Berto odiava quelle estati sempre più torride.

Lo costringevano ad annegare nel proprio sudore, tra lenzuola sgualcite e quel materasso scalcagnato che si ritrovava sotto al culo, sempre più sformato. Detestava un sacco di cose, a dire il vero. Le persone, soprattutto, ma le estati stavano rapidamente risalendo la sua personale china del disagio.

A occhi spalancati, rimase a fissare le ombre del fogliame che si agitavano pigre contro il muro livido della camera da letto, sornione, dileggianti, ascoltando i loro folli e inintelligibili bisbigli al cuore rovente della notte, acquattata all’esterno. Tese l’orecchio, immerso nel suo acre bagno di sudore, cercando di distinguere un senso in quei deliri, senza alcun successo. Sempre più certo, però, che le tenebre lo stessero sfottendo.

Qualcosa l’aveva destato e adesso giaceva tra le lenzuola umide, stanco, indolenzito, ma incapace di riguadagnare il sonno perduto. L’afa soffocante non dava tregua, i grilli frinivano struggendo nei loro orgasmi notturni, rincarando la dose.

Berto imprecò, affondando il capo nel cuscino madido.

Nello stesso istante udì le galline starnazzare terrorizzate e si tirò a sedere di scatto, bestemmiando senza pudore, macinando l’esclamazione tra i denti. Sospirò e gettò le gambe oltre il bordo del letto, all’erta, cercando a piedi nudi le ciabatte finite chissà dove. Una volta individuate, agguantò i pantaloni gettati sulla sedia lì accanto. Li infilò grugnendo, grattandosi culo e testicoli. Le galline, nel frattempo, si erano fatte insolitamente silenziose: brutto segno.

Scese da basso in canottiera, recuperando la torcia elettrica dalla mensola dell’ingresso, ma senza accendere alcuna luce: aveva già abbastanza caldo e ogni gesto inutile non faceva che alimentare quell’agonia. Ritagliato tra gli stipiti della porta di casa, valutò se tornare indietro a recuperare la doppietta, ma vi rinunciò. La scure piantata sul ciocco in giardino sarebbe andata più che bene.

La luna, alta nel cielo, spargeva una luce dura ma generosa nell’ampio cortile deserto davanti casa.

Grugnendo, s’incamminò guardingo verso il capanno.

C’era qualcosa di storto tra le ombre assiepate al limite della proprietà, un vago senso di minaccia che strideva con la stagione. Quando raggiunse il ceppo a metà via e recuperò la scure, il manico levigato dall’uso e dagli anni gli restituì una confortante sensazione di sicurezza. Lo strinse lasciando oscillare il peso della testa a fianco della gamba, godendo del bilanciamento familiare dell’attrezzo, quindi tornò a concentrare la propria attenzione sul capanno insolitamente tranquillo. Troppo silenzioso. Ora che ci faceva caso, dannazione a loro, anche i grilli si erano quietati. La cosa non gli piaceva affatto. Proprio per nulla.

Berto scosse il capo e imprecò.

La costruzione scalcagnata sorgeva a una certa distanza dall’abitazione, oltre la barchessa dove teneva il trattore e l’attrezzatura agricola, quasi a ridosso del bosco che s’inerpicava lungo la collina. A ovest, al di là dei campi, lungo il confine con la boscaglia, Berto riusciva a distinguere la cascina di Garibaldi affiorare dall’oscurità. D’istinto, si schiarì la gola e scatarrò in direzione del proprio vicino. Un altro dei favoriti al titolo, per quanto riguardava il suo personale elenco di frangitori di coglioni. Un vero purosangue, a dirla tutta. Ma il vecchio, in quel momento, non era la sua preoccupazione principale.

Tornò a scrutare il capanno, corrucciato. Teso.

Le ombre parevano avervi fatto tana, tanto appariva scuro contro la selva retrostante. A un tratto, malevolo. Fiutò l’aria e gli parve di avvertire un lezzo di putrefazione mischiato al calore opprimente della notte. Un odore stomachevole che non prometteva nulla di buono.

Corrucciò la fronte e strinse più forte il manico della scure. Con la mano libera recuperò la torcia e l’accese, lasciando che il fascio di luce facesse arretrare le tenebre rannicchiate davanti all’ingresso del capanno.

Era da un bel po’ che non si vedevano zanzare da quelle parti, ma non si poteva mai sapere. Quand’era ragazzino infestavano le campagne come una piaga egizia, ma poi lo sterminio sistematico ne aveva sfoltito ranghi e arroganza, costringendo quei bastardi, almeno quelli che erano sopravvissuti, a darsi alla macchia. Ogni tanto qualche sbandato si avvicinava troppo ai centri abitati e la sua testa finiva sul palo di qualche recinzione, nella piazza del paese o inchiodata alle porte della chiesa locale, ma si trattava di casi sporadici, che facevano notizia proprio per la loro rarità più che per altro. Tuttavia, sempre meglio essere cauti. Anche se molte delle dicerie nei loro confronti non erano altro che solenni stronzate, quelle cose possedevano una certa astuzia. E zanne acuminate.

Berto posò il palmo della mano sulla porta del capanno e si rese conto che qualcuno aveva fatto scorrere il chiavistello sbloccandolo dalla sua gola. Qualcuno, o qualcosa, considerò contrariato.

Un rumore umido e rivoltante lo raggiunse dall’interno, condito da cupi grugniti e un basso ringhio famelico. Difficile farsi illusioni, a quel punto.

Spinse piano il legno, premendo la lente della torcia contro la gamba, per soffocarne la luce e non tradire la propria presenza. La porta cedette senza cigolii e lui sbirciò all’interno,

L’odore di merda di gallina lo investì, inconfondibile e familiare, ma mischiato a quello c’era anche dell’altro: un sentore oleoso e metallico. Sangue, si rese conto dopo qualche istante, ancora caldo, appena versato. Piume strappate erano sparse ovunque, distinguibili anche nella penombra che abitava il capanno. Qualche passo oltre, una volta che i suoi occhi si furono abituati all’oscurità coagulata lì dentro, Berto riconobbe i resti dei polli dilaniati, immobili, rattrappiti in forme bislacche e grottesche. Gli unici suoni di quel cimitero aviario provenivano dal fondo della costruzione. Un sordo biascicare e strappare di chi affondi i denti nella carne cruda e dura, con ostinazione, trangugiandone il sangue ormai denso, cagliato dalla morte.

Abbandonando la propria reticenza, Berto sollevò la torcia e la puntò in direzione del rumore, accoccolando il manico della scure nel palmo calloso e forte, temprato dal lavoro nei campi e dagli anni.

La cosa nascosta nelle tenebre sussultò alla luce, si voltò con un sibilo feroce, sorpreso, e gli soffiò contro, spalancando fauci ferine. Proprio come un animale selvatico colto in flagrante.

Occhi neri e lucidi lo fissarono con rabbia, piantati in un muso affusolato, volpino, incorniciato da capelli lunghi e arruffati. Dalle gote imbrattate di sangue cadde qualche frammento di carne. Quel che rimaneva di una gallina decapitata giaceva ai piedi della creatura, le zampe ridicolmente disarticolate dal corpo.

