Come premessa a questo mio resoconto devo dichiarare che non sono mai stato un uomo di facile impressione. Non sono mai stato superstizioso, non ho mai creduto alle leggende, né tanto meno ai fantasmi. Ero convinto, fin poco tempo fa, che nulla potesse esistere dopo la morte. Che questa chiudesse le porte dell’anima, lasciandola scivolare in un oblio eterno.

Questo, almeno, lo credevo fino all’anno 2020.

Capitò che, trovandomi in cerca di un’occupazione, mi imbattei in un annuncio online col quale si richiedeva la presenza di un nuovo custode nell’antico castello di Montebello, in provincia di Rimini.

Al tempo, trovandomi in gravi difficoltà economiche, anche se il ruolo di custode non rappresentava la mia più elevata ambizione, decisi di rispondere all’annuncio inviando il mio curriculum vitae. Avevo già avuto modo di svolgere quell’incarico presso un museo di storia naturale, quand’ero più giovane, e poi in un piccolo acquario di provincia. Sembrava che il destino, o la mia poca attitudine a svolgere altri mestieri, mi imponesse di perseguire quella strada.

Mi sentii sollevato quando mi contattò la direzione del castello per informarmi di avermi selezionato tra i vari pretendenti di quel lavoro. Così, senza esitazioni, a bordo della mia sgangherata vettura, mi recai al borgo di Montebello di Torriana.

Vidi subito il castello, una costruzione maestosa, ergersi sul colle alto 436 metri e dominare il borgo sottostante. La mia vettura faticò non poco a raggiungere il cancello d’ingresso. Venni accolto dalla direttrice del castello che mi fece accomodare nel suo studiolo. Dopo avermi illustrato le mansioni da svolgere, volle portarmi alla conoscenza di una leggenda che attraversava i secoli e che giungeva fino ai nostri tempi. La storia della piccola Guendalina Malatesta.

Lei non era una bambina come tutte le altre. Aveva, infatti, lunghi capelli bianchi e la pelle di un chiarore quasi innaturale. Era albina.

Nel 1300 essere così diversi dagli altri, tra superstizioni e paure, poteva voler dire essere uccisi anche in modi piuttosto cruenti. Per proteggere Guendalina dagli sguardi torvi dei paesani, la madre tentò di celare l’albinismo della figlia tingendole i capelli. Ma questi, chissà per quale effetto di chimica, non trattenevano il colore che svaniva in modo rapido, lasciando solo un leggero riflesso azzurro. Perciò Guendalina venne soprannominata Azzurrina.

Il padre, essendo un uomo piuttosto influente, decise di far vivere la bambina nel castello, circondata da guardie che ne garantivano la sicurezza.

Si narra che il 21 giugno 1375, mentre imperversava un forte temporale, Azzurrina era intenta a giocare con una palla fatta di stracci. Di colpo, il giocattolo iniziò a rotolare incontrollato giù da una rampa di scale che conduceva alla ghiacciaia. La stanza aveva un unico accesso, perciò le guardie si limitarono a osservare la scena attendendo il ritorno della bambina. Ma Azzurrina non le risalirà mai più. Scomparve nel nulla, come inghiottita dalle viscere del castello stesso.

Le disperate ricerche dei suoi genitori non portarono a nessun risultato.

Da allora, la leggenda vuole che ogni cinque anni, la notte del 21 giugno, la voce di Azzurrina torni a farsi sentire proprio nella stanza di accesso alla ghiacciaia.

Ringraziai la direttrice del castello per avermi messo alla luce della leggenda e le assicurai che l’indomani sarei stato pronto a svolgere le mie mansioni.

Così ebbe inizio il mio nuovo incarico. Mi occupavo delle pulizie delle stanze, di controllare che tutto fosse in ordine prima delle visite dei turisti. Ne venivano a frotte, da tutte le parti del mondo. Strinsi conoscenza con alcune guide turistiche, che ribadivano la leggenda raccontatami dalla direttrice del castello. Sembrava che questa fosse di dominio pubblico, che avesse valicato i confini italiani e persino europei. Non c’era visitatore o turista che non chiedesse di Azzurrina e della sua leggenda. Per conto mio, non vi prestavo molta attenzione. Mi limitavo a svolgere le mie mansioni, ad aprire e chiudere le stanze prima e dopo le varie visite, a tenere in ordine gli oggetti ben custoditi, ad accertarmi che nessuno rubasse qualcosa.

Finché arrivò il mese di aprile. La leggenda mi echeggiava nella mente e io continuavo a svolgere il mio lavoro in completa serenità. Non avevo mai sentito voci di bambina echeggiare nei lunghi corridoi, non avevo mai visto tavoli, o altri oggetti, alzarsi e rimanere sospesi nel vuoto per svariati secondi. I fenomeni paranormali, di qualsiasi entità, erano ben lungi da me, se mai ce ne fossero stati veramente.

La mattinata era tiepida, il sole splendeva sul borgo sottostante. Mi trovavo in una delle stanze adiacenti al salone delle feste. Stavo spazzando il pavimento. Tenevo la testa china, indaffarato nel mio lavoro di preparazione prima dell’arrivo della guida di turno e dei turisti. All’improvviso, con la coda dell’occhio, notai una macchia scura, come un’ombra, che si muoveva lungo le pareti. Spinto dall’istinto, alzai il capo di scatto.

