13 dicembre 1998
Oggi mi sono scoperto a pensare a Karin.
Non è facile dimenticarla.
Mi chiedevo come se la starà passando all’Avana, in una città così piena di pericoli e insidie. Lei, una bella orientale che ha passato l’infanzia in riva a un fiume, adesso trascorre le notti su d’un lungomare in compagnia di puttane. È stata la mia ragazza un tempo, ma devo dimenticarla. Non c’è altro da fare.
Mi ero spinto sul fiume a farmi tormentare dai pensieri, al solito posto. Scappo sempre là dopo la scuola, da un po’ di tempo a questa parte. Eludo la sorveglianza della polizia e sgattaiolo tra la vegetazione per andare a tuffarmi un poco più avanti, vicino all’attracco del traghetto di stato. Poi mi fermo sotto la roccia, dove mi piace stare seduto in attesa di andare a bagnarmi. E penso. Penso ai giorni che c’era Karin e a tutte le volte che abbiamo fatto l’amore su quell’erba bagnata. Penso alle nostre promesse non mantenute e alle insicurezze d’un tempo. E mi accorgo quanto mi manca e vorrei che ancora una volta le sue labbra potessero sfiorare le mie. Mi capita sempre più spesso di stare da solo a spiare le correnti del fiume e a cercare sorrisi nascosti e ricordi lontani. Purtroppo l’unico sorriso che mi fa compagnia è quello che non vorrei e viene dal fondo limaccioso del fiume, sotto la rupe a strapiombo tra le rocce e le basse mangrovie. E me lo porto dentro scolpito nel cuore sino a quando non faccio ritorno a casa.
Oggi è successa una cosa ancora più terribile.
Una cosa che mi ha fatto fuggire veloce da quel tratto di fiume.
A casa mio padre mi ha visto agitato e ha chiesto che cosa fosse successo. Io non sapevo che dire. Ricordare costava dolore e il terrore lo tenevo ancora impresso negli occhi. Mia madre mi ha abbracciato forte e ha preparato un decotto di fiori calmanti che ha versato in una tazza con un po’ di zucchero nero di canna.
E allora ho cercato di parlare ma le parole non venivano fuori, così come adesso è difficile pensare a quel che è successo e scriverlo sulle pagine bianche. Ma alla fine sono riuscito a farlo, seduto sulla sedia a dondolo di legno davanti all’oceano. Il babbo e la mamma in silenzio ascoltavano il mio segreto. E ho iniziato dal primo momento, dalle voci, dai sorrisi, dagli occhi di quel negro che escono dalle acque e mi inseguono. E loro mi guardavano esterrefatti e increduli.
Poi ho concluso che oggi avevo visto un braccio uscire dall’acqua, ma non era di un negro. Un braccio forte e muscoloso da indio e una mano stretta a formare un pugno. Ed era rivolta verso di me, minacciosa. Mentre sono fuggito via nuotando come un forsennato ho sentito un sorriso rincorrermi. Il solito beffardo sorriso di sempre.
Mia madre ha ascoltato il racconto in silenzio. Poi ha sospirato.
“Le leggende che si avverano, purtroppo”.
Il babbo ha scosso la testa.
“Chi lo avrebbe pensato? Mi toccherà cominciare a credere anche negli spiriti” .
Io non capivo e ho chiesto spiegazioni.
Mia madre ha messo la cena a riscaldare sul fuoco, poi si è seduta e ha cominciato il racconto.
“La nonna mi addormentava sempre con queste storie. Io ne avevo una paura folle, ma più le temevo e più che volevo che le raccontasse. E lei non si faceva pregare. Narrava del capo indio Tabonao morto nel fiume per fuggire agli spagnoli e mi diceva che la sua anima non avrebbe mai trovato pace. Si era nascosta tra le rocce nel punto più oscuro e da lì tramava vendetta contro gli invasori bianchi. Poi continuava passando allo schiavo che fuggì da una piantagione di caffè. Si era dato alla macchia tra le nostre foreste e poi era morto anche lui gettandosi nel fiume per non essere catturato e giustiziato dopo terribili torture. Le due anime abitano da secoli il fondo di quelle acque e non permettono a nessuno di profanare il loro rifugio ”.
Io ho ascoltato con attenzione. Erano cose che sapevo. Erano le storie dell’infanzia narrate alla sera come fiabe per prendere sonno. Non avrei mai creduto di doverci fare i conti come un reale pericolo.
“E il braccio, mamma? Quello era di carne e ossa. Non era uno spirito” ho chiesto.
“Non so che dire, Mainer. Francisca non ci può aiutare perché rischierebbe la vita. Non ha abbastanza potere. Però mi ha confermato che nel fiume ci sono oscure presenze”.
“Non parlare a nessuno di quello che hai visto e fai molta attenzione quando ti spingi nel fiume”, ha aggiunto mio padre.
Penso che sarà difficile risolvere il mistero e che si preparano giorni duri al villaggio. Forse il peggio deve ancora venire.
