Sto leggendo un racconto che parla di morte. Di tante morti che si susseguono una dietro l’altra. Faccio fatica a capirne il senso. Che numero di morte è questa? La settima? O la decima? Provo a contarle ma ogni volta perdo il conto. Ricomincio per tre volte e poi lascio perdere e riprendo da dove ho interrotto. Mia moglie si agita nel sonno e mi distrae. Spero che stia sognando un mostro che se la mangi ‘sta troia stupida. Guardo il suo corpo grasso. Lei crede che non sappia dei suoi amanti. Quanti sono? Provo a contarli ma perdo il conto. La guardo. Socchiude la bocca. Le labbra siliconate. Quanti cazzi sono entrati lì dentro? Si sposta sul fianco, una mano le cade tra le gambe. Qaunti cazzi le sono entrati nella fica?
Riprendo a leggere. Ma è sempre lo stesso personaggio che muore? O sono personaggi diversi? Mi ha stufato ‘sto racconto del cazzo.
Mi alzo. Mi è venuta fame.
In cucina mi preparo un panino e lo divoro con avidità. Penso alla merce che arriverà domani in negozio. Domani c’è Piero? Piero è il mio commesso. Quanti giorni di fiere gli ho dato quest’anno? Provo a contarli ma non ci riesco.
Torno a letto. Passo prima dalla stanza di mio figlio. Mi affaccio. Sta dormendo. È un bel bambino. Senza dubbio. Alla sua età io non ero così bello. Non ha preso il mio naso aquilino. E neanche quello all’insu della madre. Ha un naso dritto, da profilo greco. E gli occhi azzurri? Quelli li ha presi dalla madre. E il colore dei capelli? Quella sfumatura biondo rossiccia? Quando sarà grande, diventeranno scuri come i miei? O biondo platino come quelli di sua madre? O resteranno rossi? Come sono lunghi… domani lo porto dal barbiere. Provo a contare i capelli di mio figlio ma perdo il conto.
Entro nella stanza. Prendo un cuscino e lo appoggio sulla faccia del mio bambino.
Il corpicino si dibatte violentemente. Le manine artigliano l’aria cercando di bloccare il misterioso aggressore. L’orco che finalmente è arrivato. L’uomo nero.
Quando mio figlio smette di agitarsi, spingo ancora per mezzo minuto e poi tolgo il cuscino.
Gli occhi sono spalancati. La lingua estratta. La pelle cinerea.
Torno da mia moglie.
Attraversando il corridoio, provo a contare quante volte si ripete il motivo ornamentale del pavimento ma perdo il conto.
Anche per lei il cuscino. Ma questa volta le braccia sono più lunghe e le dita riescono ad artigliarmi. Rivoli di sangue dalla mia pelle. Poi un colpo duro sulla testa. Una, due, tre volte. Finché non scendo dal letto e libero mia moglie che ha in mano il telefono sporco del mio sangue.
“Troia!” le urlo. Lei mi guarda tra lo stupito e lo schifato. Con un salto la raggiungo e la prendo a schiaffi. L’afferro. Lei fa resistenza. Mi graffia. Mi dà un calcio nelle palle. Urla. Grido anch’io e continuo a colpirla nonostante il dolore all’inguine. Poi il mio campo visivo viene mutilato. Il dolore. Forte. Dentro l’occhio. La troia mi ha infilato qualcosa nell’occhio. Le tocco. Sono forbici. Che ci fanno le forbici della cucina nella stanza da letto?
Mia moglie mi appare, tra le luci nere e rosse che esplodono, come una furia incazzata, disperata, piangente, urlante, finché non si volta ed esce correndo dalla stanza.
Io mi accascio per terra. Non vedo più niente. Sento il sangue che mi ricopre vischioso. Muoio ascoltando la voce di mia moglie urlare il nome di nostro figlio…

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