Nella coda del caimano 3° episodio di Gordiano Lupi

Nella coda del caimano 3° episodio di Gordiano Lupi30 agosto 1998

Questa brutta storia continua a seminare morti e io sono sempre presente quando accade qualcosa. Sembrano avvertimenti sinistri, come se qualcuno volesse dirmi di fare molta attenzione.
Ieri abbiamo preso un camion diretto a Baracoa, uno dei tanti che portano pesce o caffè alle industrie di stato. È bella la strada che porta alla città. Senza avvisare, dopo foreste di palme e banani, si aprono spiagge a ridosso di alte montagne. Mio padre mi ha mostrato la piantagione di caffè dove ha lavorato a lungo qualche anno fa e le spiagge dove veniva a tuffarsi quando era un ragazzo.
È venuta anche la mamma questa volta, è la più esperta di santeria e può spiegare cose per noi misteriose.
Karin non l’ho voluta. Non sono spettacoli per ragazzine.
Sgozzano galli e scorre sangue su quella specie di casseruola metallica che chiamano prenda. Sarebbe svenuta solo a vederla. Se poi adesso ripenso a quello che è successo mi dico che ho preso la decisione migliore. Anche se lei si è infuriata e ha detto che devo smettere di trattarla come una bambina perché ha già quattordici anni e da tempo è diventata donna. Quando ci vedremo e le racconterò tutto mi ringrazierà. Non è stato un bello spettacolo. No, non lo è stato davvero.
La strada che porta alla città si avventura tra foreste tropicali e case di legno, un panorama inconsueto per me che vivo sulla sponda d’un fiume. Osservo contadini che allevano maiali e bambini correre scalzi per strada. Alcuni di loro giocano con carrettini di legno artigianali che lanciano da una piccola salita per provare l’ebbrezza della velocità.
Passano poche auto e non c’è nessun pericolo.
Ho guardato a lungo quelle scene di vita e ho rincorso con gli occhi bambini che giocavano a nascondersi e contadini impegnati a lavorare i campi. Ho salutato improvvisati venditori di caffè e cioccolata. E ho pensato che se un giorno riuscirò a scappare da qui e a cambiar vita questa resterà sempre la mia gente. E questa terra sarà sempre la mia terra. E la porterò nel mio cuore, ovunque vada.
Siamo arrivati a Baracoa dopo un’ora di viaggio.
La città è affascinante e io non l’avevo mai vista prima di allora.
Mia madre ha detto che sono nato là, nell’ospedale sopra la collina, quello vicino al grande albergo, ma ho sempre vissuto a Yumurí e non c’è stata mai occasione di tornare a Baracoa.
Ho attraversato a piedi un lungomare proteso verso l’oceano che si faceva largo tra case cadenti e strade di terra e sassi. Il vento di mare percuoteva facciate di antichi palazzi e piante secolari stendevano rami nel cielo a indicare la strada ai passanti. Il sole bruciava il selciato e la polvere si sollevava dietro i nostri passi, un caldo intenso non faceva respirare. Ho visto ragazzini camminare svelti a torso nudo sul muretto tra la strada e il mare. Qualcuno si tuffava, altri giocavano con una palla di stracci rimediata chissà dove. Odore di riso e fagioli veniva dalle case con le porte aperte. Era ora di pranzo.
Abbiamo cercato la casa di Roberto.
La mamma sapeva che abitava vicino al lungomare, in una traversa della piazza centrale, dove una vecchia chiesa barocca apre la sua facciata davanti a un piccolo parco e due robuste piante di ceiba.
Abbiamo chiesto informazioni a qualche passante e tutti si sono dati un gran da fare per indicarci la strada da percorrere. Roberto è molto conosciuto in città e non è stato difficile scoprire il suo indirizzo.
Un negro dalla corporatura possente, con pochi capelli in testa e dall’età indefinibile ci ha accolto nella sua piccola casa.
Era Roberto e ci aspettava.
Francisca l’aveva avvisato della nostra visita.
Siamo entrati in una stanza oscura dove lui ci ha mostrato la prenda, una casseruola in alluminio con terra rimossa, cenere di sigaro, pezzi di legno, piume di gallo e carcasse di animali morti.
“Questo è lo strumento che serve per l’evocazione”, ha detto.
Poi ha indicato uno scheletro umano, un cranio ben conservato e quattro ossa incrociate, le articolazioni delle mani e delle gambe.
“È un mio antenato haitiano” ha spiegato “e i resti ce li tramandiamo da generazioni. Il primo maschio della famiglia diventa babalao e ha lo scheletro in eredità. Con questo entro in contatto con gli spiriti”.
Confesso che ho avuto un po’ di paura.
Non avevo mai visto una cosa simile.
Mia madre mi ha preso sotto braccio e mi ha tranquillizzato.
“Ne ho viste tante in vita mia. Non accadrà nulla stai sicuro”.
Accanto alla prenda c’erano candele accese che illuminavano la stanza, poi sigari spenti e rum. Poco lontano un gallo nero e una capra, vivi.
Roberto ha iniziato l’evocazione pregando. Ha bevuto del rum e fumato un mozzicone di sigaro spruzzando il tutto sulla prenda e sull’altare. Poi ha fatto una cosa che mi ha davvero disgustato. Ha afferrato il gallo e con un morso deciso gli ha staccato la testa dal collo. L’animale si è dibattuto solo un poco e non ha avuto neanche il tempo di accorgersi di ciò che gli stava succedendo. È uscito sangue in abbondanza dal corpo della povera bestia sgozzata. E lui lo ha versato sulla prenda insieme al rum e al fumo del sigaro. Ha intonato canzoni in una lingua a metà tra lo spagnolo e l’africano, la stessa che avevo sentito da Francisca.
Poi ha invocato lo spirito percuotendo con le ossa il cranio spruzzato di sangue. L’antenato haitiano si è incarnato in Roberto che ha cominciato a parlare con una voce gutturale profonda.
Una voce che veniva dall’aldilà.
Io ho avvertito un brivido di paura quando l’ho visto afferrare un coltello e pugnalare la capra a morte, selvaggiamente. La bestia ha emesso gemiti di sofferenza, poi si è accasciata al suolo. Roberto l’ha sollevata da terra e si è cosparso il corpo con il sangue dell’animale.
Poi lo ha bevuto in abbondanza. Non era Roberto a farlo.
Era soltanto il suo corpo.
L’haitiano aveva preso il suo posto e parlava con una lingua incomprensibile. Mia madre però capiva e guardando atterrita la scena ci ha detto: “Si sta fortificando per affrontare un altro spirito”.
È stato allora che abbiamo visto Roberto cambiare espressione.
Ha cominciato a parlare con un’intonazione diversa.
Non c’era più lo spirito dell’antenato dentro di lui.
Abbiamo visto Roberto alzare in alto il coltello.
Lo abbiamo udito gridare e le rughe del volto disegnavano una smorfia di dolore. Era come pervaso da una furia incredibile e si leggeva la collera nei lineamenti del viso.
“Non mi scaccerete mai dalla mia casa!” gridava.
Il coltello grondava ancora sangue di capra.
È calato più volte sul petto del babalao. Fino a ucciderlo.
Era la mano di Roberto a impugnare la lama ma uno spirito malefico la guidava. Lo abbiamo visto cadere a terra e coprire il sangue del gallo sgozzato e della pecora. Lo abbiamo visto cadere sul suo stesso sangue.
Solo a ricordare mi sento sconvolgere lo stomaco.
Ricordo che ho vomitato.
Ricordo che sono svenuto accanto a mio padre.
Quando mi sono svegliato ero su d’un camion di ritorno a Yumurí e sentivo parlare piano il babbo e la mamma. Vedevo i loro volti tesi e contratti. Ricordo solo una gran confusione in testa, le loro frasi preoccupate e la voce di mia madre che sussurrava:
“Lo spirito del fiume ha ucciso anche il babalao”.

