Nella coda del caimano 1° episodio di Gordiano Lupi

Nella coda del caimano 1° episodio di Gordiano LupiNota dell’autore

È lo stesso Mainer (il protagonista) che nelle prime pagine del romanzo spiega come va intesa l’espressione “Nella coda del caimano” che a prima vista potrebbe sembrare un errore. È vero che geograficamente la testa di Cuba è l’oriente e la coda l’occidente. Però Yumurí è situato in una zona povera e abbandonata, poco servita dai mezzi di comunicazione. È in questo senso che nel racconto si descrive sempre L’Avana come la testa (il fulcro politico e sociale del paese) e Yumurí la coda (un’estrema propaggine dimenticata dal mondo).
In definitiva è ciò che ogni cubano sente, a prescindere dalla geografia.

Prologo – La scoperta del diario

Perché pubblicare i ricordi di un uomo che solo il caso ha affidato alle mie mani? È quello che mi sono chiesto a lungo prima di iniziare la stesura di questa storia. Quando ho cominciato a scrivere ho appallottolato pagine e pagine, gettandole nel cesto della carta straccia. Ho impostato i primi capitoli d’un romanzo e poi l’ho abbandonato.
Il mio mestiere è scrivere e ho sempre inventato storie con grande lavoro di fantasia. A volte mi sono ispirato alla vita degli altri ed è vero che qualche amico mi ha tolto il saluto quando si è riconosciuto in un personaggio, altri comunque si sono offesi o lusingati, altri ancora hanno comprato i miei libri solo per ritrovarsi. Io dicevo che il personaggio in questione poteva anche avere qualcosa di persone reali, ma era lì per rappresentare un tipo umano universale. È una buona spiegazione che convince e affascina e uno si sente anche un po’ importante a riceverla.
Ma questa volta il problema era diverso. Qui si trattava di copiare di sana pianta, senza inventare niente e non sapevo se sarebbe stato giusto farlo. Dopo lunghi ripensamenti mi sono detto che scrivere era da sempre il mio compito e in quell’occasione lo sarebbe stato ancora di più. Ho abbandonato ogni remora, copiando quel diario ingiallito e sporco, traducendo con fatica dallo spagnolo, adattando le situazioni solo dove il linguaggio era scorretto. Giuro che non ho fatto altro che eliminare errori e problemi di sintassi, poi ho tradotto, quasi alla lettera, il racconto di due anni di vita e un’avventura in riva a un fiume che si getta nel mare, nella parte più selvaggia e sconosciuta di Cuba.
Ero venuto a Cuba in cerca d’ispirazione, come faccio da anni, per cercare una storia, magari un racconto che ricordasse vecchie leggende o rituali santéri. È sempre stata la mia specialità. E invece mi hanno consegnato una storia già scritta al Cementerio Colon dell’Avana, un racconto che non aveva bisogno di aggiunte fantasiose e personaggi surreali. L’ho trovato come un regalo inatteso una sera d’inverno, proprio dietro la statua della Milagrosa.