1 gennaio 1999
È passato anche il Natale, come sempre senza tanti fronzoli. Non fa parte della nostra tradizione e ci ricordiamo della festa solo perché i turisti aumentano e le occasioni di guadagnare qualche dollaro sono più numerose. Di regali neppure a parlarne e l’albero con le decorazioni è uno spreco da europei, che si meravigliano perché non ne vedono.
In città qualcuno ha cominciato ad adeguarsi e festeggia il Natale, molti hanno parenti all’estero che tornano in patria e raccontano di luci e colori e strade illuminate, oppure c’è qualche cattolico in famiglia.
A Yumurí ancora ci comportiamo come quando una legge dello stato lo proibiva come atteggiamento controrivoluzionario. Poi Fidel ha aperto le porte al mondo e su questo ha dovuto cedere. Non che a noi importi molto, però adesso è festa come l’anniversario dell’ingresso all’Avana, come il primo maggio, come il 26 di luglio.
Qui la festa grande c’è stata ieri notte. Abbiamo atteso il nuovo anno ballando sulla spiaggia nel punto più vicino alla foce del fiume e per un po’ di tempo siamo riusciti a dimenticare preoccupazioni e timori.
Note di son tradizionale si sono mescolate al vecchio punto guajiro e Benny Morè ha preso il posto delle canzoni di Tito Puente, mentre ragazze in gonne cortissime si scatenavano in balli frenetici. Gli uomini hanno bevuto rum e c’era anche un maiale arrostito su di uno spiedo di legno improvvisato. Tutto il villaggio ha atteso la fine dell’anno vecchio e le prime luci dell’alba in faccia all’oceano. Non certo perché oggi all’Avana un Malecón imbandierato a festa accoglierà il solito discorso di Fidel sul trionfo della rivoluzione. Non perché la televisione e il Granma hanno detto che questo è il giorno più importante dell’anno. Ma perché questa è la nostra tradizione. Da sempre.
E nessuno ce la può togliere.
Neppure un maledetto spirito che sconvolge la pace del fiume.
Domani torneremo a pensarci.
Intanto sulla spiaggia è rimasto il ricordo di danze frenetiche e il profumo intenso del rum. L’anno vecchio ha lasciato il posto all’alba di quello nuovo e ha sorpreso nella luce del mattino un panorama di banani e palme in quest’angolo dimenticato del mondo.
5 gennaio 1999
Non ci ha concesso neppure una piccola tregua.
Ha colpito di nuovo.
E lo ha fatto in un modo diverso.
Ricordo il corpo di Yari disteso sul fiume. Era come sempre alla foce a lavare i vestiti quando qualcosa l’ha afferrata e portata sul fondo.
Una mano comparsa dal niente, un’apparizione improvvisa d’una mattina d’inverno. Io ho visto i suoi occhi sbarrati, pareva chiedessero ancora perché. Yari l’abbiamo ritrovata cadavere che galleggiava nel fiume, come gli altri che si erano tuffati nel punto maledetto, ma questa volta non era andata così. Yari se ne stava tranquilla a lavare, poco distante da casa, vicina al villaggio. Il marito era uscito a pescare con gli altri uomini, di buon mattino e lei avrebbe fatto ritorno per sera a preparare la cena. Prima contava di andare a parlare un po’ con le amiche, così per ingannare la noia quotidiana.
Purtroppo è stato un giorno diverso dagli altri.
Un altro tragico giorno di morte al villaggio.
E adesso non sappiamo davvero che fare, non c’è più difesa se lo spirito si spinge a colpire anche vicino al villaggio.
Abbiamo raccolto le spoglie di Yari e fatto un nuovo sepolcro di terra. Suo marito piangeva lacrime amare mentre abbracciava i figli e giurava impossibili vendette.
La polizia si è subito messa in moto.
Credo che non ce ne libereremo più.
Loro raddoppiano la sorveglianza, controllano chi va e chi viene dal fiume e credono di avere a che fare con un serial killer.
Ma qui non c’è un pazzo omicida. Il letto del fiume racchiude un segreto terribile e i nostri giorni diventano sempre più duri.
8 gennaio 1999
Oggi la polizia mi ha fermato per un controllo.
“Tu vai troppo spesso al fiume”, ha detto un sergente.
Ho notato che aveva la divisa celeste scucita in più parti e ho pensato a quanto è comica la polizia di Fidel così male in arnese. Le divise migliori le mandano ai reparti della capitale, per l’oriente vanno bene anche quelle lise e consumate dal tempo. Il periodo speciale non risparmia neppure i custodi dell’ordine pubblico, i figli prediletti del potere. E questo tutto sommato mi consola.
“ È forse un reato?” ho risposto.
Lui ha lanciato un’occhiata di fuoco e mi ha fatto perquisire da un sottoposto. Io non avevo neppure il machete e mi ha lasciato passare.
“Fai molta attenzione” mi ha detto “ti teniamo d’occhio”.
Non sarà con questa gente che risolveremo il mistero, mi sono detto.