Si trattava proprio di una zanzara.

Poco più di un cucciolo, a giudicare dalle dimensioni, ma pur sempre uno di quei luridi figli di puttana. Berto la tenne inchiodata contro le assi del capanno con il fascio di luce della torcia elettrica, andandole incontro e alzando piano la scure.

La zanzara guaì un latrato di gola, alieno e incomprensibile, proteggendosi il volto dal chiarore con le dita sottili, intrise di umori e sporcizia. Tra di esse, i canini balenarono aguzzi, ma spogliati di vera minaccia. Il bagliore elettrico annichiliva quelle creature delle tenebre.

Qualcuno aveva raccontato a Berto che le zanzare possedevano un loro linguaggio ed erano in grado di comunicare, in qualche modo rudimentale, ma lui non le aveva mai udite spiccicare alcuna parola. Non che avesse mai avvertito il bisogno di scambiarci due chiacchiere, a dire il vero. E la scure, di solito, troncava qualsiasi tentativo di conversazione sul nascere. I versi di quella cosa, in ogni caso, rimanevano indecifrabili quanto il bisbigliare delle ombre, solo più raccapriccianti.

Nel tentativo di sottrarsi alla luce, la zanzara si schiacciò contro la parete, scalciando convulsamente davanti a sé. Aveva gambe magre e sottili, notò Berto, piedi piccoli e luridi, dalle unghie spezzate. Per quanto apparisse assurdo, indossava degli indumenti, se così si potevano definire gli stracci che le fasciavano il corpo magro, denutrito, dai fianchi stretti. Il lamento che emetteva, un pigolio strozzato, dava i brividi. Ricordava in qualche modo gli strilli acuti di un bambino malmenato a sangue. O una bambina. Sembrava proprio una femmina, anche se Berto non sarebbe stato in grado di giurarlo, tanto la zanzara si dimenava per sottrarsi al bagliore elettrico.

In ogni caso, non avrebbe fatto alcuna differenza. Berto sapeva cosa andava fatto. La torcia serviva a inchiodarli, la scure a spiccargli quella testa rognosa dal busto.

Non c’erano molti altri modi, e quello andava più che bene. Veloce e pratico. Chi avrebbe rischiato di farsi infettare solo per il gusto di piantargli un paletto nel cuore e guardarli rattrappire come cenere sotto i propri occhi? Berto sapeva di non essere privo di difetti, ma credeva anche di non essere quel tipo d’uomo che gode nell’infliggere sofferenza gratuita, si trattasse anche solo di una bestia. O di una creatura come quella che gli stava di fronte.

Sospirò e venne avanti.

Gli strilli della zanzara cominciavano a dargli sui nervi, e poi avrebbe dovuto ripulire tutto quel macello. Corrucciò la fronte e imprecò. L’indomani l’emicrania sarebbe tornata ad assediarlo, andando a sommarsi al calore rovente del giorno. La lista del malumore iniziava a farsi affollata.

Berto alzò la scure fino a portare la lama robusta all’altezza del capo, per garantirsi il giusto slancio.

La zanzara rinculò contro le assi del capanno, quasi potesse fuggire attraverso le fessure tra le tavole, sgranando gli occhi.

Sì, era proprio una ragazzina. O l’equivalente della sua specie aberrante.

Berto adesso riusciva a distinguere seni acerbi e puntuti disegnare un paio di collinette scabre da sotto il tessuto lacero che la fasciava. Il particolare lo turbò. Scosse il capo. Non doveva ragionare in quel modo. Quelli non erano esseri umani, per quanto la fisionomia potesse ingannare. E non erano nemmeno animali. Erano… erano zanzare, ecco tutto. Ripugnanti succhiasangue che infestavano la campagna e trasmettevano la loro fottuta malattia, se solo abbassavi di un minimo la guardia.

A riprova, la creatura sibilò contro di lui, tornando a esibire canini candidi e acuminati come chiodi. Un morso e Berto sarebbe dovuto correre in paese, dal medico, per farsi disinfettare e vaccinare prima che l’infezione facesse il suo corso. Gente di sua conoscenza aveva dovuto farsi amputare un arto per evitare che il contagio progredisse; qualcun altro, meno fortunato o più stupido, non ce l’aveva fatta e aveva dovuto essere abbattuto prima che la porfiria eritropoietica mutata facesse il suo corso.

Berto era molte cose, ma non uno sprovveduto.

Grugnì e strinse il manico della scure, caricando il colpo.

Fu a quel punto che la zanzara scoppiò in lacrime, cogliendolo di sorpresa. Raccolse il capo tra le ginocchia, intrecciando le dita dietro la nuca, in un futile tentativo di protezione, e si rannicchiò su se stessa, iniziando a singhiozzare proprio come una bambina. A ogni spasmo i capelli, lunghi e stopposi, le disegnavano lungo il corpo adolescente onde crinose che esalavano deboli riflessi patetici contro la luce elettrica della torcia.

La mano di Berto che impugnava la scure rimase bloccata a mezzaria.

Una bestemmia gli scivolò tra le labbra, ma priva del vigore necessario a renderla davvero tale.

«Ma porca…»

La zanzara uggiolò di nuovo, un verso gutturale, di sottomissione, ansimando e tirando su con il naso.

Berto avvertì qualcosa torcergli le budella. Senza rendersene conto, mosse un passo indietro. La torcia possedeva un pulsante scorrevole che poteva regolarne l’intensità e, con il pollice, la diminuì di una tacca.

La zanzara parve avvertire il cambiamento, perché anche il pigolio calò di vigore.

Nel capanno il calore era ancor più sgradevole che all’esterno ma, nonostante sudasse copiosamente, Berto non vi faceva più caso. Non era la prima zanzara che gli capitasse di abbattere, anche se erano state sempre meno, tanto il loro numero si era ridotto nel corso degli anni, dopo le grandi battute di caccia. Non aveva mai esitato di fronte a quelle cose. A quei parassiti. Ai bei tempi non si erano fatti scrupoli nel dar fuoco a interi pendii, pur di stanare i reietti che vi avevano trovato rifugio e, se non erano le fiamme a divorarli, la scure finiva il lavoro abbattendo i sopravvissuti in cerca di una via di scampo dai roghi. Anche lui aveva fatto la sua parte, tuttavia…

Si schiarì la gola e sputò, confuso. Arretrò, spostandosi di lato, e abbassò ancora un poco il cono luminoso della torcia.

Oltre il bordo delle ginocchia, gli occhi lucidi e spalancati della zanzara si sporsero a sbirciarlo. Le lacrime avevano scavato solchi lividi tra la sporcizia e il sangue che le imbrattavano quella bizzarra parodia di volto umano. Una manina sottile e adunca saettò a pulirsi il moccio che le impiastricciava il naso puntuto.

«Cazzo.»

Berto si lasciò sfuggire un sospiro riluttante.

La zanzara digrignò i denti, tornando ad asciugarsi le lacrime, con l’unico risultato di peggiorare il disastro che era il proprio viso, ma non fu quello a colpirlo, quanto ciò che credette di cogliere nello sguardo della creatura. Un fioco barlume di consapevolezza.

