Un album che, metaforicamente, potremmo definire un tessuto di magno pregio. A principiare queste regali danze è Away from the dark, dove un violoncello canta dolcemente, in modo molto profondo, quasi come se si sentisse battere il cuore tra le pareti in legno ed è a metà brano che parte questa cavalcata proto symphonic-metal, cosparso da una vena elettronica in sottofondo.

Proseguendo l’ascolto ci si imbatte in In the storm, una melodrammatica ballad, che carica pian piano l’ingresso delle chitarre nella parte finale, con una secca chiusura di piano, che d’un tratto conduce a Dreamscape che, per deduzione, dovrebbe far riferimento al film fantascentifico del 1984. Ma tralasciando questo aspetto, il brano si presenta come quella che potrebbe essere, tranquillamente, una colonna sonora. Un brano alquanto grintoso, con i consueti arpeggi di archi in background e un piano che la fa sempre da padrone.

Lacrime di meteora, a mio avviso, il nome più consono a tale brano. Si ode davvero il pianto, si ha la percezione di vedere un corpo immobile piangere. Con questa linea di cantato femminile che si fonde alla perfezione con le note d’arco. E dopo aver visto piangere una meteora, si torna a cavalcare le onde del tempo con Rapture of time, con queste fantastiche aperture armoniche, sulle quali affiorano, imperterrite, le line di piano ed archi, spruzzate, ogni tanto, con delicati vocalizzi. Anche qui, tutto molto sinfonico e cinematografico.

E se il tempo è una delle parti di cui è composta la struttura quadridimensionale dell’universo, ora passiamo allo spazio, meglio inteso come distanza, in parole povere, quello che nell’album viene tradotto come: The distance from your eyes. L’impatto che si ha a questo punto dell’album è: possibile che ogni traccia riesce precisamente a descrivere l’intenzione del titolo (o viceversa), seppur utilizzando stilemi semplici? SI, è possibile. Almeno, è possibile per chi, come Danielpix, sa cosa sta facendo.

In Her si intravedono atmosfere premurose, calde, come a palesare il ritratto del volto per il quale si sta scrivendo. Seppur delicato, il brano riesce ad essere incisivo e aggressivo, con un carillon che emerge qua e la all’interno della melodia. Ed ecco che torna il caro violoncello a prendere le redini di un brano come The Unforeseen, una cavalcata aspra, quasi pietrificante. Hybrid dreams è costruito su arpeggi di piano, sui quali si innestano sonorità quasi dubstep, in un connubio sinfonico-elettronico da acquolina in bocca.

E lì dove vi è la fine di un album, vi è End of world, che porta a chiudere il tutto su atmosfere epiche, spingendo l’acceleratore del metal sinfonico. Tutto toccato con molta delicatezza, modus operandi dell’intero disco.

In conclusione, quello che ho ascoltato può essere definito come un validissimo prodotto e, dunque, consiglio animosamente l’ascolto del suddetto.

Link per l’ascolto:

Spotify: https://open.spotify.com/album/1V8jhNeSNdOxKztzmjTwr6

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