulla schiena due ali di pipistrello. Ricordai come in un flash back surreale la descrizione del loup-garou che faceva la nonna quando leggeva quella terribile fiaba.
Poi quel mostro prese il volo. Scappò via dal soffitto di quella nostra casa di campagna e si volatilizzò passando per il camino.
Non riuscivo a credere a ciò che avevo visto. Pensavo di vivere un incubo e speravo che presto mi sarei risvegliato.
Rimasi a lungo impietrito dalla paura. Non riuscivo neppure a sollevare le coperte sotto le quali mi ero finto addormentato. Poi decisi di alzarmi. Dovevo fare qualcosa. Ma cosa? Come potevo impedire che Marie si trasformasse di nuovo? Cominciai a vagare per la casa con la testa tormentata da mille pensieri. Mi avvicinai alla giara della cucina. La pelle. Sì, là dentro c’era la pelle di Marie. La presi tra le mani e ancora non so spiegare come feci a resistere a quel contatto viscido e untuoso, a quel terrore che mi trasmetteva per tutto il corpo. Ricordo che vomitai, che tremavo come un bambino impaurito la prima notte che lo costringono a dormire da solo, che per poco non persi i sensi dalla paura. Mi vennero alla memoria tutte le atrocità che aveva commesso quella bestia immonda, quel loup-garou che non credevo potesse esistere e che invece avevo ospitato tra le mura della mia casa per tanti anni. Pensai con terrore a quello che ancora poteva accadere e agli occhi spenti dei bambini che non si svegliavano dal sonno della notte. Pensai anche a Marie e a quello che avrebbe potuto fare se avesse sospettato d’essere stata scoperta. E furono ancora le storie della nonna a venirmi alla mente, quelle storie terribili e assurde che non facevano dormire.
“Il loup-garou deve uccidere, è assetato di sangue, conosce la sua maledizione ma non può farci niente”, raccontava.
Ero io che dovevo liberare Marie. Nessun altro poteva farlo.
E c’era soltanto un modo.
“Una camicia di fuoco lo divorerà tra atroci tormenti…”, continuava.
La pelle. L’unico modo di uscire da quella folle storia era la pelle che tenevo tra le mani. La distesi per terra e cominciai a rovistare tra le cose della cucina. Trovai del sale e del pepe rosso e fu con quelle spezie che cosparsi la pelle, poi aggiunsi un po’ ovunque il limone, strizzandolo e spalmandolo. Lasciai che la pelle seccasse e riposi tutto di nuovo nella vecchia giara.
Brividi di paura mi scorrevano per il corpo. Non sapevo se lo stratagemma avrebbe funzionato. Non avevo idea di cosa potesse accadere. Dopo tutto era soltanto una vecchia favola.
Tornai a letto, però non riuscii a dormire.
Attendevo il rientro della bestia.
Ogni minimo rumore mi faceva sussultare. Rami che si muovevano nella notte, uccelli notturni che sbattevano le ali, lugubri canti di civette e gracidare di rane da stagni lontani. Erano le tre del mattino quando giunse il rumore di lei che scendeva dal tetto. Fu l’ultima volta che la vidi. Stanca, spossata e triste. La ricordo così, con le unghie e la bocca sporche di sangue e lacrime che scorrevano su ciò che restava del volto. Si affacciò alla porta di camera per essere sicura che dormissi.
Povera Marie, adesso rimpiango quello che le ho fatto, perché lei non voleva, ne sono sicuro. Le era così buona, povera la mia Marie.
La ricordo ancora avvicinarsi alla pelle e tentare di indossarla.
Sento quelle grida di dolore così strazianti. Le sento impresse nel cuore come in quella maledetta notte. E ne soffro. Ancora oggi ne soffro. Lei era un mostro assassino, però era la mia Marie. L’avevo così tanto amata che adesso dimenticare è impossibile. Marie non riuscì a indossare la sua pelle umana. Non ce la fece. La pelle, cosparsa di spezie e limone, era diventata urticante e bastava il contatto con la carne per provocarle atroci dolori. Lei gridava e io soffrivo ma non potevo far niente. Sentivo i suoi richiami bestiali correre dietro al vento della notte. La sentivo piangere e urlare di disperazione. Fu così per molto. Non so come feci a non alzarmi per consolarla e aiutarla. Non so come riuscii a resistere a quelle grida d’aiuto.
La mia Marie se ne andava.
Io l’avevo uccisa e nessuno me l’avrebbe più restituita.

E’ per questo che sono scappato da Gonaїves.
Troppi ricordi. Troppe paure.
Non volevo più avere impressa negli occhi la scena di lei con le carni scoperte che stringeva la pelle tra le mani e cercava di indossarla. Mi faceva male soltanto il ricordo di quelle grida disperate.
Perché adesso so che non aveva colpa, povera Marie. Lei era soltanto una vittima.
Credevo che fuggire lontano potesse servire. Lo credevo, ma è stato tutto inutile. Il rimorso mi ha perseguitato. E non soltanto il rimorso.
La nonna diceva altre cose alla fine della storia, diceva che quando un loup-garou muore trasmette il suo male, che la tara passa di corpo in corpo con il semplice contatto fisico.
Perché non l’ho ricordato allora?
Maledette favole. E io che non ci volevo credere.
Adesso che anche a Port-au-Prince muoiono bambini comprendo la sofferenza di Marie e vorrei che fosse di nuovo qui con me.
Lei mi capirebbe almeno. Lei soltanto potrebbe farlo.
Quando è accaduto la prima volta è stato terribile.
La pelle si è staccata dal corpo e ho cominciato a volare.
La notte avvolgeva i miei incubi con un mantello di lacrime.
E’ stato allora che credo di averla rivista.
Marie. Il mio unico grande amore.
Di nuovo abbracciati, come in una notte di tanti anni fa.

L’AUTORE
Gordiano Lupi (Piombino, 1960) è scrittore, traduttore di autori cubani ed editore con Il Foglio Edizioni. Scrive opere di narrativa e saggi sul cinema italiano.
Tra le sue opere di narrativa segnaliamo  Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino (Acar, 2014), Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano (Historica, 2016), Sogni e altiforni – Piombino Trani senza ritorno (con Cristina De vita – Acar, 2018), presentato al Premio Strega, Fame. Una terribile eredità (Perdisa, 2009 – Il Foglio, 2015 e 2024), Giallo Piombino (Il Foglio, 2024).
Tra le opere numerose di saggistica segnaliamo: Il cittadino si ribella: il cinema di Enzo G. Castellari -in collaborazione con Fabio Zanello (Profondo Rosso, 2006), Filmare la morte – Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci (Il Foglio 2006), Sexy made in Italy – le regine del cinema erotico degli anni Settanta (Profondo Rosso, 2007), Fellini – A cinema greatmaster (Mediane, 2008), Storia del cinema Horror Italiano vol. 1, 2, 3, 4 (Il foglio 2011, 2012, 2013), Il cinema di Gloria Guida (Il Foglio, 2015), Tutto Avati (con Michele Bergantin, Il Foglio 2018).
Nel 2024 ha ricevuto il premio alla carriera nell’ambito del Premio Internazionale di Arte Letteraria Omaggio a Pasolini

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