Berto deglutì a disagio. Abbassò un altro poco la torcia e si spostò di lato, lasciando un varco tra sé e la zanzara. Tra la zanzara e la porta del capanno.

Lei gli lanciò un’occhiata malevola, feroce, e tuttavia speranzosa.

Berto la vide tornare a tendere i muscoli, pronta a balzar via da un istante all’altro. O ad aggredirlo. Poi lo sguardo della zanzara si spostò sulla scure, la testa di ferro segnata dall’uso e dai colpi inferti: non solo al legno, ma anche a quelli della sua specie. Forse era in grado di fiutare l’odore del sangue che impregnava il metallo, forse cercava d’intuire se quel che le veniva offerta era una possibilità o un tranello.

Berto sospirò una volta ancora, sorpreso dai sentimenti contrastanti che gli agitavano lo stomaco.

«Dannazione» borbottò di malavoglia, abbassando l’arma e indietreggiando, puntando la luce verso i propri piedi invece che contro la creatura.

La zanzara scattò così velocemente da sollevare un mulinello di polvere e piume imbrattate di sangue, infilando l’ingresso spalancato del capanno e precipitandosi all’esterno. Guardare quei movimenti disarticolati, quasi da insetto, faceva male agli occhi.

Berto la seguì, appena in tempo per vederla scomparire nel folto della selva che arrampicava la collina dietro il capanno, dove il bosco era più folto. Rimase qualche istante a scrutare quel covo di tenebre con la scure penzoloni, fino a quando distinguere qualsiasi movimento o rumore divenne impossibile. I grilli erano tornati a frinire all’impazzata e lui li maledisse, detergendosi la fronte con il dorso della mano. Si sentiva zuppo di sudore.

Tornò in casa caracollando senza fretta attraverso il cortile, portandosi dentro anche la scure, giusto per sicurezza. Al casino dentro al pollaio avrebbe pensato l’indomani, in quel momento si sentiva troppo stanco.

Più tardi, mentre stava finalmente per prendere sonno quando ormai aveva rinunciato alla speranza, udì un paio di spari che lo fecero sobbalzare nel letto. Garibaldi, a giudicare dalla direzione da cui erano giunte le scariche. Il vecchio era una testa di cazzo di prima categoria ma, da quel che ricordava, possedeva una mira di merda. Berto ripensò fuggevolmente alla zanzara, stropicciandosi la fronte e asciugandosi il viso madido col palmo calloso. Poi scrollò le spalle nel letto. Mancava poco all’alba e lui non aveva chiuso occhio.

Avvilito, decise che faceva troppo caldo persino per un’ultima bestemmia.

***

C’era qualcuno piantato davanti a casa e, poco ma sicuro, non si trattava di una fottuta zanzara.

Quelle bestiacce non si sarebbero mai fatte vedere prima del tramonto. Se la luce elettrica aveva il potere di annichilirle, quella del sole avrebbe bollito la loro carne in men che non si dica, sollevando un vespaio di vesciche sulla pelle diafana che le ricopriva. Uno spettacolo rivoltante a cui Berto aveva già assistito e che non aveva nessuna voglia di bissare.

Scalando la marcia, abbassò la velocità del trattore che avanzava traballante sulle zolle sconnesse e strinse gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’intruso. Dopo un istante scosse il capo, esasperato. C’era solo un coglione nei paraggi del paese che indossasse camicie rosse ogni santo giorno dell’anno. Berto imprecò. Quello stronzo di Garibaldi era la ciliegina sulla torta alla giornata di merda appena trascorsa.

Innestò la marcia e si diresse verso casa con l’irritazione che già montava. Magari gli avrebbe fatto bene prendersela con qualcuno, la rabbia sarebbe stata un ottimo diversivo al mal di testa e all’afa che l’avevano tormentato durante il lavoro nei campi. Senza rendersene conto, gli scappò addirittura un ghigno storto.

Piombò in cortile fermando il trattore proprio a fianco di Garibaldi, sollevando polvere e ghiaia mentre sterzava bruscamente, lasciando il motore acceso, fissando il vicino dall’alto in basso. Garibaldi non parve per nulla in soggezione. Alto e segaligno, il vecchio non era un tipo facilmente impressionabile.

«Ho avuto visite, questa notte» esordì, le braccia conserte, il mento malamente sbarbato puntato verso Berto. «Zanzare. Ce n’è ancora qualcuna che si aggira nei paraggi, a quanto pare.»

«Bestie tignose» annuì Berto, controvoglia.

Garibaldi rise, un verso catarroso, per nulla amabile. «Ho sparso la voce, sto raccogliendo volontari per una battuta. Non mi dispiacerebbe qualche testa da esibire in paese. Ti interessa partecipare?»

Berto scosse il capo e scatarrò ai piedi del vecchio, mancandolo di poco.

«No. Non ho tempo. Ho le vigne e i campi a cui badare.»

Garibaldi parve sorpreso.

«Ai tempi, hai fatto la tua parte, me lo ricordo bene. Ti piaceva menarla, quella scure» disse indicando l’attrezzo di nuovo piantato sul ceppo in cortile. «Ti si sono appassite le palle? O preferisci menarti altro, adesso?»

Garibaldi rise di nuovo. Ancora quel latrato ruvido, fastidioso, fatto apposta per esasperare i nervi.

Berto tacque, il sudore gli imperlava la fronte sotto alla tesa del berretto, imprimendo un alone giallastro lungo il confine con la calvizie incipiente. Non vedeva l’ora di farsi una doccia e lavarsi di dosso il lezzo acre che lo impregnava. E il tanfo di piscio del vecchio, soprattutto.

Allungò una mano verso il cambio, per innestare la marcia e allontanarsi, abbandonando l’altro alle proprie stronzate.

Garibaldi, tuttavia, non aveva mai avuto istinto per il troppo che stroppiava.

«Lo so che sono passate anche dalle tue parti, questa notte. Ho dato un’occhiata al pollaio. Direi che si sono servite senza tanti convenevoli. Sempre state bestie ingorde. Un uomo degno di questo nome starebbe già…»

«Non mi piacciono i ficcanaso. E nemmeno le teste di cazzo.» Ecco, Berto si sentiva già meglio.

La patina di finta convivialità si dileguò dal volto scabro di Garibaldi, sostituita da un ghigno sbilenco che ne metteva in mostra la dentatura scalcagnata e ingiallita.

«Fa come ti pare» ringhiò questi, scrollando le spalle. «Li conosco gli smidollati della tua risma, c’è ne sempre di più, in giro. Questo paese sta andando alla malora…»

Berto inserì la marcia, lasciando che il ruggito del trattore seppellisse le parole del vecchio, avviandosi verso la rimessa senza voltarsi indietro.

Quando rincasò, di Garibaldi non c’era più traccia in cortile.

Cenò alla svelta, con un bicchiere di vino, salame affettato e formaggio. Di accendere il fornello non se ne parlava, con quel caldo. Si fece una doccia e si stese a letto, pensando che sarebbe rimasto sveglio a lungo, a crogiolarsi in quell’afa pesante che non dava respiro, invece si addormentò subito.

Quando aprì gli occhi, di colpo sveglio senza un motivo, era ancora notte fonda.

