Nella coda del caimano 1° episodio di Gordiano Lupi

Nota dell’autore

È lo stesso Mainer (il protagonista) che nelle prime pagine del romanzo spiega come va intesa l’espressione “Nella coda del caimano” che a prima vista potrebbe sembrare un errore. È vero che geograficamente la testa di Cuba è l’oriente e la coda l’occidente. Però Yumurí è situato in una zona povera e abbandonata, poco servita dai mezzi di comunicazione. È in questo senso che nel racconto si descrive sempre L’Avana come la testa (il fulcro politico e sociale del paese) e Yumurí la coda (un’estrema propaggine dimenticata dal mondo).
In definitiva è ciò che ogni cubano sente, a prescindere dalla geografia.

Prologo – La scoperta del diario

Perché pubblicare i ricordi di un uomo che solo il caso ha affidato alle mie mani? È quello che mi sono chiesto a lungo prima di iniziare la stesura di questa storia. Quando ho cominciato a scrivere ho appallottolato pagine e pagine, gettandole nel cesto della carta straccia. Ho impostato i primi capitoli d’un romanzo e poi l’ho abbandonato.
Il mio mestiere è scrivere e ho sempre inventato storie con grande lavoro di fantasia. A volte mi sono ispirato alla vita degli altri ed è vero che qualche amico mi ha tolto il saluto quando si è riconosciuto in un personaggio, altri comunque si sono offesi o lusingati, altri ancora hanno comprato i miei libri solo per ritrovarsi. Io dicevo che il personaggio in questione poteva anche avere qualcosa di persone reali, ma era lì per rappresentare un tipo umano universale. È una buona spiegazione che convince e affascina e uno si sente anche un po’ importante a riceverla.
Ma questa volta il problema era diverso. Qui si trattava di copiare di sana pianta, senza inventare niente e non sapevo se sarebbe stato giusto farlo. Dopo lunghi ripensamenti mi sono detto che scrivere era da sempre il mio compito e in quell’occasione lo sarebbe stato ancora di più. Ho abbandonato ogni remora, copiando quel diario ingiallito e sporco, traducendo con fatica dallo spagnolo, adattando le situazioni solo dove il linguaggio era scorretto. Giuro che non ho fatto altro che eliminare errori e problemi di sintassi, poi ho tradotto, quasi alla lettera, il racconto di due anni di vita e un’avventura in riva a un fiume che si getta nel mare, nella parte più selvaggia e sconosciuta di Cuba.
Ero venuto a Cuba in cerca d’ispirazione, come faccio da anni, per cercare una storia, magari un racconto che ricordasse vecchie leggende o rituali santéri. È sempre stata la mia specialità. E invece mi hanno consegnato una storia già scritta al Cementerio Colon dell’Avana, un racconto che non aveva bisogno di aggiunte fantasiose e personaggi surreali. L’ho trovato come un regalo inatteso una sera d’inverno, proprio dietro la statua della Milagrosa.

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L a belva dei Carpazi di Gordiano Lupi

Ricordi di Erzsébet Báthory
Castello di Csejthe, 21 agosto 1614

Non avrei mai creduto di finire la mia vita rinchiusa come una belva feroce, come un animale braccato, condannata per sempre a invecchiare in solitudine, a bramare la morte come una liberazione. Perché la cosa peggiore che mi può ancora accadere è quella di vedere il mio corpo appassire sotto i colpi inclementi del tempo che scorre. C’è ancora lo specchio nella mia stanza. Nessuno lo ha portato via. Sono costretta a guardare la vecchiaia che avanza inesorabile. Si avvererà la profezia della vecchia megera che un giorno mi disse: “Diventerai come me, contessa! Nessuno ti vorrà più baciare!” Ridevo di lei, della sua bruttezza, avevo obbligato il mio amante a scendere da cavallo e a baciare quelle labbra raggrinzite, ad accarezzare quella pelle sfiorita. Le parole della vecchia mi entrarono nell’anima e subito smisi di ridere, perché era vero che presto sarei diventata vecchia e brutta. Pure io, che ho avuto tanti amanti e ho sempre potuto scegliere tra i nobili più attraenti, mi sarei trasformata in una vecchia megera e gli uomini non avrebbero voluto toccarmi. Solo per questo ho cercato di oppormi al tempo che passa. Non potevo attendere la fine della gioventù senza provare a fare qualcosa. Non potevo. Amavo il biondo dei miei capelli e lo conservavo lavandoli con cenere, zafferano e camomilla. Volevo che la mia pelle restasse bianca e vellutata. Volevo essere giovane per sempre. Per questo mi hanno murata viva nel mio castello. Ho letto le accuse della corte e immagino lo sguardo accusatore di quei venti giudici, dei testimoni e di quel maledetto prete Ponikenus. Non ho voluto subire l’onta del processo, sono rimasta al castello, nelle mie stanze. Non potevano giudicare una contessa come una volgare plebea. Non ne avevano il diritto. Ho letto pure la sentenza: “Avendo le confessioni e le testimonianze dimostrato la colpevolezza di Erzsèbet Báthory e di come ella abbia commesso delitti contro persone di sesso femminile, visto che i suoi complici esigono una punizione, abbiamo deciso di strappare le dita con le pinze a Jò Ilona, di condannare a morte Ficzkò che sarà decapitato e gettato tra le fiamme…”. Parole terribili che percuotono ancora la mia mente. Non potevano fare questo anche a me, ero pur sempre la contessa Erzsèbet Báthory, mica una serva di palazzo. 

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