20 settembre 1998

Quando ho sentito Pepin gridare ho avuto la sensazione che fosse accaduto qualcosa di grave. È stato come un oscuro presagio.
Era un pomeriggio di sole forte di fine settembre e c’erano molti turisti in giro, quasi tutti chiedevano d’essere condotti sul fiume. Là si poteva stare tranquilli e passare un’intera giornata in silenzio a nuotare, ascoltando soltanto la musica d’una foresta tropicale e il canto degli uccelli. Neri avvoltoi per compagni e una vallata divisa in due, come una spada enorme trafitta nella roccia, completavano un quadro di scogliere a strapiombo sull’acqua.
“Non aveva voluto pagare” diceva Pepin alla gente che si era radunata attorno alla sua imbarcazione “io glielo avevo detto che la tariffa era di stato e che non ci guadagnavo una lira, ma lui ha fatto finta di non capire ed è sceso dalla barca. Non ha voluto neppure che qualcuno gli facesse da guida lungo il corso del fiume”.
Pepin è il barcaiolo. Quello che traghetta i turisti per conto dello stato, guadagna cento pesos al mese e soprattutto raccatta qualche mancia, perché è con quelle che mantiene cinque figli e una moglie a Yumurí.
Oggi non è andata così con quel tedesco, quello non gli aveva pagato neppure la corsa e non ha potuto attendere che lo facesse al ritorno. Perché per lui non c’è stato un ritorno.
Il fiume lo ha trascinato sul fondo nel punto maledetto.
“Avrà voluto tuffarsi e senza una guida che lo mettesse in guardia ha finito per scegliere proprio il posto sbagliato”, ha concluso Pepin.
Siamo partiti in gruppo per renderci conto dell’accaduto.
Pepin traghettava la polizia e noi lo seguivamo a nuoto.
Io ero con Karin.
Le ho raccontato tutto quello che è accaduto a Baracoa e ha fatto fatica a credere alle mie parole. La capisco, perché se non avessi assistito alla scena avrei avuto i suoi stessi dubbi. Però ha compreso che non ho voluto che venisse solo per non spaventarla. E mi ha perdonato.
Quando siamo giunti sul luogo abbiamo assistito al solito macabro spettacolo. Non si trattava soltanto di un corpo affogato. Ho notato la stessa tecnica di mutilazione delle gambe che pareva fossero state colpite da tremendi colpi di machete. Galleggiavano poco distanti dal resto del corpo seguendo il corso della corrente. Il volto aveva tracce di denti, come morsi di bestia feroce.
E noi guardavamo la scena terrorizzati.
Ho tappato gli occhi a Karin perché non vedesse.
Lei mi ha abbracciato forte.
Aveva voglia di vomitare e anch’io ne avevo a essere sinceri.
Un cadavere distrutto dalla forza di quel mulinello infernale veniva ripescato e sottratto alla corrente.
Ancora uno straniero.
La polizia avrebbe avuto di che lavorare nei prossimi giorni
Ho abbracciato Karin e le ho detto: “Dobbiamo fare qualcosa”.
Il problema era che non sapevo cosa.