Si tirò a sedere e si rese conto che stava trattenendo il respiro. Allungò le gambe oltre il bordo del materasso e poggiò i piedi nudi sul pavimento, godendosi la sensazione di fresco che la ceramica gli trasmise. Non pensò a vestirsi, in mutande si avviò verso il balcone che dava sul cortile. Faceva caldo, ma Berto avvertì un brivido pizzicarlo lungo la schiena. Spalancò la porta finestra e si affacciò.

La ragazzina, la zanzara, stava guardando verso di lui, acquattata sulle gambe, le braccia magre tese davanti a sé, a mantenersi in equilibrio.

Berto deglutì.

Rimasero a fissarsi per qualche istante, immobili, al chiaro di luna, sotto una brezza fragile che si era levata a rinfrescare miracolosamente la notte.

La carne della ragazzina – non doveva continuare a chiamarla così – era talmente livida da sembrare luminosa. I capelli lunghi e stopposi le arrivavano alle cosce, incorniciandole il viso sottile, facendo corona a quegli occhi grandi, scuri e spalancati, in cui la notte annegava.

Berto esalò il respiro che stava trattenendo da troppo tempo.

La zanzara schizzò via rapidissima, come la notte precedente, guadagnando il bosco alle sue spalle, scomparendovi dentro. Quasi non fosse mai stata lì.

Dopo qualche minuto, Berto raggiunse la cucina e si servì un bicchiere generoso di vino rosso, che trangugiò in un sorso.

L’indomani dedicò solo la mattina ai lavori che la campagna e il vigneto richiedevano; nel pomeriggio, invece, si recò in paese a fare compere. Al ritorno, schiacciò un sonnellino in veranda e si svegliò poco prima di cena, affamato e accaldato in egual misura. Questa volta non badò al calore imperante: recuperò della salsiccia, qualche fetta di polenta dal frigo e le lasciò arrostire sulla padella, lasciando che l’aroma appetitoso riempisse la stanza, tormentandolo fino a che la carne non fu cotta al punto giusto, con il grasso che sfrigolava allegramente contro il metallo. Divorò la cena febbrilmente, quasi fosse tornato ragazzino, accompagnandola con il solito rosso. Dopo aver spazzolato l’ultimo boccone, si concesse un rutto di soddisfazione, si alzò, e raggiunse il frigorifero, dove aveva depositato parte della spesa. Indugiò davanti allo sportello aperto, godendosi la frescura artificiale, quindi recuperò le sacche di plastica trasparente soppesandone peso e consistenza tra le dita. Era una marca che non conosceva, ma non aveva alcuna importanza. Il sangue era sangue: in questo le zanzare non erano mai state schizzinose.

Ai tempi delle grandi infestazioni, le sacche per le trasfusioni si potevano trovare ovunque, anche nei negozi di alimentari. Queste, Berto, le aveva dovute recuperare in farmacia. Sacche da 450 ml, le più ampie possibili. Durante le battute di caccia venivano somministrate a chi veniva morso.

Prese una forbice dal cassetto e ne tagliò il bordo superiore, gettando l’ago ancora confezionato e i rimasugli nel bidone della spazzatura. Con cautela, versò il contenuto in un secchio di plastica. Ripeté l’operazione con la seconda sacca, giudicando che la quantità potesse essere sufficiente.

Uscì e lasciò il recipiente in mezzo alla corte, recuperando la scure.

Si augurò che la temperatura, ancora alta nonostante il sole fosse già tramontato, rallentasse il coagulo. Tornò dentro, cercò di leggere qualcosa, ma senza riuscire a concentrarsi. Invece di raggiungere la camera da letto, si stravaccò sul divano al piano terreno e poi si abbandonò a un confuso dormiveglia.

Anche questa volta, quando aprì gli occhi, seppe di non essere solo.

Un lappare avido proveniva da oltre l’ingresso. Con cautela lo raggiunse, occhieggiò la scure appoggiata contro la parete, ma alla fine, contro ogni istinto, si impose di lasciarla dov’era. Spinse piano la porta e sbirciò fuori, muovendo qualche passo a piedi scalzi in direzione del rumore.

La zanzara aveva il muso infilato nel secchio, da dove trangugiava vorace il liquido ormai addensato, colloso. Pareva affamata e Berto sapeva che era così. Lo erano sempre. A dispetto dell’afa, i peli gli si rizzarono sulle braccia e si sentì un idiota per aver rinunciato alla scure. E anche alla torcia, si rese conto in quell’istante, maledicendo la propria stupidità. D’istinto, fece un passo indietro, cercando riparo all’interno dell’abitazione prima che fosse troppo tardi.

La zanzara sollevò il muso e lo fissò, un lampo d’ingordigia nello sguardo ferino. Il sorriso ampio, slabbrato e scarlatto, le deformava il viso in modo grottesco. Berto si chiese come avesse potuto scambiarla per una ragazzina, anche solo per un istante, nonostante i fianchi stretti, i seni magri puntati nella sua direzione, quasi fosse pronta a piantargli nella carne anche quelli, oltre alle zanne acuminate che si ritrovava per denti. Il caldo torrido di quell’estate finì di colpo di tormentarlo, ora avvertiva solo un freddo duro e impietoso.

La zanzara si passò la lingua sottile lungo le labbra imbrattate, assaporando con voluttà l’aroma ferroso e dolciastro del sangue che le era rimasto appiccicato a viso e capelli.

Berto era certo che fosse in grado di fiutare la paura che l’attanagliava in quel momento, tuttavia, con uno sforzo di volontà, riuscì a imporsi di non fuggire. Sapeva che la zanzara era veloce, come sapeva che certi istinti si attivavano meccanicamente di fronte a un comportamento da preda.

La zanzara lo stava fissando con intensità, curiosa ma allo stesso tempo cauta. Sotto la pelle diafana i muscoli apparivano contratti, pronti a esplodere in un movimento repentino alla minima sollecitazione.

Un bisogno impellente di liberare la vescica assalì Berto.

La zanzara parve fiutare anche quello: era un ghigno quello che le storpiava il viso, ora? Berto la maledisse mentalmente. Poi gli sfuggì un sospiro. Di quella bizzarra coppia al chiaro di luna, era lui il coglione privo di attenuanti. Se avesse dovuto pagare con la vita per la propria idiozia, non poteva certo incolpare la zanzara. Quelle cose obbedivano solo alla sete di sangue. E, per quel che ne sapeva, erano sempre assetate.

Gli scappò quasi da ridere, scosse il capo e abbassò le spalle.

Gli spiacque solo per Garibaldi. Quella testa di cazzo non avrebbe perso occasione per decantare la sua imbecillità a chiunque avesse avuto voglia di ascoltarlo.

La zanzara lo fissò, inclinò il capo, quindi sbadigliò, spalancando la bocca e mettendo in mostra una chiostra di denti così aguzzi da sembrare tutti canini. L’istante successivo tornò a infilare la testa nel secchio, lappando con avidità i rimasugli di sangue ormai secco sul fondo.

Non impiegò che qualche istante, il tempo che Berto ci mise a riprendersi dallo stupore.