E sono andato nuotando al posto di sempre. Lo scoglio dove mi piace pensare e sentirmi solo con me stesso. Vicino c’è il prato bagnato, quello della prima volta con Karin, posso vedere i fiori rossi del frambojant che le piacevano tanto e ricordare le carezze e i pomeriggi passati a fare l’amore, senza pensare ad altro.
Non sono più stato con una donna da quando lei mi ha lasciato per restare all’Avana. E non perché non ne abbia avuto l’occasione.
Se solo avessi voluto anche alla festa di capodanno avrei potuto divertirmi con Anabel che mi sorrideva provocante durante il ballo.
Non ci sono riuscito. Il volto di Karin si sovrappone a quello delle altre e mi blocca, invece lei chissà quante volte mi avrà tradito nella frenetica vita della capitale. Per capire quanto era importante l’ho dovuta perdere, forse per sempre.
Avevo la mente immersa in questi pensieri quando mi sono tuffato dalla roccia sporgente, là dove l’acqua è più alta. Lontano vedevo la scogliera proibita e le mangrovie riflesse nel fiume disegnavano un ombra gigantesca quasi surreale. Nuotavo con bracciate vigorose per scacciare la rabbia repressa e il dolore. È stato quando sono riemerso dall’acqua e ho alzato la testa che ho visto una figura scura muoversi rapida tra la vegetazione e i rami spioventi sul fiume. Non sono riuscito a individuare chi fosse ma sono sicuro che c’era qualcuno a spiare quel che facevo. La cosa non mi ha fatto più stare tranquillo e sono rientrato a casa nuotando rapidamente seguendo il corso del fiume.
20 gennaio 1999
Si chiamava Manuel e come tutti faceva il pescatore.
Adesso è andato ad allungare la lista dei morti.
Si era avventurato nel fiume con la sua barca, sapeva che era proibito, che là può andare solo il traghetto di stato e alle nostre barche è riservato l’oceano. Chissà perché aveva deciso di andare a pescare là dentro. Lo sappiamo tutti quali sono le regole, non ne comprendiamo il senso ma le rispettiamo. Anche Manuel avrebbe fatto bene a continuare a seguire la legge, il mare contiene abbastanza pesce da catturare che non vale la pena rischiare. La sua barca si è capovolta, lui è stato trascinato sul fondo e come sia accaduto rimane un mistero. Quando lo abbiamo ripescato abbiamo visto nei suoi occhi spalancati un’espressione di terrore che gli sfigurava il volto. Non poteva essere una disgrazia perché Manuel era un pescatore in gamba e andava per mare da sempre, non era tipo da subire un incidente nelle acque tranquille d’un fiume. Lui era abituato all’oceano e alle dure giornate di vento, quando tenersi a galla è un’impresa. L’unica cosa certa era proprio quella, purtroppo. Non era stata una disgrazia.
La barca di Manuel era stata ritrovata lontano dalla scogliera maledetta, il corpo massacrato, irriconoscibile, con le gambe divelte dalla furia d’un machete, galleggiava vicino. Ancora una volta sembrava che lo spirito avesse colpito fuori dalla zona abituale.
La sera ne ho parlato con la mamma.
“Gli spiriti sono inquieti. Adesso vagano per tutto il fiume e non possiamo stare tranquilli da nessuna parte”.
“Diventa un problema difendersi” ha ribadito mio padre.
“Com’è possibile? La scogliera maledetta ha sempre ucciso chi ha osato sfidarla, che siano leggende o meno lo sappiamo tutti, ma in altre parti del fiume non è mai accaduto niente” ho detto.
“Forse il sangue versato ha ottenuto l’effetto opposto. Non ha calmato l’ira di quelle anime senza pace ma le ha sconvolte”, ha risposto la mamma.
Non ne abbiamo parlato più e ci siamo guardati a lungo preoccupati. Avevo dentro una sensazione strana, un indefinibile miscuglio di rabbia e paura, adesso ogni ansa del fiume diventava un pericolo e poteva nascondere un’insidia. Non erano tranquille neppure le donne che andavano a prendere l’acqua per casa o chi si portava a ridosso d’una spiaggia renosa per stendere i panni lavati da poco.
La polizia sorvegliava il villaggio e soprattutto il fiume.
Turisti ne venivano sempre meno, le agenzie di viaggio sconsigliavano di passare per Yumurí perché strani omicidi si verificavano sul fiume e il colpevole non era ancora stato catturato.
E per noi la vita diventava sempre più dura.
30 gennaio 1999
Oggi alla caffetteria del villaggio ho sentito gli uomini parlare e ho visto una grande agitazione. Mi considerano ancora un ragazzo e mi è concesso solo ascoltare, però ho sedici anni e se c’è qualcosa da fare per svelare il mistero voglio esserci anch’io.
È per questo che mi sono seduto in disparte, con una birra da pochi pesos tra le mani, e ho ascoltato le parole di Carlos.
Carlos è un mulatto robusto che abita vicino alla foce del fiume ed è considerato il capo carismatico dei giovani del villaggio. Tutti lo ascoltano e lo seguono, le decisioni importanti le prende sempre lui.