E la vidi.

Una figura femminile si stagliava a pochi metri da me. Aveva un aspetto cadaverico, la pelle chiarissima. Se ne stava a testa in giù; i lunghi capelli, sfumati da una leggera livrea di un azzurro spento, sfioravano il pavimento; i suoi piedi nudi erano innaturalmente appoggiati al soffitto in legno; indossava una lunga veste bianca, e questa le rimaneva aderente al corpo, in modo inspiegabile perché, a causa della forza di gravità, avrebbe dovuto ricaderle addosso, coprendola almeno in parte.

Ricordo di non essermi mosso. Mi sentii paralizzare dalla testa alla punta delle scarpe. Lei mi guardava, sembrava osservarmi. In quei suoi occhi scuri, come biglie di una bambola, non vi lessi segno di aggressività o cattiveria. Anzi, sembrava sondarmi con curiosità.

Poi, dopo qualche istante, la mia mente prese a vacillare. Un brivido gelido mi risalì le vene. Ricordo di aver aperto la bocca, emettendo prima un gemito strozzato, poi un miagolio soffocato e, solo dopo qualche secondo, esplosi un grido di terrore. La mia mano lasciò cadere la scopa, che colpì il pavimento con uno schiocco di frusta. Arretrai fino a trovarmi con le spalle pigiate contro una parete.

Lei continuava a fissarmi. Benché non sembrasse aggressiva, il suo era uno sguardo di ghiaccio.

Chiusi gli occhi in modo istintivo. Le mie gambe cedettero presto e scivolai lungo la parete, chiudendomi su me stesso. Brividi freddi si rincorrevano nel mio corpo. Tremavo.

Non ebbi più il coraggio di sollevare la testa e di guardare. Rimasi nell’angolo, in una postura da roccia inamovibile, non so per quanto tempo.

Poi udii dei passi e una voce familiare che mi chiamava per nome. Trovai la forza per aprire un occhio, solo uno spiraglio di palpebra. E sospirai dal sollievo quando vidi il volto di una guida turistica che mi sovrastava.

Allora, con voce tremante, le raccontai l’accaduto.

Il ragazzo, sui trent’anni, mi ascoltava in modo attento. Nei suoi occhi non lessi, nemmeno per una frazione di secondo, il riflesso di potersi trovare davanti a un pazzo visionario: cosa che, di certo, avrei pensato io al posto suo.

Mi aiutò ad alzarmi. Mi cinse le spalle con un braccio. Gli indicai il punto in cui era apparso il fantasma. E solo allora notammo che, sul soffitto in legno, erano presenti strane macchie bianche.

Cercammo di cancellarle con l’acqua, ma appena questa si asciugava, le chiazze riapparivano. Guardandole meglio, ci accorgemmo che non si trattava di semplici macchie: erano orme di piedi nudi.

E se davvero non credete a questa mia storia, se davvero dubitate di questo resoconto, sappiate che una di queste impronte è ancora lì oggi, presente e visibile a tutti. Prestando attenzione, si possono notare l’alluce, quattro piccole dita e il tallone di un piede di taglia 34-35, proprio come quello di una bambina.

Dopo questa esperienza, decisi di presentare le mie dimissioni. Non sarei mai stato in grado di aggirarmi in quei corridoi o in altre stanze del castello senza avere addosso il timore, la paura più acuta, di ritrovarmi di nuovo faccia a faccia con uno spettro. La direttrice comprese e mi augurò buona fortuna per il mio futuro.

Ora, dopo quanto vissuto al castello di Montebello, credo che vi sia qualcosa di inspiegabile che può accadere dopo la morte. Credo che, forse, questa non sia proprio la fine del tutto. In merito ai fantasmi, penso che questi andrebbero accettati così come si accetta il fuoco, fenomeno più comune ma altrettanto misterioso. Che cos’è il fuoco? Non è veramente un elemento, nemmeno un principio di moto e nemmeno una creatura vivente; non si tratta neppure di una malattia, anche se si propaga da una casa all’altra. È un evento anziché una cosa o una creatura.

I fantasmi, allo stesso modo, sembrano essere eventi, anziché cose o creature.

L’autore

Davide Stocovaz è nato a Trieste nel 1985.

È autore e sceneggiatore, tra i suoi romanzi ricordiamo “Zanne nelle Tenebre”, “Abissi”, “Ombra di Morte”, “Addendum”, “Il Mostro del Buio”, “La Giungla dell’Orrore”, “Krampus, la leggenda è viva” e “Il Re delle Dolomiti”.

Nel 2010 vince il Primo Premio Internazionale per la Sceneggiatura Mattador, dedicato a Matteo Caenazzo.

Alterna il percorso in narrativa con la stesura di poesie. La sua prima raccolta poetica “Sussurri nel Vento” è stata pubblicata nel 2022 dalla Ensemble Edizioni.

Collabora con la rivista online Bora.La con la stesura di racconti ambientati a Trieste.

Visceralmente legato alla sua città natale, continua il suo percorso nella narrativa con la stesura di racconti, romanzi e poesie.

Il custode di Davide Stocovatz
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