25 settembre 1998

Mia madre ieri mi ha raccontato una storia.
Io l’ho ascoltata con attenzione perché mi piacciono le storie.
E poi questa parlava di me.
Mi ha detto che sono nato a Baracoa perché serviva un ospedale attrezzato e non avrebbe potuto partorirmi in casa come ha fatto con i miei fratelli più piccoli.
“Non saresti mai venuto al mondo se non fosse stato per la Milagrosa”.
Io mi sono incuriosito e ho chiesto che spiegasse meglio.
Non sapevo chi fosse la Milagrosa. Non sapevo niente di quella storia.
Il babbo era fuori per la pesca. Eravamo solo io e lei.
E lei ha cominciato a narrare.
“Tuo padre stava insieme a un’altra prima di me, una delle campagne vicino Baracoa. Lui lavorava alle piantagioni di caffè che ha lasciato per venire a vivere a Yumurí. Quella donna non ha mai accettato la scelta di tuo padre e su di lui ha scatenato maledizioni, facendo cose di brujeria. Maledisse tuo padre e disse che non avrebbe mai potuto avere un figlio da un’altra donna”.
Ho ascoltato in silenzio.
“Tu sei nato per merito della Milagrosa”
“E chi sarebbe la Milagrosa?”
“È Amelia, la donna dei miracoli, che apre le strade e indica il cammino, ma che soprattutto veglia sulle nascite e sui bambini. La statua in marmo bianco è al cimitero dell’Avana. Io e tuo padre siamo stati fin là a chiederle una grazia”
“È così che sono nato?”
“Sì, ma tra mille difficoltà. Sei nato all’ospedale di Baracoa e i medici dicevano che saresti morto e che il parto per me era un rischio. Ma io sapevo che non era così. Lo sapevo perché Amelia mi aveva rassicurato”.
Alla fine della storia mia madre ha detto che è giunto il tempo che io vada all’Avana per rendere omaggio alla Milagrosa. Ha aggiunto che può indicarmi molte cose sul futuro e che la mia vita è nelle sue mani.
“Ma L’Avana è a mille chilometri da qui. Come farò a raggiungerla?”
“Come abbiamo fatto noi sedici anni fa. Con l’autostop. Passano tanti camion e auto di turisti. E poi è una cosa che devi fare. Un impegno che abbiamo preso per te molti anni fa”.
È stato così che ho deciso. Sarei partito per L’Avana, prima dell’inizio della scuola. In una settimana sarei riuscito a fare rientro a Yumurí.
Ne ho parlato anche con mio padre a cena e lui si è detto contento della decisione. Sapeva che la mamma avrebbe affrontato l’argomento. Sapeva che io non avrei avuto paura di un viaggio difficile ma dovuto.
“Sei un uomo ormai” ha detto “e devi imparare a cavartela”.
Mi hanno fatto piacere le parole del babbo e ho guardato Ivan e Andres con un’aria di superiorità mista a orgoglio.