E questa era davvero una decisione importante che poteva cambiare la nostra vita. Carlos stava dicendo che avrebbe organizzato una spedizione con tutti gli uomini validi che si fossero offerti volontari. Avrebbero setacciato la boscaglia armati di machetes e bastoni.
“Non credo agli spiriti” aveva detto Carlos “ma solo in quello che vedo e soprattutto alle cose reali”.
Poteva non aver torto, ho pensato.
E come me lo hanno pensato in molti, perché un gruppo di uomini ha raccolto l’invito e si è dato appuntamento al giorno dopo, vicino alla partenza dei battelli. Sarebbero andati nella foresta per catturare il killer che uccideva la gente nascondendosi dietro una vecchia leggenda.
La sicurezza di Yumurí lo imponeva.
“Questo posto deve tornare quello d’un tempo”, aveva concluso Carlos.
“Lo troveremo e lo giustizieremo sul posto. Abbiamo atteso sin troppo e la polizia non fa niente, a parte renderci la vita difficile”. Aveva aggiunto Paco, che seguiva le parole dell’amico con attenzione.
Paco e Carlos erano amici dall’infanzia, dai tempi della scuola.
Se Carlos era il capo che tutti seguivano, Paco era l’amico che sarebbe stato con lui come sempre.
Io avevo ancora in mente le parole di Francisca e soprattutto un ricordo vivo dei fatti di Baracoa durante l’evocazione. Le frasi decise di Carlos mi spingevano a lottare, ma le parole della mamma e i miei stessi ricordi non li potevo ignorare. La mamma credeva nella storia degli spiriti, diceva sempre che solo un babalao poteva salvarci e ricordava come persino Roberto non ce l’avesse fatta.
Poteva anche essere un killer, certo.
Non si poteva escludere.
Ma tanti fatti incredibili stavano a testimoniare il contrario.
In ogni caso sarei andato con Carlos, se mi avesse voluto.
Quello che c’era nel fiume, in mezzo alla foresta di mangrovie, lo avremmo scoperto solo rischiando. Ed era giunto il momento di cominciare a farlo.
31 gennaio 1999
Loro non mi avrebbero voluto ma io sono andato lo stesso, armato del machete che di solito uso per spaccare il cocco e dissetare qualche turista. Tutto intorno al fiume c’è una fitta vegetazione che rende quasi inaccessibile il cammino. Il machete sarebbe servito a farsi largo tra liane pendenti e intricate e bassa boscaglia. E all’occorrenza anche ad altro, ma a questo non volevo pensare.
Carlos era alla testa del gruppo, lui aveva organizzato la spedizione, assieme a Paco che stava al suo fianco e disponeva il resto degli uomini. Eravamo quasi tutti i giovani del villaggio, una ventina di persone decise a sistemare la faccenda in modo definitivo.
Mia madre non era d’accordo ed era preoccupata per me, non avrebbe voluto che partecipassi.
“Il machete non serve contro gli spiriti”, aveva sentenziato.
Ma io non volevo essere da meno degli altri. E sono andato.
Carlos ha esitato un po’ prima di accettarmi, poi ha detto:
“Vieni con noi ragazzino, ma fai molta attenzione”
Io avrei voluto dirgli che non ero affatto un ragazzino, ma ho taciuto e mi sono accodato agli altri. In fin dei conti avevo ottenuto il mio scopo.
Siamo partiti per la caccia al killer del fiume e siamo tornati con la sola certezza che non è con un killer che dobbiamo vedercela, purtroppo.
Appena entrati nella foresta abbiamo perso Raul.
È rimasto vittima d’un trabocchetto infernale, una specie di trappola per animali. Lo abbiamo visto sprofondare nel terreno e cadere in un baratro interminabile. Il fondo del crepaccio era cosparso di pietre appuntite. Abbiamo visto Raul morire con la testa sfracellata, dopo un volo nel vuoto accompagnato da un grido atroce di terrore.
Allora abbiamo capito che non sarebbe stato facile.
Troppi elementi erano contro di noi. E non tutti prevedibili.
Carlos non aveva calcolato bene i rischi.
Poi è stata la volta di Paco. È rimasto impigliato in una fitta rete di liane pendenti da un albero gigantesco. Sembravano tese da qualcuno a difesa di un ingresso nascosto. Paco ha cominciato a gridare terrorizzato, ma più si muoveva e più i lacci si stringevano attorno al corpo. Abbiamo fatto di tutto per salvarlo, lottando a colpi di machetes con le liane che lo immobilizzavano, come fosse caduto in una gigantesca e mostruosa ragnatela. Fino a quando è rimasto soffocato da una stretta terminale. Un laccio gli ha afferrato la gola e non l’ha più lasciata. È stato allora che Carlos ha cominciato a non sentirsi più sicuro di quello che stava facendo. Ha visto l’amico più caro morire davanti ai suoi occhi senza poterlo aiutare e non ha potuto neppure recuperare il corpo, imbrigliato tra possenti liane cannibali.
Sentiva il peso di due ragazzi sulla coscienza.