Tornò a fissarlo per un’ultima volta con quegli occhi così strani, così vivi, che avevano il potere di confonderlo, poi saettò verso il bosco scomparendo dentro il nero in un baleno. Lasciando Berto di stucco, in mutande, al centro della corte deserta, sotto una notte estiva dal respiro pesante e dal cuore umido.

***

Qualche volta udiva gli spari dei fucili giungere dal bosco, conditi da grida, imprecazioni e dal latrato eccitato dei segugi da caccia. Altre volte scorgeva i fasci delle luci elettriche che frustavano i pendii della selva, anticipando il tramonto, quando i cacciatori rientravano prima che le tenebre li mettessero in svantaggio. C’era sempre Garibaldi con loro, a ringhiare il proprio incoraggiamento o a maledire la sfortuna.

L’ultima volta che era stato in paese, Berto aveva visto un paio di teste inchiodate ai battenti della chiesa. I teschi, scarnificati dai colpi che li avevano abbattuti e parzialmente divorati dalle mosche, gli erano parsi appartenere a esemplari vecchi, patiti e stanchi. Tuttavia, le fauci spalancate, livorose, incutevano negli occasionali passanti il familiare terrore e disprezzo di sempre. Era rimasto a fissare quei macabri trofei incapace di trovare un bandolo alla massa aggrovigliata dei sentimenti che gli ispiravano, chiedendosi ancora una volta, l’ennesima, cosa gli fosse preso ultimamente, dove intendesse andare a parare con le sue sconsiderate azioni.

Il viso volpino, selvatico e misterioso della zanzara si sovrappose al ricordo dei crani marcescenti inchiodati in piazza, aggiungendo confusione al turbamento.

Berto scosse il capo. Non era mai stato un uomo dai pensieri profondi, troppo articolati. Le cose erano sempre state semplici, per lui. C’era ciò che andava fatto, ciò di cui godere fuggevolmente, e poi tutto il resto. Del resto non gli era mai importato granché, a dirla tutta. Andava benissimo così: in quel modo era più facile.

Grugnì e uscì dalla farmacia, finendo quasi a sbattere contro Garibaldi, rischiando di far cadere l’altro pacchetto, quello che aveva acquistato nel negozio precedente, dopo aver indugiato per oltre una mezzora d’innanzi alla vetrina.

Il vecchio lo squadrò, perplesso, le guance smagrite e ispide, il solito sguardo da faina, forse un poco più allucinato del solito. Le battute di caccia dovevano mettere a dura prova anche la sua scorza coriacea. Poi ammiccò, sornione.

«Hai cambiato idea, vedo» disse, indicando la sporta con le sacche trasfusionali che Berto stringeva al petto. «Avremmo proprio bisogno di una mano. Abbiamo dato una bella ripulita ai dintorni, ma sono sicuro che ci sia ancora qualche altra zanzara che si nasconde nella macchia. Una bestia furba, grossa e gonfia, un vero figlio di puttana a essere sinceri. Mentre eravamo impegnati a setacciare il crinale ovest, seguendo quelle che pensavamo fossero le sue tracce, l’altra sera, subito dopo il tramonto, quel bastardo si è ciucciato un paio delle vacche di Vivaldi, dalla parte opposta delle colline. Quando siamo arrivati sul posto, quel che restava delle giovenche pareva nient’altro che una coppia di canotti sgonfi.»

Garibaldi rise, quel verso acido che rimestava il sangue.

«Ti ho già detto che ne sono fuori» ribatté Berto, infastidito dalle ciance del vecchio.

«E il sangue? Che te ne fai di tutte quelle sacche, se non vai a caccia? Credevo ti fossero scesi i testicoli, finalmente. Mi sa che mi sbagliavo.»

«Mi sa che ci azzecchi di più a rompere il cazzo ai tuoi simili» rispose Berto, prima di riuscire a trattenersi.

Garibaldi lo fissò sorpreso, poi scoppiò a ridere.

Berto non capì cosa l’altro trovasse così divertente. Forse il vecchio cominciava a perdere colpi o a corteggiare la demenza senile. Scrollò le spalle, non poteva importargliene di meno. Lo spinse per passare e si avviò verso l’auto, parcheggiata poco distante.

«In ogni caso mi hai dato un’idea» gli gridò dietro Garibaldi con quella sua voce stridula, incapace di tenere il becco chiuso. Ragliando l’ennesima risata rauca.

Berto finse di non averlo udito. Salì in auto e si allontanò senza nemmeno guardare nello specchietto retrovisore.

Più tardi, a casa, versò il sangue nel secchio, come faceva ormai ogni sera, si sedette sulla sedia che teneva sotto al patio, la torcia a sinistra, la scure a destra, e attese. A disagio, impaziente e allo stesso modo preoccupato. Forse Garibaldi non era l’unico a cui il caldo avesse fuso il cervello.

La zanzara veniva ogni notte, ormai, e anche quella non fece eccezione.

Quando la vide, la preoccupazione di Berto si chetò. A dispetto di tutto, le parole del vecchio l’avevano messo in agitazione. O forse era stata la risata, quel verso sgangherato da corvo, intriso di malaugurio.

La zanzara si fece avanti, circospetta come sempre. Nonostante la familiarità che aveva acquisito col posto, era comunque una creatura selvatica, che apparteneva alle tenebre.

Berto la sbirciò di sottecchi, senza fissarla direttamente, sapendo che l’altra stava facendo lo stesso. Da quella prima notte nel pollaio, vincendo la diffidenza reciproca, avevano imparato a conoscersi a vicenda. Ognuno cauto, ognuno sospettoso, entrambi pronti a mostrare zanne e artigli all’altro, ma curiosi.

Dopo aver controllato lo spiazzo deserto, la zanzara venne avanti, raggiungendo svelta il secchio pieno di sangue. Scrutò un’ultima volta in direzione di Berto, quindi affondò il muso nel recipiente, iniziando a nutrirsi con la solita ingordigia.

Berto rimase a guardarla, affascinato. Sulle spine. Sentendosi ansioso e stupido allo stesso tempo, una cosa che non gli capitava più da quand’era ragazzo, qualcosa come un milione d’anni prima.

Terminato il pasto, la zanzara rialzò il capo pulendosi le labbra con il dorso della mano, disegnandosi il viso con misteriosi ghirigori di sangue. Ruttò e si grattò. Un gesto talmente quotidiano che Berto quasi scoppiò a ridere.

Mentre si ripuliva dal pasto, la zanzara si accorse finalmente dell’involto che Berto aveva deposto a poca distanza dal secchio. Circospetta, si avvicinò fiutando quella novità nel loro rito notturno. Appurato che non si trattava di una trappola, allungò la mano verso il cartoccio, rovistandovi all’interno, interessata, forse aspettandosi altro cibo.

Berto trattenne il respiro.

La zanzara tornò a fissarlo, un’espressione indecifrabile sul volto alieno.

Distolse lo sguardo e affondò le mani nel fagotto, estraendo la maglietta deposta all’interno, rimirandola alla luce cangiante della luna, annusandola, strofinandola contro il viso volpino, imbrattandola un poco del sangue che era stato il suo pasto.

Berto la osservò in silenzio, teso suo malgrado, senza sapere bene cosa aspettarsi.