Il cimitero monumentale dell’Avana è una tappa obbligata ogni volta che torno in questo paese dove l’inverno ha la dolcezza della nostra primavera e dove palme e frambojantes prendono il posto di tamerici e pini ritorti su paesaggi di mare. Mi piace l’aria che si respira tra quelle tombe secolari, come mi affascinano il silenzio misto di aria pesante e calda e il profumo intenso dei fiori freschi deposti sui sepolcri. Mi soffermo estasiato a guardare le statue gigantesche che parlano di conquistadores spagnoli e rivoluzioni vittoriose. Angeli con la spada sguainata, santi dallo sguardo riflessivo, immagini di Maria consolatrice o trafitta dal dolore si presentano ai miei occhi incuriositi.
Qui sono nate tante delle mie storie del mistero solo da immagini catturate per un istante. Qui ho prodotto il meglio dei miei racconti.
Però quel giorno è accaduto qualcosa di più. Non ho dovuto cercare la solita ispirazione, il racconto era là che mi attendeva e nessuno l’aveva ancora pubblicato. Una storia vera, fantastica come una novella per bambini, terribile come una pellicola horror.
La tomba della Milagrosa è sormontata da un imponente marmo di Carrara che raffigura Amelia, la donna dei miracoli. L’ha fatta uno scultore italiano, non ricordo il nome. Mi ha sempre colpito la storia di quella donna e un giorno o l’altro penso che ci scriverò un racconto. Amelia amava il cugino Josè sin da ragazzina, riuscì a sposarlo nonostante la famiglia si opponesse e morì giovanissima di parto tra atroci sofferenze. Ma la cosa straordinaria accadde dopo la sua morte. Dopo tre anni scavarono per recuperare le ossa e la trovarono intatta con il bambino tra le braccia. Da allora il marito ha iniziato ogni giorno a portarle dei fiori, bussando tre volte sul sepolcro e andandosene subito dopo con discrezione senza mai voltarle le spalle. Ancora oggi chi va da Amelia per chiedere una grazia segue la stessa procedura. È un culto sentito in tutta Cuba quello della Milagrosa e ci sono persone che hanno dedicato la vita a questa credenza.
Non mi aspettavo un regalo da Amelia, non avevo chiesto nessuna grazia. Mi trovavo soltanto a passare dalla sua tomba e rimuginavo sulla leggenda che da tempo voglio trasformare in racconto.
È stato allora che ho notato, accanto alla sua immagine di donna che sorregge una croce, un quaderno nero di carta ingiallita. Era proprio in mezzo ai fiori, ai piedi del sepolcro. L’ho raccolto e ho sfogliato avidamente le pagine. Le cose scritte fanno parte della mia vita e non posso fare a meno di esserne attratto. Cominciai a leggere e mi resi conto che lo spagnolo era semplice e corretto. Quel quaderno è stato oggetto di tante incertezze, poi ho deciso che avrei tradotto e pubblicato questa storia. Però mi sento obbligato a dire che non è un romanzo e non è frutto della mia fantasia quello che leggerete, ma vita di qualcuno che ancora si trova in qualche parte del mondo. E se lui sentirà parlare di questo libro potrà confermare che le cose che ho scritto sono realtà. Adesso Mainer è tra quelli che ce l’hanno fatta. Ha lasciato la coda del caimano ed è approdato a Miami in cerca di un’altra vita. Il mare e la Sierra non tracciano più un panorama quotidiano fatto di pesca e banane. Avrà dei ricordi e tanti rimpianti e il suo diario l’ha voluto lasciare ai piedi della Milagrosa, in segno di riconoscenza. È partito lasciandosi alle spalle una storia incredibile sotto forma di diario. Fino al giorno in cui io l’ho raccolta e adesso sono qui a raccontarvela.