Raul morto sfracellato nel burrone e Paco avvinghiato alle liane della foresta. Si è consultato con gli altri e ha ordinato di tornare indietro.
Io ero in coda al gruppo e ho udito le parole di Carlos come un fioco lamento. Aveva perso tutta la spavalderia del giorno prima.
“Torniamo a Yumurí. Non è cosa per noi”, ha detto.
E io lo sapevo che era così. Lo avevo sempre saputo.
Perché avevo visto morire Roberto ucciso dalle sue stesse mani.
Perché mia madre mi diceva sempre che il fiume era sconvolto dalle anime dei morti e serviva un babalao, non un machete.
E nonostante tutto ero venuto sin qui con loro.
Abbiamo fatto rientro a Yumurí che stava calando la sera.
Portavamo impressa nella mente la paura di chi ha visto la morte colpire e non ha potuto far niente per impedirlo.
15 febbraio 1999
Abbiamo passato giorni a piangere i nostri compagni ponendoci domande che restavano senza risposta.
Perché non c’era una risposta razionale.
Restava solo da accettare la storia d’una vecchia leggenda ed era duro ammettere che il nostro nemico era uno spirito e non un killer, anche perché dagli spiriti non potevamo difenderci.
Carlos lo vedevo cambiato, sentiva su di sé la tragica colpa della morte di due amici. Ieri l’ho sentito parlare di spiriti e oscure presenze. Eravamo alla caffetteria e lui raccoglieva attorno il solito gruppo di amici. Bevevano rum da pochi pesos d’un colore bianco sporco, scintille di treno credo. Serviva a far passare la paura e a dar coraggio. Tra un bicchiere e l’altro ricordava le leggende del fiume, la storia dell’indio Tabonao e dello schiavo. Carlos ha cambiato idea.
“Erano trappole infernali” ha detto “non potevamo far nulla contro una cosa disumana. Ma lo avete visto come sono morti? E come tutto è comparso dal niente?”
Molti annuivano sconfortati. Qualcuno provava a ribattere.
A me non era consentito parlare. Ero troppo piccolo.
Però avevo la mia opinione. Secondo me c’era qualcosa di soprannaturale nel fiume. Era duro ammetterlo, però non c’era altra spiegazione e si era convinto anche Carlos adesso. Ma non ero così sicuro che i nostri compagni fossero stati catturati da spiriti.
Un trabocchetto tra i cespugli può essere costruito da un uomo e il pericolo delle liane pendenti in una fitta boscaglia non è così imprevedibile.
Carlos continuava a parlare.
“Solo dei riti santéri ci possono aiutare. Solo un babalao”.
Non che non fosse vero. Non che anche io non la pensassi così.
Mia madre lo diceva da sempre.
Era soltanto strano sentirlo dire da lui, che fino a pochi giorni prima era così sicuro che nella foresta ci fosse un killer e che lo avremmo preso con bastoni e machetes.
Noi avevamo già tentato con l’aiuto dei santéri ed era finita male.
Nessuno lo sapeva e forse era meglio così.
Roberto era morto e Francisca non ne voleva più sapere di aiutarci. Occorreva qualcuno con poteri più grandi, capace di evocare gli spiriti del fiume e scacciarli, dando loro per sempre la pace.
Ma esisteva al mondo una persona simile?
20 febbraio 1999
Di nuovo un morto, mio Dio.
E devo ancora descrivere lo spavento dipinto negli occhi degli altri.
Lui aveva solo dodici anni e gli hanno spento il sorriso alla foce del fiume. Pedro era uscito di casa appena tornato da scuola per giocare con la palla e la mazza da baseball, quella che il babbo aveva fabbricato tagliando un robusto ramo d’albero. Correva da solo vicino alla riva del fiume proprio vicino casa, appena fuori dal centro del villaggio.
Come sia accaduto non lo so. Nessuno può saperlo.
L’unica cosa certa è che non è stata una disgrazia.
Ne abbiamo viste troppe ormai.
Ne sono accadute così tante che non possiamo dare la colpa al destino.
Pedro è caduto nell’acqua bassa e il fiume se l’è portato via con la corrente. I genitori avevano sperato che si fosse allontanato e che non riuscisse a trovare la strada di casa, poi hanno cominciato a temere che fosse caduto in qualche pericolo e stavano in pena.
Si è mobilitato tutto il villaggio per cercarlo e con il passare delle ore la paura di non trovarlo più si è fatta certezza quando Pepin il barcaiolo lo ha visto in lontananza. Lo abbiamo sentito gridare.
“Mio Dio, no! Fa che non sia vero!”
Purtroppo era il piccolo corpo di Pedro quello che galleggiava in mezzo al fiume, privo di vita.
Le lacrime dei genitori hanno lasciato il posto al terrore.
Un terrore che adesso non si può contenere e si tocca con mano in ogni casa del villaggio perché nessuno può sentirsi sicuro.
Abbiamo ripescato il corpo di Pedro. Gli occhi riflettevano un ultimo sguardo di terrore. Era morto gridando, con la bocca ancora spalancata, sulla testa i segni d’un colpo come di bastone e un livido scuro con tracce di sangue. Sgraffi come di unghie d’animale in tutto il corpo.