Lei si alzò in piedi, lo scrutò a lungo, trattenendo l’indumento stretto nel piccolo pugno abbandonato lungo il fianco. Poi lo depose a terra e Berto, con rammarico, credette che l’avrebbe rifiutato. Invece iniziò a spogliarsi davanti ai suoi occhi, lasciando cadere tra la polvere lo straccio logoro che indossava in quel momento.

Berto sperava che avesse messo su peso, grazie al sangue che le aveva procurato nelle ultime due settimane, ma la zanzara era ancora magrissima, tanto che riusciva a distinguerle le costole anche da quella distanza. Ossa sottili, spigolose, che tendevano la pelle in modo disarmante, mettendo in risalto seni puntuti, adolescenti, ma in grado di turbarlo e rimestargli le viscere. Avvertì la necessità di distogliere lo sguardo, per pudore, credette, invece si rese conto d’ingannarsi. Era timore quello che provava, soggezione di fronte a una bellezza sconosciuta e terribile. Così rimase a guardare mentre l’altra si liberava del tutto del suo vecchio vestito sbrindellato con gesti composti e misurati, che non le aveva mai visto esibire prima, fino a che non rimase nuda e immobile davanti ai suoi occhi sgranati. Al respiro rotto, intrappolato nella gola ora riarsa.

Una figura livida, coronata da lunghi capelli crespi e striata di sangue, vestita solo delle ombre della notte, che le sfioravano l’ombelico, disegnavano il ventre e confondevano il triangolo di peluria scura tra le gambe nervose.

Anche la zanzara lo stava guardando e lui si vergognò di quel che poteva distinguere tra l’oscurità del patio, sentendosi vecchio e stanco, del tutto inadeguato.

Sospirò, e il rumore lo colse di sorpresa, imbarazzandolo.

La zanzara non parve farvi caso.

Distolse lo sguardo e si infilò l’indumento che Berto aveva acquistato per lei, facendoselo scivolare lungo il corpo esangue, tornando a celarlo alla vista di lui.

Berto ne provò un dolore quasi fisico.

Rimase a rimirarla con una soggezione tutta nuova e la trovò bella in un modo che non sarebbe stato in grado di esprimere a parole, né in pensieri. Ma seppe che era così. Che quella creatura viva, arcana, era bella. Si scoprì a domandarsi se una bellezza come quella gli fosse mai stata elargita, durante la sua vita ma, per quanto si sforzasse, non riuscì a ricordarlo.

La zanzara lo scrutò un’ultima volta. Non fece nulla di particolare, si allontanò verso il bosco come faceva sempre al termine del pasto, sazia e forse grata. Ma questa volta senza correre, lasciando che lo sguardo di Berto indugiasse su di lei, fino a che le ombre che le facevano da madre non se la ripresero. Accoglienti e gelose.

***

L’agitazione di Berto stava montando.

Per l’ennesima, volta quella sera, si affacciò verso il secchio di sangue, ancora intatto e ormai indurito, scrutando il cortile deserto. Nonostante le battute di caccia sempre più estese e frequenti, nelle ultime due settimane la giovane zanzara non aveva mai mancato uno dei loro appuntamenti notturni: Berto cominciava a temere che le fosse accaduto qualcosa.

Per due volte si spinse fino al limitare del bosco, oscuro, impenetrabile, aguzzando inutilmente la vista, tendendo l’orecchio. La selva lo derise con fruscii ingannevoli e rumori spezzati, prendendosi gioco della sua preoccupazione.

Rientrò frustrato, ancora più irrequieto.

Quando infine la luna tramontò, si accasciò sul divano, preda di sentimenti che gli riusciva difficile ammettere. Chiuse gli occhi, cercando invano di non pensare a nulla, assediato dalla solita canicola cui quell’estate non pareva concedere tregua.

Si destò di soprassalto, intontito, rendendosi conto solo in quel momento di essersi addormentato profondamente. Spalancò gli occhi, ma la penombra si mangiava i contorni delle cose, rendendole vaghe e irriconoscibili, aggiungendo smarrimento alla sua confusione.

Poi le udì di nuovo, ora più distinte: grida in lontananza, e si tirò a sedere con il cuore che gli tambureggiava nel petto. Voci rabbiose, questa volta, cariche di disprezzo e dileggio.

Garibaldi?

Un brivido lo percorse lungo la schiena sudata, trasmettendogli una sensazione di allarme.

Si alzò, cercando le scarpe finite chissà dove, imprecando, dimenticandosi persino di accendere la luce nell’agitazione del momento.

Uno sparo, poi un secondo, che lo immobilizzarono nel bel mezzo della stanza, con la canottiera infilata di sghembo e un’espressione stravolta.

Berto bestemmiò e si precipitò all’esterno, recuperando al volo la torcia e svellendo di forza la scure piantata in giardino. Anche in auto, la strada che portava all’abitazione di Garibaldi, lunga e tortuosa, l’avrebbe costretto ad aggirare la collina che delimitava la proprietà del vicino, facendogli perdere troppo tempo. Senza starci a pensare, infilò invece il sentiero tra i campi, sconnesso e disagevole, ma più diretto.

Mentre correva a perdifiato, cercando di non cadere o, peggio, lesionarsi una caviglia, lo raggiunsero altri strilli acuti, lacerati dalla sofferenza. Riguardo a chi potessero appartenere, Berto nutriva ormai pochi dubbi. Nonostante i polmoni già roventi per lo sforzo e l’agitazione, maledicendo la pancia ingombrante, corse più forte, spazzando il terreno davanti a sé con la torcia spianata.

Cadde un paio di volte, prima di raggiungere il muro che recintava la proprietà di Garibaldi, la seconda rovinosamente. Ogni volta, tra il dolore e le bestemmie, le grida della zanzara l’avevano costretto a rialzarsi, obbligandolo a proseguire con maggior lena.

Ansimante, si appoggiò alla recinzione per riprendere fiato. L’ennesimo strillo lo costrinse a scavalcare, avvertendo il tessuto della canotta zuppa di sudore lacerarsi lungo la schiena, dopo essersi impigliato chissà dove.

Quando carambolò nel cortile, rischiando di amputarsi un piede con la scure che ancora impugnava, fu investito dalla luce delle torce elettriche, ora puntate su di lui.

«E questo chi cazzo è?» chiese una voce che non riconobbe, facendo scattare la sicura di una doppietta da caccia.

«Che mi prenda un colpo» abbaiò Garibaldi, in camicia e mutande, altrettanto sorpreso. «È quello stronzo di Berto.»

Quello stronzo di Berto si portò il palmo alla fronte per ripararsi dalla luce abbagliante, cercando di mettere a fuoco la situazione. Udiva la zanzara lamentarsi, ma senza riuscire a scorgerla, accecato com’era. Il respiro corto e bruciante, che gli grattava la gola riarsa, non aiutava per nulla.

«Berto? Ma che ci fa qui, a quest’ora? E come cazzo è conciato?»

Garibaldi li gratificò con quella sua risata rauca, imbevuta di sarcasmo.

«Un abito alquanto trasandato per lo spettacolo che abbiamo in programma, ma noi non ci formalizziamo, vero figliolo?»