Il diario

12 febbraio 1998

Non ho mai posseduto un quaderno così bello e neppure una penna come questa. Non è come quelle biro da pochi pesos che ci danno a scuola e che si consumano in fretta. Questa è una vera penna che corre sulle pagine bianche veloce e sicura. Argentata, con la punta fine in metallo, elegante. Mi è sempre piaciuto scrivere, e quello straniero un regalo più bello non me lo poteva fare. Lo so che mio padre avrebbe preferito qualche dollaro in più e mia madre magari del sapone, ma io sono contento così e adesso stringo tra le mani questi oggetti preziosi.
In questo quaderno di pelle nera potrò descrivere le cose della mia vita, le avventure che sogno, i ricordi più belli. Sarà un amico fidato che conterrà confessioni e segreti. Quello che da tempo sognavo, in fondo.
Sì, è stato proprio un bel regalo.

15 febbraio 1998

La mia casa è Yumurí, proprio in fondo al caimano. A scuola mi hanno detto che in realtà, se si guarda Cuba in una cartina geografica, siamo noi la testa. Ma come possiamo essere la testa di qualcosa se qui terminano le strade e dalle scogliere in lontananza si scorge soltanto Haiti? Yumurí è la coda, purtroppo. La coda del mondo.
Vivo in un villaggio di pescatori, in una casa di legno e terra affacciata sull’oceano Atlantico. È il mare che ci dà l’occorrente per vivere, insieme alle palme e i banani che crescono intorno. È il fiume che ci dà il resto, l’acqua per bere e per lavare corpi e vestiti.
“È dura la vita”, dice sempre mio padre.
È una delle sue frasi ricorrenti.
“E da un po’ di tempo lo è ancora di più”, aggiunge.
Io ho appena quindici anni ma mi sento già un uomo.
“Mainer, qui si cresce in fretta. Non c’è tempo per essere bambini”, continua mio padre. E io cerco di fare come dice.
Per adesso frequento la secondaria e cerco di imparare tutto quello che può servire. Qui non abbiamo quasi niente, ma la scuola non manca e i professori arrivano da Santiago e Baracoa. Primaria e secondaria sono nello stesso cadente fabbricato di legno che si affaccia sul fiume. È a poche centinaia di metri da casa mia e lo raggiungo in fretta.
Mi piace la scuola e ascolto le lezioni di storia e letteratura con attenzione, conosco a mente tante poesie di José Martí, ma leggo volentieri anche Garcia Lorca e Pablo Neruda. Mi piace scrivere quando ho un po’ di tempo e trovo carta e penna. Adesso grazie a questo regalo potrò farlo più spesso. È bello raccontare la propria vita a delle pagine bianche. Aiuta a pensare, a ricordare il passato, a programmare il domani. E fa superare momenti di tristezza, quando ti senti solo e i problemi pare non abbiano soluzione. I problemi certo non mancano. Qui se non ti dai da fare la vita non aspetta. È per questo che quando non c’è scuola vado sul fiume ad accompagnare turisti dietro alla barca di stato. Ne vengono sempre di più in questi ultimi tempi. Arrivano da Santiago e Baracoa e si fermano poco, il tempo d’una gita sul fiume, poi ripartono e ci lasciano di nuovo a una vita che non possono comprendere.
Il villaggio si apre in faccia all’oceano e la foce del fiume forma come un piccolo golfo naturale dove si raccolgono case di legno e piccole costruzioni in muratura. Quasi ogni famiglia ha una barca da pesca che può usare soltanto per lavorare ed è assolutamente vietato entrare nel fiume. Nel fiume si va con il traghetto di stato ed è una cosa per stranieri che pagano il servizio in dollari. Noi che abbiamo in tasca solo pochi pesos al massimo possiamo andare a nuoto.
“Sono le cose strane di questa terra”, dice sempre mia madre.
“Poi capirai…”, aggiunge mio padre.
Io in realtà capisco già, perché quindici anni non sono pochi anche se loro pensano di sì. Capisco che a scuola quando ci parlano della rivoluzione spesso ci raccontano delle bugie e anche i professori non sono poi così convinti. Il periodo speciale, le restrizioni, l’embargo. Tutto vero. Ma cosa c’entra tutto ciò con assurdi divieti?
A parte questo quando arriva un turista c’è una grande agitazione.
Però ci sappiamo organizzare e facciamo in modo di dividerci i compiti e guadagnare tutti qualcosa. Qualcuno segue a nuoto la barca di stato e fa da guida sul fiume sino al punto dove è possibile bagnarsi. Altri preparano il pranzo e lo portano a destinazione con manovre di equilibrismo collaudate da tempo. Altri ancora salgono sulle palme e colgono noci di cocco, poi le aprono a colpi di machete per far assaggiare il latte e la polpa morbida e saporita.
Io, quando è il mio turno, faccio da guida. Sono agile, nuoto come un pesce e mi piace tuffarmi dalle rocce disposte a precipizio sulle acque silenziose del fiume. La valle dove scorre lo Yumurí sembra un canyon tra due alte montagne aperte come una ferita nella roccia, sorvolato da avvoltoi nerissimi che spesso calano a terra per bere, frastagliato da palme e mangrovie che fanno spiovere rami sulle acque. Qui accompagniamo i turisti e indichiamo il posto dove è possibile nuotare, là dove il fiume si allarga a formare un lago naturale. E soprattutto li teniamo lontani da quello che non si può fare, dai coccodrilli, dai pericoli, dalle leggende che dicono di non rischiare.
E io ho imparato tutto di quelle vecchie storie. Non c’è niente che non sappia. Sono una guida davvero perfetta.