Sono rientrato a casa accanto al babbo e ho pensato a lungo che non poteva andare avanti così. La gente moriva ovunque e non bastavano le vecchie leggende a spiegare il mistero. Ho pensato che stavamo perdendo tutto della nostra vita, anche la tranquillità d’un angolo di mondo in faccia all’oceano. E il fiume, compagno di sempre, diventava un nemico spietato che giustiziava chiunque osasse profanarlo.
Non poteva continuare così. Non dovevamo permetterlo.
L’unico problema era capire cosa potevamo fare.
25 febbraio 1999
La polizia ha cominciato a fare le cose sul serio.
Non per noi. Da tempo ho capito che di noi non interessa a nessuno.
Il destino di pochi pescatori che vivono in faccia all’oceano non è un problema. Il fatto è che se non cessano i misteriosi decessi non verranno più turisti a Yumurí. E questo è grave.
Il governo ha mandato reparti speciali dell’esercito, soldati e graduati reduci dalla guerra d’Angola, addestrati a combattere nella giungla africana. Una piccola foresta tropicale non può spaventare questa gente abituata alle insidie che si nascondono tra alberi giganteschi e liane pendenti. Non cadrebbero mai in un crepaccio costruito ad arte e conoscono trucchi e segreti d’una guerra di boscaglia.
Queste truppe speciali sono arrivate ieri con gran spiegamento di forze e si sono messe a disposizione della polizia. Hanno presidiato l’ingresso del fiume e non permettono a nessuno di percorrere il corso della corrente. Non si può entrare per nessun motivo, neppure con il traghetto di stato, tanto meno nuotando.
Tutto è sotto controllo sino alla soluzione del mistero.
Yumurí pare in stato d’assedio.
Filo spinato un po’ ovunque e soprattutto a recintare la zona d’ imbarco e per delimitare il villaggio dal fiume. Mezzi cingolati per disboscare davanti alla piccola baia e al pontile di legno, piccoli traghetti per trasbordare truppe e materiali a presidiare la sponda del fiume.
È stato predisposto un pontile prefabbricato per i mezzi meccanici e il varo delle navi. Tutto è attrezzato per una piccola guerra.
Yumurí non sembra più la stessa e la tranquillità è solo un ricordo.
Il canto del gallo al mattino ci desta con lo spettacolo di truppe che indossano mimetiche da guerra e il rumore assordante dei cingolati copre il consueto fragore delle onde mosse dal vento.
Mia madre osservava scettica.
I mezzi dell’esercito sferragliavano tra selciato e polvere e lei scuoteva la testa dicendo: “Per scacciare uno spirito chiamano l’esercito…”
Forse ha ragione lei, mi dico.
Non è facile credere che questa possa essere la soluzione giusta, non dopo tutto quello che è successo.
1 marzo 1999
E invece lo hanno preso. Hanno arrestato il killer del fiume.
Perché si trattava solo d’un folle omicida.
Altro che spiriti e santéri! Un maledetto pazzo, ecco chi era!
Un individuo solitario che si nascondeva nella boscaglia da tempo e ne aveva fatto la sua abitazione inavvicinabile.
Ma andiamo con ordine. Sono così agitato che non riesco a ripensare con calma a tutto quello che è accaduto e soprattutto non sono capace di scrivere. Ho ancora addosso la rabbia che avrei voluto rovesciargli contro quando l’ho visto scendere dal battello in mezzo a un cordone di polizia. Gli ho solo sputato in faccia a quel maledetto assassino, ma avrei voluto ammazzarlo a colpi di machete. E non solo io. Se lo avessero lasciato libero solo un istante lo avremmo massacrato. Troppi ragazzi innocenti, donne e bambini, che andavano sul fiume ignari di correre tra le braccia della morte gridavano ancora vendetta.
Era un vecchio pazzo dalla testa rasata con la pelle nera come il carbone e i denti radi e sconnessi. Ci hanno detto che si chiama Felipe.
Lo hanno catturato in una grotta lungo il fiume, nascosta tra i rami della fitta boscaglia. Abitava là da anni e in quel posto umido e maleodorante aveva costruito la sua abitazione, dove viveva da selvaggio, isolato dal resto del mondo. Era fuggito da Baracoa quando la moglie lo aveva abbandonato al suo destino. Allora si era spinto sino a Yumurí, dopo un peregrinare senza meta. Il fiume era diventato la sua casa e si era convinto di esserne il proprietario. Nessuno aveva il diritto di disturbare una ritrovata tranquillità. Nessuno doveva avvicinarsi e profanare quella solitudine in mezzo alla boscaglia.
Non voleva più contatti con il genere umano.
Lo hanno portato a riva in catene e la polizia lo ha protetto a fatica dalla nostra rabbia. Lo hanno scovato dopo aver disboscato un po’ di foresta con le macchine operatrici. Prima avevano scoperto decine di trappole come quelle dove sono caduti i nostri amici. Piante carnivore e liane disposte sul tragitto in modo da avvolgersi al collo dei passanti al minimo contatto. Crepacci dissimulati da fogliame e terra rimossa che nascondevano un baratro mortale.