30 settembre 1998

È stato così che sono partito per la capitale e sto viaggiando da un paio di giorni. Non è facile trovare un imbarco diretto e bisogna procedere per tappe. È venuta Karin con me. Non ha voluto che partissi solo.
Ha dei parenti all’Avana e vuole approfittarne per passare da loro.
E poi mi ha detto: “Non penserai che ti faccia andare all’Avana da solo, vero? Con tutte le puttane che ci sono in città…”.
Ho dovuto accontentarla, ma l’ho avvertita che non sarebbe stato un viaggio di piacere. E se ne sta accorgendo. Passiamo da un camion all’altro e viaggiamo in compagnia di carichi di caffè e cacao. A volte anche in mezzo ai maiali e alle capre. Turisti con le loro auto nuove non se ne fermano. Forse lo farebbero se Karin fosse sola, ma con me accanto non ce n’è uno che accenni a rallentare quando vede la nostra mano alzata. Ieri abbiamo dormito a Las Tunas. Una famiglia di contadini ci ha aperto la stalla e abbiamo improvvisato un giaciglio di paglia. Non faceva freddo e non siamo stati male, anche se il puzzo delle capre e delle vacche non faceva respirare. Poi siamo ripartiti e oggi contiamo di arrivare alla capitale, se la fortuna ci assiste.
Non è facile risalire il caimano partendo dalla coda, però attraversiamo paesi e vediamo cose che non pensavamo neppure esistessero e siamo contenti di quest’avventura. Troviamo luoghi appartati e ci fermiamo a fare l’amore. Ieri lo abbiamo fatto al tramonto sulla spiaggia di El Colchon, un’insenatura sotto le montagne della Sierra Maestra vicino Santiago. Tutto sommato credo di aver fatto bene a far venire Karin, mi conforta la sua presenza e mi dà coraggio quando credo di non potercela fare. Utilizza armi tutte femminili per convincere camionisti a darci un passaggio e contadini a ospitarci per la notte.
Abbiamo visto la Sierra e le montagne a picco sul mare, i luoghi della rivoluzione mandati a memoria sui libri di storia. Siamo passati da Guantanamo e Baiamo, quel cadente panorama di case in legno su strade distrutte dal tempo. Animali allevati nel cortile di casa e ragazzini scalzi che correvano incontro alle poche auto di passaggio. Biciclette scassate e cavalli denutriti insieme ad asini affaticati come unici mezzi di trasporto. Pochi negozi con poche cose da mangiare e una fila di persone davanti allo spaccio dei generi alimentari razionati con la tessera. Ci siamo sentiti dei privilegiati con il nostro fiume che ci dà l’occorrente per vivere e non dobbiamo affannarci più di tanto per avere qualcosa da mangiare. Santiago l’abbiamo solo sfiorata da lontano ma non ci siamo avventurati dentro. Ci ha dato l’impressione della grande città corrotta che vive di truffe ed espedienti. Tante puttane per strada, tanta gente che vuol venderti di tutto. Siamo scappati via volentieri. Il nostro camion ci ha condotto fino a Las Tunas, dove finalmente abbiamo incontrato una città tranquilla e non un posto di frontiera. Grandi condomini e piccole case coloniali dalle facciate restaurate e in ordine. Piazze spaziose e alberi di ceiba e frambojantes lungo le strade larghe e ben asfaltate. Las Tunas ci ha dato l’impressione d’una città modello dove la miseria dell’oriente sembra non sentirsi o almeno non la si dà troppo a vedere. Siamo ripartiti con un camion di grano diretto a un’azienda della periferia dell’Avana. Domani saremo a destinazione, finalmente.

1 ottobre 1998

L’Avana. Non la immaginavo così bella. Le foto dei libri di scuola e le immagini viste nell’unica televisione a colori del villaggio non le rendono giustizia. L’Avana è un sogno a occhi aperti e io e Karin lo stiamo vivendo. Ti sconvolge il via vai di auto scoppiettanti e autobus malandati, ti senti in mezzo a una folla di gente che si riversa nelle ampie strade a quattro corsie dei quartieri eleganti. Biciclette e taxi particulares, auto di turisti veloci e sicure, jineteras a braccetto di vecchi stranieri, froci che fanno la spola sul lungomare.
L’Avana da sempre terra di vizi e contraddizioni.
Palazzi condominiali corrosi da salmastro e incuria accanto alle villette del Vedado. Grandi alberghi e grattacieli sul mare. Vecchi ruderi di un’antica grandezza e case cadenti abbattute dalla furia dei tornados che nessuno si è mai curato di restaurare.
Siamo entrati da Guanabacoa e subito è comparsa una maleodorante raffineria di petrolio. Abbiamo percorso tutta la Via Blanca fino al porto industriale da dove parte a ogni ora il battello per Regla. Abbiamo visto la statua enorme del Cristo che sorveglia la baia. E poi il Malecón e la sconvolgente bellezza del mare che si schianta sul parapetto in granito e lo supera per andare a bagnare ragazzini che giocano a rincorrersi con le onde.
Tutto questo è L’Avana e anche di più.
L’abbiamo percorsa abbracciati in una frenesia di sensazioni che non si possono descrivere. Occorre viverle.
Poi la notte ci ha sorpresi stanchi e affamati a casa dei parenti di Karin, in un vecchio condominio di Luyanò. Un po’ di riso con fagioli e del tamal in umido ci ha ristorato a sufficienza.
Domani andremo al Cementerio Colón.
Adesso l’unica cosa che voglio è un letto per riposare.
Abbiamo raggiunto la testa del caimano dopo due lunghi giorni di viaggio e già la vista dei suoi denti feroci mi fa rimpiangere la tranquillità del fiume.