25 febbraio 1998

Ieri ero sul fiume con una famiglia di italiani, moglie e marito con due bambini, turisti tranquilli, non di quelli che vengono a caccia di sesso e spesso si mettono anche nei guai. Mi hanno chiesto di raccontare la storia di questi luoghi e io sono partito con una delle leggende che a Yumurí si tramandano da generazioni. Ascoltavano attenti parole che cercavo di scandire lentamente, perché so per esperienza che un italiano riesce a seguirmi se parlo piano e gesticolo un po’. Lo spagnolo non è così diverso dalla loro lingua.
Eravamo sotto una roccia altissima a strapiombo sull’acqua, un punto pericoloso che da sempre mi hanno insegnato a evitare. Ho spiegato perché. Ho raccontato la più antica delle leggende. Ho detto che ai tempi dei conquistadores il capo indio Tabonao si gettò da quella roccia per non cadere vivo nelle mani degli spagnoli. Morì in quel punto gridando: “Ya murí”, che voleva dire “Adesso muoio”. Ecco perché fiume e villaggio hanno preso nome Yumurí e storie antiche dicono che l’anima dell’indio è ancora in quelle acque e non le rende tranquille.
Gli stranieri mi hanno guardato con aria incredula e io per tutta risposta ho rincarato la dose con una leggenda che risale ai tempi dello schiavismo coloniale. Quella del cimarron, uno schiavo scappato da una piantagione di caffè, che si gettò nel fiume dalla stessa rupe e morì proprio come il vecchio capo indio. Nell’intervallo di duecento anni quello specchio d’acqua era stato testimone di due terribili fatti di sangue. Le anime di due persone senza pace, morte per sfuggire a un’ingiustizia, lo rendevano insicuro. Ho raccomandato di non fare il bagno sotto quella roccia e di seguirmi, avrei indicato dove era possibile. Mi hanno ascoltato facendo domande, incuriositi. Nessuno ha tentato di bagnarsi.
Ho aggiunto: “Chi lo ha fatto non è più qui a raccontarlo”.
In realtà erano cose narrate da mio padre, non avevo mai visto nessuno tuffarsi e morire, ma non ci tenevo ad assistere a quello spettacolo per la prima volta.
Ho colto delle noci di cocco.
“Questa è la nostra coca cola!”, ho detto.
Una vecchia battuta che fa sempre sorridere e che non è così lontana dalla realtà. Hanno bevuto con gusto, poi hanno mangiato la polpa biancastra e morbida del cocco. Io mi sono tuffato dalla scogliera che preferisco lasciando i turisti tranquilli sino all’ora del pranzo. Altri allora hanno preso il mio posto giungendo a nuoto con le provviste cucinate di fresco. Pesce arrosto e banane fritte nell’olio di cocco con yucca e riso bianco, il pasto di sempre. L’unico che possiamo permetterci di consumare e preparare per gli altri. Tutta roba che viene dai campi o dal mare e che per lo straniero è la piacevole novità di un giorno, mentre per noi è vita quotidiana. E possiamo dirci fortunati perché da mangiare non manca mai. È il resto che manca. Il sapone, i vestiti, le penne, i quaderni, l’olio, il burro, tutto quello che si compra con dollari e non cresce nel campo attorno alla casa o nelle acque del mare. Per questo ci diamo da fare. Per questo non basta la scuola e il turista è l’unica possibilità di guadagnare denaro. Sappiamo che rischiamo. Sappiamo che c’è la galera solo per aver preparato un pranzo a uno straniero. La legge impone che il turista mangi nei ristoranti di stato. La legge è una cosa, la realtà un’altra. E la realtà ce la dobbiamo inventare. Inventare è da sempre la cosa migliore che sappiamo fare. Impariamo presto. Impariamo che siamo bambini.
Per forza. Chi non impara non sopravvive.