Quando è sbarcato dal traghetto una folla inferocita gli si è avventata contro. Io ero con loro. La polizia lo ha protetto e qualcuno ha cercato di aggredire anche la polizia. Ci sono voluti i rinforzi dell’esercito per calmare la nostra rabbia. Lo hanno portato via, su d’una camionetta blindata diretta a Santiago.
Non farà una bella fine, comunque.
C’è la fucilazione per la gente come lui.
Una delle poche leggi giuste di questo paese.
5 marzo 1999
La televisione ha dedicato a questa storia molta attenzione.
Si sono precipitati a Yumurí frotte di inviati speciali, giornalisti che per saperne di più hanno intervistato gente e fatto riprese. La verità ha subito qualche deformazione, come era prevedibile.
Le quattro smilze paginette del Granma, il giornale nazionale, sono state per giorni dedicate al killer di Yumurí.
Il nostro villaggio non aveva mai avuto l’onore di un così vasto interesse da parte della stampa, di solito impegnata a riferire solo ciò che succede nella capitale e nelle grandi città occidentali.
Questa volta la notizia era troppo ghiotta perché gli organi di stampa se la lasciassero scappare e poi era una buona notizia e come tutte le buone notizie andava riportata con dovizia di particolari.
Al villaggio ci radunavamo tutti alla caffetteria, dove c’era l’unica televisione per ascoltare incuriositi la vita di Felipe.
Il giornalista diceva che l’uomo aveva sempre sofferto di problemi psichici e aveva fatto qualche anno di galera tempo indietro per aver violentato la figlia. Felipe era solitario e taciturno, attaccabrighe e violento, spesso la polizia lo aveva arrestato per ubriachezza. E questa era la colpa meno grave. Dicevano che in passato infastidisse le donne per strada esibendo i genitali e masturbandosi. Avevano provato a internarlo in una casa di rieducazione ma non era servito niente. Il suo stato di salute era andato progressivamente peggiorando e aveva toccato il fondo quando era rimasto solo e moglie e figlia lo avevano abbandonato. Giustamente, aggiungo io.
La polizia aveva perso le sue tracce. Tutti lo credevano morto.
E invece era scappato da Baracoa vagando per le foreste e aveva vissuto dormendo su spiagge deserte e lavandosi in mare, cibandosi di banane e cocco o di polli che rubava nei campi e arrostiva su bracieri di fortuna. Poi era arrivato a Yumurí e il fiume gli era piaciuto. Aveva deciso di farne la sua casa e nessuno avrebbe più dovuto disturbarlo, non avrebbe permesso che lo infastidissero ancora.
Questa era la ricostruzione del cronista, forse un po’ romanzata, ma si adattava bene alla personalità di quel mostro. Per fortuna adesso lo avevano preso. Potevamo respirare e tornare alle occupazioni quotidiane senza paura, il fiume era di nuovo libero e non c’erano pericoli intorno. Sarebbero tornati i turisti e la polizia avrebbe abbandonato la coda del caimano. Perché non c’era più niente da sorvegliare sulle sponde d’un fiume di nuovo in pace con la sua gente.
7 marzo 1999
Io continuavo a seguire la storia in televisione.
Felipe confessò molti delitti. Primo tra tutti quello di Yari.
“Stava lavando i panni nel posto sbagliato” disse alla polizia “troppo vicino alla mia grotta. Mi infastidiva il rumore. Mi infastidiva il suo odore di donna. Avevo deciso da tempo che non volevo avere più niente a che fare con le donne”.
Poi quello di Manuel.
“Chi gli aveva dato il permesso di venire a pescare nel mio fiume? Aveva il mare per sé. Il fiume era roba mia” confessò.
Era pazzo. Completamente pazzo.
La televisione diceva che non sembrava affatto pentito.
Recitava una parte terribile con tranquillità e raccontava di gente che aveva scannato o affogato come se parlasse di una cosa normale.
Avevano interrotto la sua tranquillità e lui si era difeso.
Poi passò a Paco e Raul.
“Dovevo proteggere la mia casa. Non ho colpa se qualcuno è venuto a ficcare il naso nella foresta. Volevo solo stare tranquillo e i trabocchetti servivano a questo”.
L’ultima confessione è stata terribile.
“E poi quel bambino che piangeva. L’ho dovuto far tacere. Urlava che si era perduto. Voleva il padre e la madre. L’ho dovuto zittire. Per sempre”.
Non ha voluto aggiungere altro. Lucido e tranquillo si è diretto verso il plotone di esecuzione che ieri mattina lo ha fatto fuori con dieci colpi diretti al cuore. Non lo ha pianto nessuno. Non lo piangerà nessuno.
Sono rimaste solo le nostre madri a piangere i loro morti.
15 marzo 1999
È tornata la calma al villaggio.
