Gordiano Lupi

Gordiano LupiGordiano Lupi Sono uno che è nato in una città d’altiforni nel 1960. Ho cinquantanove anni che mi sento sulle spalle, pure se cerco di non farci caso. Sono un tentativo di scrittore da sempre, forse la colpa è di mio nonno ma qualcosa deve entrarci mio padre. Troppe fiabe narrate, troppi racconti, la passione per i fumetti, poi il cinema, mia nonna, ma il peggio l’ha fatto Giovanni Pascoli, complice Cuore di Edmondo De Amicis, quindi Stan Lee con la sua Marvel anni Sessanta. Scrivo racconti, nascondo poesie tra pagine di libri scolastici; non ho più di otto anni quando inizio a compilare quaderni di liriche struggenti, profumate di Leopardi e Pascoli, dedicate all’amore del momento, vero o falso che sia. Tutti quaderni perduti, purtroppo, alcuni pieni zeppi di poesie del Pascoli copiate a penna stilografica e biro, ma vado avanti per strade poco congruenti, inconciliabili con quel che sono in quel momento. Si cambia, questo l’ho capito, si cambia un poco ogni giorno, certo è vero, si cambia e non si comprende quel che è vero, quel che potrebbe. Liceo classico, forse è la mia scuola. Non l’ho capito ancora, questo è certo. Italiano e letteratura sono un amore che sboccia a prima vista. Non così greco e latino, che è più dura, con la grammatica e le traduzioni, come matematica, fisica, le scienze, materie che mai saprò capire. Nel tempo libero tento di fare il calciatore ma non son bravo, vorrei ma non posso è la costante eterna della vita. Lo sport è importante, il calcio è il mio mondo, forse più dei libri, ci sto dentro ventitré anni, arbitro dilettanti, quarta serie, professionisti, fino alla serie C dove mi fermo. Esiste un limite, a tutto c’è una fine, pur se ci provo e penso sia il mio mondo, a cianche larghe e vita sderenata. All’Università sbaglio proprio tutto, ché mi confondono parenti e un po’ d’amici, m’iscrivo a legge e non sarebbe il caso, giurisprudenza non m’affascina per niente, anzi non vedo l’ora di chiudere testi di diritto e rifugiarmi nei versi di Pavese. Preparo civile e compro tutto Moravia, le procedure le affronto con Bianciardi, la tesi finisce discorsiva, scuola privata o pubblica, dove forse vorrei andare. Mi laureo pure in questa cosa strana che in fondo mica ho mai capito, quasi contemporaneamente mi fidanzo, altro errore che non vorrei rifare. Trovo un lavoro basta sia, che ancor mi lega un sasso al collo ogni mattina, il mio volontario suicidio quotidiano, tutto per esser nato figlio d’operai e dover portare uno stipendio a casa. Fosse solo questo, mica è vero, quello che per davvero manca è personalità, ambizione, aver chiaro quel che si vuol fare. Meglio, era il tempo che l’ambizione la riservavo al calcio, pur se scrivevo, leggevo molto, ci sono stati giorni e settimane pervasi dal Kundera pensiero, da Sepulveda, da sudamericani, confusi a Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e un sacco di francesi decadenti. Ho ascoltato tanti cantautori, non amo la musica, proprio non la capisco, ricerco la musicalità delle parole, quindi incontrare De André viene da solo, poi tutti gli altri cantastorie come De Gregori, Conte, Dalla, Rosso, Gaber, Guccini e un po’ Jannacci. Leggo pure tanta poesia, un po’ ne scrivo, bruttina, prolissa, poco musicale. Mi vien meglio la narrativa che sembra poesia. Scrivo sempre un po’ le stesse cose, è un difetto dicono gli scrittori, per me anche un pregio, un segno distintivo, un tratto di stile. Pavese mica ha troppi temi, né trame complesse, Cassola pure, mi dico per giustificarmi, la mia eterna scusa; in ogni caso leggo tanto e scrivo poco. Lascio una fidanzata per un’altra, con questa mi sposo, anche se passano undici anni prima di farlo, in ogni caso il matrimonio dura poco, appena un anno, poi va tutto a monte, nonostante ci conoscessimo bene, persino troppo, c’era poco da scoprire. Tu vai a capire, forse i detti popolari son mica tanto veri, forse non si dev’esser troppo in confidenza, va meglio una storia improvvisata che una costruita poco a poco. Babbo e mamma ci restano un po’ male, pure i suoceri, ché ormai eravamo amici, ma va bene così, noi l’abbiam capito. Scopro Cuba, quasi per caso, un viaggio inaspettato, trovo l’amore (penso della mia vita), mi sposo ancora, prima per finta, quindi per davvero, al punto che ancora non ho chiaro quale sia stata la data delle nozze. Tu guarda le stranezze della vita, ci conosciamo poco, quasi zero, eppure son oltre vent’anni che ci sopportiamo, mica niente. Prima di Cuba avevo pubblicato un librettino – Lettere da lontano – che trasudava amore per Piombino, raccontava il mio ritorno a casa, la ricerca di solitudine perduta, in forma letteraria un po’ involuta che tutto sommato m’è servita. E dopo Cuba vengono racconti, romanzi, saggi, storie di santeria e palo mayombe, orrori tropicali, vita ai Caraibi, musica e politica, tante traduzioni. La poesia è un po’ dimenticata ma la scrivo, riposta non tra pagine di libri ma nel computer, in cartelle che sono più appartate. Intanto cresce un figlio, ventidue anni, bene o male, in tutto a me diverso, molto distante, meglio per lui, mica sono un grande esempio da seguire, concretezza al posto di tante palle letterarie. Cresce anche Il Foglio Letterario, un altro figlio nato nel 1999, come rivista per scoprire autori, diventa editore, andiamo a Pisa, nel 2003, vendiamo tutto, specie racconti dell’orrore. Sono vent’anni ormai che continuiamo, facciamo cinema, storie, poesia, adesso scrivo come un tempo di Piombino, corsi e ricorsi, si torna pur sempre quel che siamo. Un po’ di talenti, certo, li scopriamo, qualcuno pure allo Strega lo mandiamo, restiamo gli stessi, chiaro, un passo dai campioni, non c’è verso, non se ne può uscire. Facciamo fiere, incontri, presentiamo libri, ci scontriamo ogni giorno col potere, quello ci manca, non lo sappiam gestire. Nasce mia figlia, intanto, è il 2006, lei un poco forse mi assomiglia, stiamo a vedere, qualcosa ha scritto, altro sta facendo, vediamo cosa ne vien fuori. Adesso che sto tirando i conti dico che certe cose avrei potuto anche evitare. Yoani Sánchez è stato un grande errore, legarmi a lei chi me l’ha fatto fare, ora ne sono uscito, ne son fuori, libero e obliato, la cosa migliore. Vivere come Padilla, in fondo, non mi spiace, fuori dal gioco, libero e appartato, mi permette di riscoprire tutto il mio passato, rileggere le madeleines della mia vita, metter me stesso nei panni d’un vecchio calciatore, scrivere due romanzi che son la mia cifra migliore e un piccolo intermezzo piombinese sulle orme di Paul Nizan e della maledizione dei vent’anni che parla di un’adolescenza ormai ferita. E mi dico adesso basta narrativa, tanto varrebbe scriver poesia, continuare a studiar cinema italiano, visto che scrivere è cosa personale, dettata solo dalla mia passione. Per il momento il mio Foglio Letterario fa vent’anni. Facciamo festa senza pensare troppo. Domani, poi si penserà, se mai…

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