2 ottobre 1998

Siamo andati dalla Milagrosa e ho tenuto fede al vecchio impegno.
Ho ringraziato portando dei fiori che si comprano proprio fuori del cimitero. Ho toccato la pietra bianca del monumento ad Amelia e me ne sono andato senza voltare le spalle, camminando all’indietro e fissando quegli occhi profondi scolpiti nel marmo. Così mi hanno detto di fare e anche se non sono molto esperto di queste cose so eseguire le raccomandazioni. Poi le ho chiesto anche quello che aveva detto mio padre, lui ci teneva così tanto e io l’ho accontentato.
Il babbo insiste che devo cambiar vita e che non posso seppellirmi a Yumurí. Ha detto che Amelia può aiutarmi, lei apre tutte le strade.
“Promettile quello che hai di più caro”, mi ha detto.
E io le ho promesso un dono, una cosa che porto sempre con me.
Le ho detto che sarei tornato da lei prima di partire e gliela avrei consegnata. Tanto sapevo che era una promessa fatta tanto per fare. E poi non lo so se davvero me ne voglio andare da casa mia. Non lo so proprio. Rinunciare alle gite sul fiume e alla barca da pesca con mio padre. Abbandonare un mondo che da sempre è il mio mondo.
Anche Karin ha mormorato delle preghiere davanti alla statua della Milagrosa. Ha qualcosa da chiedere, come tutti noi, però non può rivelare cosa, altrimenti non si avvera. O almeno così dicono.
Abbiamo lasciato il Cementerio Colon sotto un sole caldo.
Fuori venditori di maní attiravano improbabili acquirenti e un vecchio che vendeva il Granma cercava qualche turista per piazzare una moneta da tre pesos con la figura di Che Guevara.
Questa era L’Avana. Tentatrice e torbida come me l’avevano descritta. Ti faceva sognare e tradiva come un’amante infedele, diceva mia madre. E noi eravamo soltanto due ragazzini di campagna che domani avrebbero preso un altro camion diretto a oriente. La nostra vita pulsava altrove, in riva a un fiume che sfociava nell’oceano.

3 ottobre 1998

È stato al mattino che ho avuto la brutta sorpresa.
Stavo preparando i pochi bagagli per il viaggio e non vedevo l’ora di salutare i parenti di Karin e partire. Non che mi trovassi male tra quella gente che mi aveva trattato come uno della famiglia, ma il fiume mi attendeva. Era arrivato il momento di tornare a casa, non c’era più motivo di restare all’Avana. Adesso era Yumurí a reclamarmi, con i silenzi infiniti e il rumore dell’acqua che corre tra voli d’uccelli rapaci.
È stato proprio mentre pensavo a come sarebbe stato bello tornare a fare l’amore con Karin sull’erba bagnata del fiume che lei si è avvicinata, mi ha preso la mano tra le sue e mi ha detto:
“Io non torno a Yumurí”
“Come sarebbe a dire?”
“Non torno. Resto qui dalla zia”
Aveva il volto teso e l’espressione di chi ha preso una decisione irrevocabile. Quella scelta le era costata fatica ma adesso sarebbe andata fino in fondo. Le sarei mancato, mi disse, però doveva farlo.
Lei non era fatta per passare la sua vita a Yumurí e voleva andare incontro alla sua occasione. Solo all’Avana poteva trovarla.
“Ma che farai qui?”
“Quello che fanno tutte, Mainer. Cercherò di sopravvivere”.
“E noi, Karin? Quando ci rivedremo?”
“Forse mai. Chi lo sa?”
“Ci hai pensato bene? Questa città divora chi non la conosce”.
“Non sono sola. Ho mia zia, le cugine. Me la caverò”.
Aveva la zia e le cugine. Aveva una casa. E un futuro da jinetera.
L’unica cosa che poteva fare all’Avana una ragazza bella come lei.
Non gliel’ho detto ma sapeva che lo stavo pensando.
“Chissà che non trovi qualcuno che mi porti via, prima o poi. Chissà che non riesca a cambiar vita”.
Non avevamo bisogno di dirci altro. Non più, ormai.
Sono stati sufficienti venti pesos per imbarcarmi su di un camion diretto alla centrale di Camaguey, là avrei trovato un altro passaggio per raggiungere la zona di Baracoa. Karin mi salutava con la mano di fronte al Malecón, forse c’era una lacrima sul suo volto, forse un rimpianto. Sentivo che non l’avrei più rivista e che quel lungomare battuto da turisti e puttane sarebbe stata la sua nuova vita. Io pensavo al villaggio e avevo un po’ di tristezza nel cuore. Avevo una gran voglia di rivedere mio padre e dirgli che non me ne sarei mai andato da là e che quella era la mia vita, che lui lo volesse o no.

