Il colore venuto dallo spazio, di Richard Stanley

Il colore venuto dallo spazio (Color Out of Space) di Richard Stanley (USA/2019)
Durata: 111′ Genere: Orrore, Fantascienza

Visualizzare cinematograficamente gli incubi inimmaginabili di Howard P. Lovecraft è impresa ardua da sempre. Tanto è vero che quasi tutte le produzioni che in passato ci hanno provato, si sono tenute a distanza di sicurezza dalle allucinate vicende narrate dallo scrittore di Providence, preferendo soltanto ispirarvisi. Nella maggior parte dei casi, insomma, i film realizzati da Lovecraft risultano “liberamente tratti”. Il regista sudafricano Richard Stanley ha invece deciso di sfidare l’impossibile restando fedele alla storia originale, già di per sé complicata da rendere nella sua interezza, anche per via della struttura, basata sul racconto di un racconto. Attraverso i due elementi fondamentali che fanno della novella di Lovecraft un capolavoro della narrativa fantastica, Stanley imbastisce il film. Innanzitutto il colore del titolo, ovviamente, “un colore che non apparteneva al nostro mondo”, come lo descrive Lovecraft, e che quindi in pratica va al di là di ogni concezione umana nonché, di conseguenza, registica. Stanley lo rende utilizzando varie tinte: blu, rosso, viola e soprattutto un fucsia psichedelico, che esplode in un biancore accecante. Dopodiché, più ancora che in Lovecraft, la dissoluzione (letterale) del nucleo familiare diviene colonna portante della sceneggiatura ed emblema di una concezione alquanto pessimistica dei rapporti umani, persino di quelli parentali. Esemplare in questo senso l’effetto che “l’immondo” colore alieno sortisce sulla madre e il figlio più piccolo. Per il resto il film procede di pari passo con le invenzioni presenti nel racconto: mutazioni animali e vegetali, odori nauseabondi, l’acqua contaminata, i grandi alberi che circondano l’abitazione della famiglia Gardner (con le cui fronde inizia il film), la costruzione del bacino idrico destinato a sommergere la vallata di Arkham, la pazzia che piano piano colpisce i Gardner. Il regista aggiunge però qualche particolare non banale, come la malattia della madre, soltanto accennata, la figlia maggiore Lavinia (nel racconto è un maschio) che pratica rituali magici, la connessione internet (essendo l’azione spostata ai nostri giorni) che non funziona. Notazione finale: Il colore venuto dallo spazio può indubbiamente ricordare vari capolavori del cinema horror (da Shining a La cosa, da Amityville Horror a Poltergeist – Demoniache presenze), ma è quasi naturale che sia così, poiché dietro gran parte dei film fantastici si nasconde un’idea narrativa o un’immagine di derivazione lovecraftiana.




Roman Polański incontra Brian De Palma

Roman Polański, con alcuni film degli anni ’60 e ’70, ha esercitato una notevole influenza sui registi delle generazioni successive, in particolare sugli autori dell’horror americano. John Carpenter in un’intervista ha indicato Chinatown come uno dei suoi film preferiti, il finale di Non aprite quella porta, diretto da Tobe Hooper nel 1974, ricorda per certi versi quello di Che?, di due anni precedente, L’angelo della vendetta (1981), di Abel Ferrara, sembra quasi un rifacimento non dichiarato di Repulsion. In L’ululato (1980), di Joe Dante, la comunità di licantropi è simili alla setta demoniaca di Rosemary’s Baby. Senza contare ovviamente William Friedkin, che nel 1973 ha contribuito a rinnovare il cinema horror girando L’esorcista, e che ha sempre indicato proprio in Rosemary’s Baby un titolo imprescindibile. Polański è stato d’altra parte il primo regista europeo a praticare…..

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