La polizia non presidia più il fiume, a parte il normale servizio d’ordine e i due agenti che si danno il cambio durante la giornata. I reparti speciali sono stati richiamati a Baracoa e Santiago e tutto pare tornato alla normalità. Non c’è motivo adesso di avere paura e la vita può riprendere il corso normale delle vecchie abitudini.
Alla caffetteria non si parla d’altro e stiamo pensando di organizzare una festa per scaricare in una sbornia di birra e rum la tensione di questi giorni. Il tempo di procurarsi un maiale abbastanza grande da arrostire alla fiamma e un po’ d’alcol per anestetizzare i pensieri e la faremo.
“Sono contenta di essermi sbagliata.” Ha detto ieri mia madre.
“Però le parole di Francisca e la tragica morte di Roberto non mi fanno stare tranquilla”, ha concluso.
Sono interrogativi che mi pongo anch’io quando penso al passato. Come potrei dimenticare l’evocazione finita nel sangue a Baracoa?
Però mi rispondo sempre che non tutto può avere una spiegazione logica e qui di sicuro c’è solo che il pazzo lo hanno preso e fucilato.
E adesso nessuno può toglierci la nostra tranquillità.
Anche la televisione e la stampa hanno smesso di parlare del killer.
Il caso è chiuso. Archiviato come un successo per la polizia e le truppe speciali impiegate da Fidel, un brillante risultato conseguito grazie alla specializzazione dell’esercito. La stampa ha colto l’occasione per tornare su un episodio triste della nostra storia, quella guerra d’Angola che ha lasciato tante madri vedove di giovani figli. Una guerra che nessuno ha mai capito e giustificato. Adesso hanno detto che il merito della cattura era stato delle truppe speciali addestrate in Africa a compiere operazioni in mezzo alla boscaglia. La propaganda scova motivi di autocelebrazione in ogni situazione. Per noi era importante soltanto che le cose fossero tornate al punto di prima. Eravamo liberi di tornare a vivere ed eravamo di nuovo in pace con il nostro mondo.
20 marzo 1999
Una festa come da tempo non se ne facevano.
Sì, perché anche quella della fine d’anno non l’abbiamo vissuta tranquilli. C’era sempre un fiume assassino nei nostri pensieri. E adesso che sappiamo la verità possiamo tornare a sorridere.
Il killer è morto. Non c’è più pericolo, finalmente.
Siamo andati avanti sino a mattina sulla riva del mare, là dove il fiume va a incontrare onde che si frangono in un approdo di scogliere.
Risuonavano nel vento della notte solo le note del son che ballavano i vecchi e la nostra salsa fatta di passi rapidi e sensuali abbracci.
La luna rifletteva i pensieri del passato.
Ci siamo lasciati andare. Mi sono lasciato andare.
E sono finito insieme ad Anabel questa volta.
Non potevo perdere un nuovo invito.
Un po’ sarà stato l’effetto del rum. Lo so che non dovrei berlo e poi neanche mi piace. Mi basta un sorso per uscire di testa e mescolato alla birra ha avuto un effetto terribile, mi ha cancellato ogni freno e tutti i ricordi. Karin volava via tra le stelle della notte, c’era solo la pelle ambrata di Anabel che accarezzavo con passione, solo il suo profumo che si confondeva al mio in un abbraccio sensuale. Siamo finiti sulla spiaggia a fare l’amore. Era dalla notte dell’ultimo dell’anno che mi sfidava con i sui occhi neri profondi.
Mi piace Anabel. È proprio il mio tipo di donna. Ha i seni piccoli e i fianchi larghi, le gambe lunghe e un sorriso provocante.
Ma sono sempre innamorato di Karin, purtroppo.
Ieri notte però l’ho dimenticata.
Ho trascinato Anabel verso l’attracco delle barche, lontano dalla festa. Ci siamo liberati dei pochi vestiti madidi di sudore e abbiamo fatto l’amore. Più volte. Lasciandoci bagnare dall’acqua salmastra e sfiorare dal vento di mare. È bella Anabel e ci sa fare quando muove i fianchi. E per una notte è riuscita a non farmi pensare.
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Questo romanzo breve è contenuto in Nero tropicale di Gordiano Lupi, disponibile presso gli store on line.
L’AUTORE
Gordiano Lupi ( 1960) – tre volte presentato al Premio Strega – ha dedicato alla sua città: Lettere da Lontano, Piombino tra storia e leggenda, Cattive storie di provincia, Piombino leggendaria, Piombino a tavola, Alla ricerca della Piombino perduta, Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano, Piombino con gusto, Sogni e altiforni – Piombino Trani senza ritorno (con Cristina de Vita) oltre a un sacco di racconti e articoli di cui non è facile conservare traccia. Molti racconti piombinesi sono sul blog TUTTOPIOMBINO edito ogni domenica dal quotidiano telematico QUI NEWS VALDICORNIA. Si occupa di cultura cubana, traduce ispanici, scrive di cinema e pubblica monografie su registi e attori italiani. Sito Internet: www.infol.it/lupi. E – mail: lupi@infol.it. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Blog di cultura cubana e letteratura: Ser Cultos para ser libres (http://gordianol.blogspot.it/)