3 marzo 1998

Quando accompagno stranieri sul fiume mi tornano a mente le parole di mio padre. Lui dice di aver visto due amici morire in quel luogo maledetto e il nonno raccontava di altri. L’avvertimento si tramanda da generazioni e da tempo nessuno osa profanare la casa di Tabonao e del cimarron.
“Sono le loro anime che infestano le acque, figlio mio. Non tuffarti dove la rupe è a strapiombo sulle acque. E non permettere che nessuno lo faccia”.
Le parole ridipingono sul volto un terrore lontano. All’epoca dei fatti era un ragazzo come me e ancora adesso le grida di chi ha visto morire tormentano le sue notti. Si rimprovera di non aver impedito che accadesse, dice che avrebbe potuto fare di più. Lui sapeva, tutti sapevano. Il nonno aveva fatto gli stessi racconti al lume d’una candela, mentre il vecchio sellon dondolava davanti a un mare sconvolto dal vento. Quel giorno morirono due ragazzini di sedici anni che volevano solo dimostrare di non credere alle leggende.
La voce di mio padre è rotta dalla commozione mentre ricorda.
Erano i suoi compagni.
“Ho visto le loro gambe risucchiate da un mulinello d’acqua e non ho potuto far niente. Sono scomparsi uno dopo l’altro gridando che li aiutassi. Ma era impossibile. Se mi fossi tuffato sarei morto anch’io. Me li sono visti sparire davanti agli occhi”.
A dire il vero non è che creda molto alla storia delle anime che non trovano pace. Penso che in quel punto il fiume sia davvero pericoloso e non vorrei bagnarmi là per niente al mondo, ma a scuola ci hanno detto che correnti e mulinelli nascono in modo naturale nei corsi d’acqua. Però anche se non credo alle leggende dei vecchi le rispetto. Una parte di verità c’è sempre e spesso una storia fantastica serve a far comprendere un pericolo reale.
Mio padre è una persona di poche parole, concreta. Un uomo che mantiene la sua famiglia lavorando duro. La barca da pesca è la sua vita e il fiume è un modo per arrotondare da quando ci vengono i turisti. Lui mi ha sempre insegnato che si può vivere con poco ma che l’errore più grande è darsi per vinti. Lottare è la sua parola d’ordine. Lottare e credere. Fin da quando sono piccolo mi ripete:
“Tu non devi fare la mia vita, Mainer. Tu devi cambiare”.
E ancora adesso continua a dirmelo. Vuole che studi e soltanto dopo permette che vada sul fiume con gli stranieri. Mi dice che devo prendere al volo la mia occasione quando si presenterà, perché a Yumurí non c’è futuro. Io voglio bene a mio padre. È un uomo indurito dal tempo, la sofferenza gli si legge scritta in volto e in quei capelli bianchi che risaltano sulla pelle creola. Non ha che quarant’anni ma ne dimostra molti di più, come mia madre, che non pare averne trentacinque. S’invecchia in fretta a Yumurí.
Mio padre si è sempre occupato di noi, non ci ha mai abbandonato.
La mamma lo attende alla sera, quando lui rientra dal mare e prepara qualcosa da mangiare. Si alzano presto al mattino, fanno una rapida colazione a base di caffè e casabe, un pane fatto di farina di yucca. Io mi sveglio dopo assieme ai miei fratelli più piccoli, Andres e Ivan, devo occuparmi di loro e accompagnarli a scuola. La primaria è nello stesso istituto che frequento e mi piace questo incarico da fratello maggiore. Penso alla loro colazione mentre la mamma si dà da fare a un forno molto rudimentale scavato nella pietra e prepara il casabe per la sera.
Il babbo esce presto di casa. Prima va al campo per raccogliere un po’ d’insalata, la yucca e le banane, poi esce per mare e non fa ritorno che dopo il tramonto, quando ha pescato abbastanza per noi e per lo stato. La mamma sistema la casa, ma non c’è mai molto da fare in quelle due stanze di legno e terra che ripulisce con una ramazza di palma. Rifà i letti, quello grande dove dormo io con i miei fratelli e il più piccolo dove dorme lei con mio padre, poi va sul fiume per lavare i panni.
È stata bella un tempo mia madre, ma adesso le si nota in volto come le sofferenze di questa vita l’abbiano segnata. La pelle creola è sempre abbronzata, ma i capelli neri a tratti sono spruzzati di bianco e gli occhi castani sono spenti e rassegnati. Però quando sorride mi rassicura sempre, adesso come quando ero un bambino e mi teneva in braccio. È abituata a questa vita e non potrebbe affrontarla senza mio padre. Sa che il suo unico vizio è la bottiglia di rum che si scola ogni giorno con gli amici alla caffetteria. Sa che a volte torna a casa ubriaco e sopporta anche questo. Si vogliono bene mio padre e mia madre e questa è la sola cosa che conta. Almeno per me.