Anche Sergio rise: a Berto era tornato in mente come si chiamava il primogenito del vecchio, riconoscendo lo stesso, insopportabile, raglio. Si massaggiò il culo dolorante e strizzò gli occhi, cercando di tirarsi in piedi.

«Sei qui per la zanzara? Le stacchiamo la testa e la portiamo in paese prima dell’alba» lo informò Sergio, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. «Pensavamo fosse più grossa, o furba, invece è bastato un secchio pieno di sangue per attirarla in trappola. Mio padre dice che sei stato tu a dargli l’idea. Devi essere un dritto, dopotutto, anche se non si direbbe, a guardarti adesso.»

Berto deglutì, ripensando a quando aveva incrociato Garibaldi all’uscita dalla farmacia, con le sacche di sangue strette al petto, maledicendo la propria stupidità.

Sergio allontanò la torcia dai suoi occhi e la puntò invece verso un palo di ferro conficcato nel terreno, alla loro destra. Investita dal fascio di luce, la zanzara guaì di dolore, spaventata, ma non li degnò di uno sguardo, troppo impegnata a mordersi la caviglia attorno alla quale era serrata una tagliola. La catena metallica a cui era saldata la teneva prigioniera al palo. La bocca era impastata di sangue e saliva, le labbra arricciate, gli occhi sbarrati dal terrore.

Berto sapeva cosa stava cercando di fare: aveva visto una volpe, da ragazzino, azzannarsi in quel modo per sfuggire a una trappola. La bestia aveva morso così a fondo e con tale rabbia da staccarsi la zampa, solo per morire dissanguata qualche metro più in là. L’accanimento della zanzara, della ragazzina, era lo stesso, in quel momento.

Guardandola, a Berto si strinse il cuore. D’istinto mosse un paio di passi nella sua direzione, stringendo convulsamente la scure.

«Attento» lo avvertì Sergio. «Se ti avvicini, facile che morda, quella troietta. È giovane, ma ha i denti di un lupo.»

«Magari ci divertiamo un po’, prima» intervenne Garibaldi, conciliante. Generoso.

A Sergio brillarono gli occhi.

La rabbia di Berto, invece, montava.

In quel momento, la zanzara incrociò il suo sguardo e la furia che l’animava fu spazzata via dalla disperazione. Spalancò gli occhi e scoppiò in un singhiozzo sconnesso, doloroso, che colpì Berto come uno schiaffo. Il suo stesso sangue le imbrattava viso e capelli, scivolando lungo la gola, impregnando la maglietta che le aveva donato un paio di settimane prima e disegnando una macchia ampia e violacea in cui pareva quasi annegare.

«Vado a prendere una tanica di benzina» annunciò Garibaldi, sghignazzando, allontanandosi. «Vediamo se sa ballare con lo stesso entusiasmo con cui strilla, questa puttana.»

Berto trasse un respiro profondo, stringendo il manico della scure con più forza, fino a sentirsi le dita indolenzite.

Sergio, tenendosi a distanza, pungolò la zanzara con la canna del fucile, abbassandole lo scollo della maglietta. «Mio padre insiste che devono avere una doppia fila di capezzoli, come i cani, ma io scommetto invece che hanno un paio di tette normali, come qualsiasi donna.»

Rise, spingendo la doppietta verso il basso. «Magari un po’ striminzite, in questo caso ma, ehi, chi si accontenta gode.»

Berto scattò in avanti e calò la scure di taglio sulla catena che teneva prigioniera la zanzara, facendone sprizzare scintille.

«Ma che cazzo fai!» urlò Sergio, colto di sorpresa. «Così rischi che si liberi e scappi.»

Berto lo ignorò e colpì di nuovo, più forte. La zanzara ululò nella notte, lasciando che le lacrime le scavassero strisce pallide tra il rosso scuro che le imbrattava la faccia.

Berto alzò la scure per la terza volta, deciso a spezzare la catena, ma Sergio lo spinse bruscamente da parte, facendolo cadere in ginocchio.

«Cazzo, aveva ragione mio padre sul tuo conto: sei proprio un coglione, amico» lo accusò il figlio di Garibaldi, piantandogli il calcio della doppietta in fronte e mandandolo a ruzzolare tra la polvere, a pochi passi dalla zanzara.

Berto fu sommerso da una marea dorata che lo accecò per qualche istante. Si tirò a sedere, mentre l’orizzonte beccheggiava allegramente intorno a lui e si tastò la fronte, rimanendo stordito a contemplare le proprie dita insanguinate. Spinto dalla curiosità, se le portò alla bocca e succhiò: il sapore era amaro, caldo e ferroso. Si chiese cosa ci trovassero le zanzare di così appetitoso. Scosse il capo e il movimento gli esplose una saetta di dolore attraverso le tempie. Aveva perso anche la scure, si rese conto con vago disappunto.

Mentre Sergio incombeva su di lui, sbirciò di sottecchi la zanzara – la ragazzina.

Aveva smesso di lamentarsi e piangere: lo stava guardando anche lei, affranta e impaurita, forse delusa dal campione che le era toccato in sorte.

Berto cercò comunque di strisciare nella sua direzione: forse sarebbe riuscito a liberarla dalla tagliola, provò a illudersi.

«Un coglione patentato» sentenzio Sergio, emettendo un verdetto definitivo, per quanto lo riguardava. «Se ci tieni così tanto a lei, magari, oltre alla testa di questa troia, ci inchiodiamo anche il tuo uccello al portone della chiesa.»

Il figlio di Garibaldi puntò la doppietta contro la zanzara e rise.

Accadde tutto molto lentamente e molto in fretta, avrebbe potuto raccontare in seguito Berto, se qualcuno avesse desiderato fregiarsi dell’opinione di un coglione.

Il figlio di Garibaldi stava ancora ridendo, quando il fucile gli cadde di mano rischiando di esplodere un colpo che avrebbe polverizzato la testa di Berto prima ancora che lui potesse rendersene conto.

Aggrappate alla doppietta da caccia c’erano ancora le mani di Sergio, le dita callose a carezzare il legno levigato e il metallo dell’arma, come pallidi rampicanti potati anzitempo. I moncherini protesi delle braccia sprizzavano un getto convulso di sangue, così generoso da arrivare a imbrattargli il viso, caldo e viscoso.

Sergio, notò Berto con raccapriccio tra i rivoli scarlatti, stava ancora sorridendo.

Alle sue spalle si era coagulata un’ombra densa, più scura della notte, enorme.

C’è una bestia grossa, nascosta nel bosco. Una bestia astuta

Era stato Garibaldi a pronunciare quelle parole? Berto non riusciva proprio a ricordarlo, in quel momento.

L’ombra si esibì in un gesto distratto, allargando le braccia come il banditore di uno spettacolo itinerante e la testa di Sergio ruzzolò in mezzo alla corte, rimanendo a fissare chissà cosa attraverso uno sguardo stupito, quasi sognante. L’estraneo si leccò le dita, lappando con cura le unghie cornee, taglienti come rasoi. La creatura sostenne senza sforzo il peso del corpo morto e poi affondò il muso attraverso il collo decapitato, trangugiando avide sorsate dalla carotide, lasciando che il sangue della sua preda inerte battezzasse quel brindisi osceno.