4 ottobre 1998

Sono arrivato a Camaguey con la testa piena di pensieri.
Ho visto passare mulatte dai fianchi abbondanti e creole sorridenti.
Qua dicono che ci sono le donne più belle di Cuba e forse è vero.
Ho dovuto passare la notte vicino alla fermata degli autobus, sotto una pensilina che mi riparava dal freddo. Non si fidano a dare alloggio a uno sconosciuto da queste parti, anche se sono soltanto un ragazzo.
È stato un viaggio infernale su d’una carretta scassata che non superava i sessanta chilometri all’ora e ci abbiamo impiegato un giorno intero ad arrivare a Camaguey. Il camion era affollato di gente e l’odore del petrolio si confondeva con quello penetrante dei corpi sudati.
Era impossibile persino dormire, il rumore del motore e il puzzo mi tenevano sveglio. Ho scambiato qualche parola con i compagni di viaggio, mentre bevevamo birra di contrabbando, quella da pochi pesos il litro. Non è molto forte ed è piena di gas, ma va bene per chi non ha i dollari per comprare Cristal o Bucanero.
“Hai fatto tutto questo viaggio da solo?” mi ha chiesto un vecchio sdentato che sedeva proprio di fronte a me. Lui tornava a casa dopo essere stato all’Avana a far visita alla figlia.
“C’era anche la mia ragazza con me, ma è rimasta all’Avana”.
Ho risposto con una smorfia di disappunto.
“Succede a tutte così. Anche mia figlia è scappata in città. Nessuno vuole più fare la vita d’un tempo”.
“Io sì. È mio padre che non vuole”.
“Sei ancora un ragazzino ma mi piace il tuo coraggio”.
Mi ha detto che non è da tutti farsi un viaggio così a sedici anni.
Mi ha detto che sono davvero un ragazzo in gamba.
Io l’ho ascoltato ma la mente andava sempre a Karin.
Mi mancherà e non so neppure dire quanto.
Mi consola solo pensare che domani rivedrò il fiume e la mia famiglia, anche se non sarà più la stessa vita senza di lei.

5 ottobre 1998

Di nuovo la coda di questo caimano invecchiato che non si arrende. Ancora le palme altissime, i banani ricolmi di frutti, le immense piantagioni di caffè e gli alberi di cacao.
Baracoa alle spalle e tanti pensieri.
Un camion che trasporta yucca sta viaggiando diretto a Yumurí e io mi sento stringere il cuore rivedendo bambini che corrono su strade deserte bruciate dal sole. Villaggi di legno in mezzo a foreste selvagge e spiagge improvvise che si aprono dietro una curva sul mare. Bandiere nazionali a indicare la presenza d’una scuola, nascosta da alberi e vegetazione. Ho pensato che tra non molto avrei dovuto tornarci anch’io per frequentare l’ultimo anno di secondaria. Mi piace la scuola e vorrei potermi iscrivere all’università per studiare letteratura spagnola, ma non posso trasferirmi a Baracoa e pesare sulla famiglia. Non ci sono soldi e qui al villaggio c’è bisogno di me.
Quando sono entrato a Yumurí e ho rivisto il fiume mi sono tornate alla mente le scene di sangue degli ultimi tempi. L’Avana me le aveva fatte dimenticare regalandomi immagini di vita cittadina e tramonti che si spengevano sulla decadenza spettrale di palazzi in abbandono.
Il mistero però era ancora lì ad attendermi.
Insoluto e terribile.
Ho abbracciato mio padre e mia madre, Andres e Ivan mi sono venuti incontro correndo e saltandomi al collo. Abbiamo fatto festa con un pesce arrostito alla fiamma e banane fritte nell’olio di cocco.
“Karin è rimasta all’Avana”, ho detto interrompendo i ricordi del Cementerio Colón e della Milagrosa.
Mio padre ha guardato la mamma e ha sorriso.
Ha voluto che fosse lei a dirmelo.
“Sapevo che sarebbe successo”, ha detto mia madre.
Io mi sono chiesto perché. A lungo.
Forse non volevo affrontare la realtà che era così semplice da capire. Karin progettava da tempo quella fuga, ha approfittato di me per andarsene. Ha lasciato Yumurí e una vita senza scampo.
Ci voleva mia madre per aprirmi gli occhi.
Sarò io quello strano. Sarò io il pazzo.
A me piace vivere qui, accanto a questo fiume che si getta nel mare e fa scorrere giorni sempre uguali. E fuggire lontano mi costerebbe troppo dolore.