15 aprile 1998

Oggi è sabato e stamani sono andato a pescare con mio padre. Siccome non c’era scuola lui ha acconsentito che lo accompagnassi. È una cosa che mi piace uscire con lui per mare di primo mattino. Sì, è faticoso svegliarsi presto e mandar giù in fretta una tazza di caffè bollente, ma poi la giornata mi ripaga del sacrificio. La barca di legno, costruita e rattoppata con fatica nel corso degli anni, ha preso il largo dentro l’oceano e io osservavo il fiume che si allontanava e le case del paese che si facevano piccole. L’orizzonte restava lontano mentre guardavo la bandiera con la stella che sventolava sul tetto della scuola.
“Quella è una delle cose grandi che ha fatto la rivoluzione”, ha detto mio padre come se avesse compreso dove correva il mio sguardo.
“La scuola?” ho chiesto incuriosito.
“No. L’averla portata a Yumurí ”.
Mio padre non ha fatto la rivoluzione. Era appena un bambino quando è accaduto e ha solo sentito raccontare dai vecchi di quelle gesta eroiche. Ha vissuto sempre con questo regime e di quello che c’era prima sono testimoni solo i ricordi del nonno.
“Una volta qui nessuno era in grado di leggere e scrivere e chi ci comandava neppure sapeva della nostra esistenza”, ha continuato.
Io ascoltavo e lo guardavo attento mentre manovrava con abilità la rete da pesca e la tirava a sé ricolma di pesce. Fumava un pezzo di sigaro che gli durava tra le labbra giorni interi e ogni tanto mandava giù una sorsata di rum bianco, quello che tutti chiamano scintille di treno e che si compra di contrabbando a dieci pesos il gallone. La nostra cena era nelle mani di mio padre e in quella rete che trascinava a riva prede da portare al mercato di stato. Una parte di quello che prendiamo resta sempre per noi se peschiamo abbastanza e riusciamo a occultare qualcosa. Quando ha tirato su la rete ha detto:
“Bisogna arrangiarsi, Mainer. Non c’è scelta. Prima del periodo speciale non occorreva rubare allo stato per vivere. Ma adesso è così, se si vuol campare. E la speranza di tutti è scappare, per avere un futuro e perché pensiamo che questo periodo speciale non avrà mai fine. Non io, Mainer. Io non saprei dove andare. Ma tu sì. Tu non puoi seppellirti a Yumurí a fare questa vita”.
Io ho ascoltato con attenzione e ho provato a rispondere che tutto sommato la vita che facciamo mi piace, perché mi diverte pescare con lui quando non c’è scuola e andare a fare il bagno nel fiume o accompagnare i turisti, come mi piace salire sulle palme e cogliere il cocco. Mio padre ha sorriso.
“Capirai”, ha detto.
E io avrei voluto dirgli che ho capito da tempo e che non sono un bambino, ma che gli voglio bene e che non potrei vivere lontano da lui e dalla mamma. Non vorrei scappare dalla mia vita.
Invece non ho parlato e mi sono limitato a guardare la rete con i pesci e ho controllato la canna di bambù per vedere se aveva abboccato qualche preda. Mi piace pescare e mangiare le cose che prendo, anche se non sono che i piccoli del branco e meglio sarebbe ributtarli in acqua. Mi piace sentire il sole caldo che abbronza la pelle e il vento lieve che mi sconvolge il ciuffo di capelli.
Quando siamo rientrati era il tramonto e la mamma ci attendeva sul piccolo ponte di legno che fa da attracco alla barca. Andres e Ivan erano accanto a lei e le stringevano un lembo del vestito. Sono piccoli ancora, uno ha otto anni e l’altro dieci, dopo la scuola giocano con la palla fingendosi lanciatori di baseball oppure a nascondersi con gli altri amici. Noi abbiamo salutato da lontano levando le mani al cielo e l’abbiamo vista sorridere. Il sorriso della mamma è una delle cose che riesce a darmi forza e tranquillità e credo sia così anche per mio padre. È vero quello che mi ha detto in barca, lo so che la vita è dura e senza uno scopo e che usciamo di casa solo per risolvere il problema di mangiare. Però alla fine ci basta un sorriso per essere felici. Un sorriso che si accende tra la musica lontana d’un giradischi e i passi d’un son d’altri tempi ballato da due ragazzi davanti a un oceano calmo che accoglie il tramonto del sole.

Episodio successivo 

Questo romanzo breve è contenuto nell’antologia Nero tropicale di Gordiano Lupi, acquistabile negli store on line.

Gordiano LupiL’AUTORE
Gordiano Lupi ( 1960) – tre volte presentato al Premio Strega – ha dedicato alla sua città: Lettere da Lontano, Piombino tra storia e leggenda, Cattive storie di provincia, Piombino leggendaria, Piombino a tavola, Alla ricerca della Piombino perduta, Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano, Piombino con gusto, Sogni e altiforni – Piombino Trani senza ritorno (con Cristina de Vita) oltre a un sacco di racconti e articoli di cui non è facile conservare traccia. Molti racconti piombinesi sono sul blog TUTTOPIOMBINO edito ogni domenica dal quotidiano telematico QUI NEWS VALDICORNIA. Si occupa di cultura cubana, traduce ispanici, scrive di cinema e pubblica monografie su registi e attori italiani. Sito Internet: ww.infol.it/lupi. E – mail: lupi@infol.it. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Blog di cultura cubana e letteratura: Ser Cultos para ser libres (http://gordianol.blogspot.it/)

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