Berto rinculò, fino a trovarsi fianco a fianco della zanzara, il corpo esile e diafano della ragazzina all’improvviso schiacciato contro il proprio. La testa gli faceva un male cane e ogni tanto veniva colto da un giramento, ma si sforzò di non perdere conoscenza. Mentre il mostro era distratto dal proprio pasto, allungò le mani e, tremando, fece forza sulle ganasce metalliche per liberarla.

I denti erano penetrati nella carne fino a intaccare l’osso.

La zanzara strillò, un grido acuto che richiamò l’attenzione di Garibaldi, ancora all’interno della casa.

«Che succede là fuori? Vi state divertendo senza di me?»

La creatura enorme al centro della corte tracannò un ultimo sorso e poi lasciò andare il cadavere di Sergio, ormai livido, del tutto prosciugato, che si afflosciò a terra privo di vita e sostanza. Fissò intensamente Berto per qualche istante, strozzandogli il respiro in gola, e poi rivolse la propria attenzione alla voce che proveniva dall’abitazione.

Con un movimento fluido fendette la corte e, mentre Garibaldi si affacciava all’ingresso portando con sé la famigerata tanica di benzina, sempre in camicia e mutande, la zanzara lo spinse dentro, facendolo volare attraverso la stanza senza alcuno sforzo apparente. Dall’interno provenne uno schianto nauseante. Quindi la creatura varcò a sua volta la soglia, nonostante nessuno l’avesse invitata a farlo, come si diceva volesse invece la tradizione. O almeno la buona creanza.

Garibaldi smise di ridere e cominciò a gridare.

Le grida durarono a lungo, molto a lungo.

Berto non avrebbe saputo dire quanto, perché a un certo punto perse la cognizione del tempo. Solo quando riuscì ad allentare abbastanza la morsa della tagliola in modo che la zanzara potesse liberare la caviglia martoriata, riprese a pensare con un minimo di lucidità. A quel punto, tuttavia, i nervi minacciavano di tradirlo e credette di essere sul punto di svenire. Lo sgradevole tanfo del proprio piscio gli strappò un conato doloroso. Si sdraiò su un fianco e iniziò a piangere in silenzio, sentendosi all’improvviso molto piccolo e spaventato.

La zanzara, invece, nonostante la ferita slabbrata alla caviglia, si era alzata in piedi, accanto a lui.

Sull’uscio della casa di Garibaldi era apparsa di nuovo quella creatura da incubo.

Le grida del vecchio erano cessate, finalmente, si rese conto in quel momento Berto, e un silenzio irreale e opprimente riempiva il cortile.

Il mostro venne avanti, divorando lo spazio con il solito movimento fluido e repentino. Prima che potesse raggiungerlo, tuttavia, la ragazzina proruppe in un pigolio frenetico, acuto, ma per nulla sgradevole. Quasi un cinguettio, che ebbe il potere di arrestare la creatura.

Berto rimase a osservare la scena, affascinato, a quel punto troppo stanco e sfinito per provare alcunché.

Poi, una brezza leggera, rinfrescante, si levò a lambire coloro che erano lì riuniti, i morti e i vivi. Un refolo che forse preannunciava pioggia rinfrescante e troppo a lungo attesa, quell’estate. Un istante perfetto e subito perduto.

Le zanzare, la ragazzina e il mostro, dovevano aver raggiunto un accordo nella loro incomprensibile discussione perché, oltrepassandolo, si avviarono verso l’uscita della corte senza degnarlo di uno sguardo.

Tra le ombre, Berto scorse una terza creatura: un’altra femmina, adulta, che stringeva un fagotto di stracci al seno. Il fagotto si mosse e pigolò piano, affamato, e la zanzara cinguettò qualcosa in risposta, spingendo una mammella scarna contro quelle labbra affamate. Verso minuscoli, acuminati dentini da latte.

Si allontanarono tutti e quattro in direzione della selva, inoltrandosi nelle tenebre che li attendevano poco oltre, scomparendovi dentro. Lasciando Berto solo nel cuore della notte.

Dopo qualche istante, trovò infine la forza di tirarsi in piedi, trascinandosi barcollante verso la casa di Garibaldi. Quando la raggiunse e accese la luce oltre l’ingresso, sbirciandovi dentro, vomitò quel poco che aveva nello stomaco sul pavimento di ceramica. Non si sentì in colpa, non avrebbe potuto peggiorare la situazione nemmeno volendo.

La zanzara si era bevuta Sergio fino all’ultima goccia, ma il sangue di Garibaldi era sparso su tutte le pareti e il soffitto del soggiorno, insieme a pezzi dell’altro che faticava a riconoscere.

Berto vomitò una seconda volta, saliva e bile, tutto ciò che gli restava in gola. Poi rimase a fissare la testa del vecchio deposta con cura al centro del tavolo da pranzo. Il teschio di Garibaldi lo fissava senza vederlo, privo di orbite com’era, ma con caparbia intensità. La bocca era atteggiata in un ghigno che poteva ricordare una smorfia sbigottita, ma anche un grido che non avrebbe mai avuto fine. Di certo non stava più ridendo, e di questo Berto gliene fu grato.

Tornò all’esterno e si sedette accanto alla tagliola insanguinata, colto da un giramento.

Fiutò l’aria: sì, sarebbe venuto a piovere, finalmente.

Ah, e avrebbe anche dovuto segnalare l’accaduto, certo. Allertare la protezione civile e la guardia forestale. Fornire tutte le informazioni utili ad abbattere i mostri responsabili della carneficina.

L’avrebbe fatto. Sicuro. Appena recuperate le forze necessarie.

L’indomani, forse. Con calma.

Non c’era fretta. No, nessuna urgenza.

Si sdraiò a terra, rimanendo a fissare stelle sempre più opache che screziavano fiacche il cielo di sopra, mentre la pioggia iniziava davvero a cadere, confondendo insieme tutto il sudore, il sangue e le lacrime versate quella notte.

Rimase lì per un bel po’, a pensare a nulla di preciso, lasciando che la pioggia lo investisse, mondandolo dai suoi peccati. Chiedendosi se avrebbe mai più visto la zanzara.

La sua piccola zanzara.

E al perché non le avesse mai dato un nome da poter almeno ricordare.

L’AUTORE
Davide Camparsi è nato e vive a Verona. Ha pubblicato più di cinquanta tra racconti e novelle, oltre ai romanzi Tre di nessuno, L’Angelo dell’Autunno, Alessandro Nero e la raccolta Tra Cielo e Terra. Ha vinto due volte il Trofeo RiLL e il Trofeo La Centuria e La Zona Morta, nonché i premi John W. Polidori, Esescifi ed Esecranda. Il suo racconto Non di solo pane è stato tradotto e pubblicato in Spagna, Sudafrica e Irlanda. Per il mercato anglofono ha pubblicato anche una poesia inclusa nell’HWA Horror Poetry Showcase Volume III, e racconti per le riviste The Dark e Future FS Digest. La sua ultima raccolta horror, Una Geografia delle Tenebre, è stata pubblicata da Dunwich Edizioni.

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