20 ottobre 1998

Ho ricominciato ad andare a scuola proprio oggi.
L’Avana è solo un ricordo, a tratti piacevole come un sogno interrotto, a tratti angosciante come un incubo a occhi aperti. Rammento le ragazze per strada con vestiti attillati dai colori sgargianti, i froci ammiccanti sul lungomare e le jineteras a caccia d’incontri con scarpe dai tacchi altissimi e gonne corte.
Immagino Karin insieme a loro.
Non le manca niente. Ha delle belle gambe e un corpo che fa girare la testa. Può fare fortuna all’Avana, questo è certo.
E io sono rimasto da solo a Yumurí.
Non che mi manchino le ragazze. A scuola ce ne sono tante che verrebbero volentieri sul fiume insieme a me, sono io che non voglio, perché non ce n’è una che possa sostituire Karin.
Con lei era diverso. Le volevo bene.
E adesso fa la puttana nella capitale.
Non è facile da mandar giù. Proprio no.
Tutti i giorni faccio il breve tragitto da scuola a casa con i miei fratellini per mano e la testa piena di pensieri. Mi chiedo spesso se non sia Karin quella che ha fatto la scelta giusta e se non avrei fatto meglio a restare con lei nella capitale. D’altra parte è quello che dice sempre anche il babbo: “Fuggire, Mainer. Non resta che fuggire”.
Mi rispondo che non avrei saputo che fare all’Avana senza un soldo in tasca e con una vita che non comprendevo. Non avevo le gambe di Karin e per me non c’era futuro all’Avana. Potevo solo mendicare, rubare, o mettermi a rimorchiare vecchie straniere. Non sarebbe stata la mia vita. Non avrei sopportato di mangiare con i soldi che Karin guadagnava nei letti degli altri.
Ho passato il pomeriggio da solo nel fiume a tuffarmi dalla mia rupe preferita. Salivo la roccia scalandola con rapidità e mi gettavo nelle acque limacciose e scure nel punto dov’è più profondo.
È servito a scacciare i pensieri, almeno per un po’ di tempo.
Poi è accaduto di nuovo. Proprio come prima di partire per L’Avana.
Stavo rientrando a casa e l’ho sentito. Chiaro, distinto, beffardo.
Un sorriso veniva dal fiume accompagnato da brevi parole.
“Tu sei legato a me, Mainer”.
Ho avuto paura. Ho pensato che non era possibile e che nessuno poteva aver parlato. Oltre a me c’erano solo avvoltoi che sorvolavano il fiume. L’immaginazione e la solitudine mi avevano giocato un brutto scherzo. Ma è accaduto di nuovo e ho avuto la conferma che non era un sogno ma un incubo assurdo e reale. Questa volta l’ho visto negli occhi lo sguardo beffardo e terribile d’un negro possente. L’ho visto salire dal fondo del fiume e rincorrermi, come una freccia scagliata da un arco.
E mi ha seguito fino a casa, mentre nuotavo veloce per raggiungere la riva.

15 novembre 1998

Ho fatto il possibile per salvarlo.
Ho fatto il possibile.
Continuo a ripetermi che non devo rimproverarmi niente.
Carlito era poco più che un bambino e mi aveva supplicato che lo facessi venire sul fiume, dietro a un gruppo di italiani che avevano preso il traghetto di stato. Io dovevo fare da guida.
“Sei piccolo”, gli avevo detto.
“Starò attento. Non mi allontanerò”, aveva risposto.
È stato così che l’ho preso sulle spalle e ho cominciato a nuotare.
Carlito abitava vicino a casa mia e aveva solo dodici anni, lo vedevo correre con gli amici dopo pranzo sul cortile impolverato, sentivo la voce della mamma che lo chiamava per cena, osservavo l’amore con cui suo padre gli costruiva giocattoli di legno.
E adesso rimpiango di averlo assecondato, ma serve solo al mio rimorso, non certo a riportarlo in vita.
Eravamo sul bordo del fiume quando è caduto.
Sarà stata una sbadataggine, avrà incontrato un ostacolo improvviso sul cammino, non saprei dirlo. Solo che è successo nel punto sbagliato.
Proprio là, dove il fiume si allarga a formare un lago naturale e una roccia a strapiombo nasconde le basse mangrovie.
Non ho avuto neppure il tempo di gridare.
Ho visto Carlito annaspare e tentare di aggrapparsi a un ramo che sporgeva nell’acqua. E ho visto una mano, lo giuro. Non ho sognato, mio Dio. Ho visto una mano che lo afferrava e lo trascinava sul fondo.
E sembrava la mano di un indio quella che cercava il suo corpo.
Subito dopo un sorriso beffardo è uscito dall’acqua.
Il gruppo di stranieri si è fermato all’improvviso. Erano esterrefatti e terrorizzati, non capivano cosa stesse accadendo. Io sì, purtroppo ed ero il solo a sapere che il fiume esigeva un nuovo tributo di sangue.
C’è stato solo il tempo di vederlo affogare nell’acqua torbida e oscura e qualcuno avrebbe anche voluto provare a tuffarsi per cercare di salvarlo. Sono stato io a impedirlo. Non sarebbe servito che a far morire altra gente. Nessuno poteva aiutarlo, povero Carlito.
È passato solo un istante, poi ho visto il suo corpo affiorare in superficie. Sventrato, con gli occhi spalancati dal terrore che fissavano il niente, con lo sguardo terrorizzato di chi aveva appena visto qualcosa di terribile. Una gamba divelta vagava per le acque del fiume, pareva staccata di netto con un colpo di machete. E lui era morto, mio Dio.
Il cadavere si spingeva lungo il corso d’acqua, la paura si rifletteva negli occhi degli stranieri che guardavano il corpo caduto nel fiume.
L’ho ripescato con fatica, grazie all’aiuto di due turisti.
Da solo non ce l’avrei mai fatta, la corrente poteva catturarmi e farmi cadere nel fiume tra le fauci di quella belva assassina.
E adesso ricordo un sorriso beffardo e un volto di indio riflesso nel letto del fiume. Ma non ho parlato. Perché osservando chi mi stava vicino ho capito. Ero l’unico che poteva vederlo.

25 novembre 1998

Sono giorni che continuo a sognare la scena e rivivo il dolore che ho visto negli occhi dei suoi genitori, non posso far niente e incolparmi d’aver causato la morte di Carlito non serve a riportarlo tra noi.
Non dovevo permettere che mi seguisse, lo so.
È stata questa la mia colpa.
“Era destino”, ha detto mio padre.
“Dobbiamo liberare il fiume o non saremo più tranquilli”, ha continuato mia madre.
“Liberare da chi?” ho chiesto.
“Da chi infesta le sue acque”.
Però nessuno riesce a farlo. Francisca dice che non è cosa per lei.
“Se è finita così a Roberto…”, ha detto l’ultima volta che l’abbiamo vista, accompagnando le parole con un gesto eloquente della mano.
Lei si è chiamata fuori da questa storia.
“Ci vuole un potente babalao” ha concluso “oppure un palero”.
Era troppo per una semplice santéra che si occupava di messe spirituali e poco più.
La polizia intanto non ci lascia tranquilli e l’altro giorno mi hanno mandato a chiamare per un interrogatorio. Ho raccontato quello che avevo visto senza tacere niente, a parte la storia del sorriso che mi tormenta e quel volto dell’indio che appare e scompare dal fondo del fiume. A parte la storia del negro possente che a volte mi parla e dice che siamo legati da uno stesso destino. Non ci tengo a essere preso per pazzo e a passare un po’ di tempo in qualche ospedale di rieducazione mentale. So quanto sono terribili certi istituti. Possono essere peggiori d’una galera.
A dire il vero questa storia non l’ho raccontata a nessuno, neppure a Francisca o alla mamma. È un segreto che mi porto dentro e più ci penso meno sono sicuro di quello che vedo e che sento.
Mi costa fatica ammettere una spiegazione soprannaturale.
Hanno fatto tante domande inutili e poi mi hanno lasciato andare raccomandando che facessi molta attenzione.
Non saranno loro a risolvere il mistero, mi sono detto mentre uscivo dalla caserma e facevo ritorno a casa. Il fiume in lontananza scorreva tranquillo, sembrava impossibile adesso aver paura di lui.

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Questo romanzo breve è contenuto in Nero tropicale di Gordiano Lupi, disponibile presso gli store on line.

Gordiano LupiL’AUTORE
Gordiano Lupi ( 1960) – tre volte presentato al Premio Strega – ha dedicato alla sua città: Lettere da Lontano, Piombino tra storia e leggenda, Cattive storie di provincia, Piombino leggendaria, Piombino a tavola, Alla ricerca della Piombino perduta, Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano, Piombino con gusto, Sogni e altiforni – Piombino Trani senza ritorno (con Cristina de Vita) oltre a un sacco di racconti e articoli di cui non è facile conservare traccia. Molti racconti piombinesi sono sul blog TUTTOPIOMBINO edito ogni domenica dal quotidiano telematico QUI NEWS VALDICORNIA. Si occupa di cultura cubana, traduce ispanici, scrive di cinema e pubblica monografie su registi e attori italiani. Sito Internet: ww.infol.it/lupi. E – mail: lupi@infol.it. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Blog di cultura cubana e letteratura: Ser Cultos para ser libres (http://gordianol.blogspot.it/)