Orrore a largo di Retirnia di Matteo Mancini
Orrore a largo di Retirnia di Matteo Mancini“Coloro che sognano di giorno sono consapevoli di molte cose che sfuggono a coloro che sognano solo di notte. Nelle loro visioni grigie captano sprazzi d’eternità, e tremano, svegliandosi, nello scoprire di essere giunti al limite del grande segreto. …” Eleonora – E.A. Poe

La spiaggia era deserta, così come la terrazza che vi si apriva sul retro. Silente, se ne stava quieta sotto l’ultimo abbraccio diurno. Non vi erano ombrelloni, né sdraie. Le membra del gigante sabbioso si snodavano tra dune e graminacee, dipingendo il luogo dell’aspetto tipico del decrepito giunto alla soglia del trapasso. Era il triste periodo invernale. La stagione in cui i turisti dimenticano Retirnia, sacrificando il tempo al dio denaro o facendo volare i cuori verso altri lidi.
Due figure si stagliavano sullo sfondo violaceo. Tagliavano in due il globo che si eclissava nelle acque del Tirreno. Un disco scarlatto, prossimo a naufragare in una tavola turchina, sospeso sulla linea dell’orizzonte.
Era il preludio della notte. Gli attimi che separano il tangibile dall’occulto.
Il più vecchio dei due osservatori era incurvato sulle transenne della terrazza. Un piede poggiato su una sbarra, le braccia raccolte sul petto. Le pupille, intente a scorrere nell’immenso, gli dardeggiavano sotto i deboli spruzzi solari. Piccole quanto brillanti, sembravano ardere di una vitalità ascetica.
Alle spalle del vecchio, un ragazzo prendeva appunti su un taccuino. Una sigaretta serrata tra le labbra, il bavero della giacca rialzato.
Da buon giornalista di storie paranormali, il giovane si stava documentando su uno strano episodio verificatosi nel 1939 sulla costa toscana. Più di preciso, a largo di Retirnia. Dopo mesi di ricerche, aveva ottenuto ciò a cui ambiva: un appuntamento con il pescatore più vecchio del litorale nonché unico testimone oculare della vicenda. Certo, avrebbe preferito incontrarlo in un pub o in un bar, ma l’altro non aveva acconsentito.
“Sono troppo vecchio per quei luoghi” si era giustificato, pretendendo un’ambientazione all’aria aperta.
La penna aveva appena cessato di scrivere sul foglio le indicazioni preliminari, quando il giovane alzò la testa.
Il vecchio se ne stava immobile, a godersi il tramonto. Aveva una folta barba e dei lunghi capelli sciolti nel vento. Erano bianchi, ma una patina di unto li avvolgeva tanto da dare l’impressione che fossero spruzzati da polvere di stelle.
Il volto, ricoperto di rughe, testimoniava i troppi anni trascorsi sotto la morsa del sole. In particolare, stupiva lo stato della pelle: era incartapecorita, simile a una pergamena di un’antica civiltà.
“Tu vuoi sapere. Non è vero, ragazzo?” ridacchiò l’uomo, senza voltarsi.
La voce roca metteva brividi. L’accento era apatico, pressoché monocorde.
“Ho fatto molti chilometri per questo” rispose l’altro, grattandosi i baffi. “Gliene sarei molto…”
“L’ho visto di decine di colori. Blu, verde, talvolta nero, ma è quando diviene lavagna che il terrore mi corrode l’anima” lo interruppe il vecchio. “In quei momenti, il cielo si trasforma in un turbine di nuvole fangose, mentre il vento inizia a ululare allo stesso modo di un crotalo pronto a sputare il suo siero.”
Il giovane immaginò di trovarsi su una barca di pescatori. Una di quelle raffigurate nei libri di un tempo, con i remi e la struttura in legno. Poteva già sentire il mormorio delle onde e gli spruzzi di salsedine attingergli il viso. Vedeva il mare spumeggiare mentre, in un continuo sali e scendi, vi ballava sopra. Gli parve, persino, di udire un crepitio; là, oltre lo strato di nubi. Un tuono, forse. L’odore del salmastro però non lo sopportava. Lui, uomo di città, non lo poteva proprio tollerare: mai avrebbe potuto affrontare quella distesa sussultante. Un conato gli azzannò le budella, inducendolo a tossire.
“Beh, già in crisi?” gracchiò il vecchio, sfilando da un taschino del tabacco da masticare. Ruotò il capo di centottanta gradi e sfoderò un sorriso di soddisfazione. Aveva denti neri, macchiati dal tabacco appena ingerito.
“Dobbiamo ancora cominciare…” farfugliò, prima di sputare un catarro.
“Insomma, è allora che un risolino mi si incolla sul volto” proseguì il pescatore. “Si, una forbice malata; figlia di un delirio che non mi vuol abbandonare. Un ricordo che mi porto dietro dalla giovinezza… Ricordo? Farei meglio a dire visione; in quanto la mente fa brutti scherzi, specie se costretta a nutrirsi con determinati messaggi. E a suo tempo, le opzioni possibili erano poche”
Il vecchio fece una pausa, ammirando l’ultimo raggio solare fuoriuscire dalle acque.
“Che cos’è la realtà, se non una concatenazione di eventi filtrati da occhi e recepiti da cellule cerebrali? Prova a sciogliere questo quesito, mio giovane amico, e ti renderai conto di quanto sia flebile il confine che divide il reale dal fantastico, il quotidiano dall’incubo. I filtri, ragazzo. È tutto una questione di filtri”
Il giovane sbuffò, innervosito. “Sono venuto per parlare della sua esperienza e non per sentire cosa ne pensa di…”
Il vecchio agitò un braccio. Le pupille fiammeggianti, il volto contratto in un’espressione austera.
“Ti accontenterò, ma sappi che certe porte dovrebbero restare chiuse. La pace dell’animo gode di un equilibrio precario, fatto di illusioni e falsi miti. Basta un attimo per perderlo e smarrirsi nell’imponderabile. Solo chi si è preparato può intraprendere il cammino verso l’onniscienza.”
Il buio ormai era calato sulla cittadina, incrinato da una pallida luna affacciatasi a ponente.
Il vecchio serrò le mascelle, ruminando il tabacco, quindi iniziò a narrare l’avventura che lo aveva visto protagonista. Una storia verificatasi più di mezzo secolo prima, sbiadita dai lustri di sviluppo economico.
“A quel tempo, Retirnia non era la cittadina di ora. Nossignore. Era un ammasso di dune sabbiose e di case disperse nei boschi. Un posto isolato, da poco sottratto alle paludi. Un solo viale la connetteva alla civiltà industrializzata, il resto era ingoiato dalla vegetazione.
I cittadini che vi vivevano erano forestieri venuti in cerca di fortuna. Nutrivano la speranza di affermarsi in un paese che avrebbe dovuto ancora nascere. Per fortuna della mia famiglia, vivevano per lo più di pesca. Mio nonno era stato un pescatore, e mio padre e io ne avevamo raccolto l’eredità. Venne, però, un periodo – di cui non troverai traccia nei volumi della biblioteca comunale – in cui i pesci si ridussero in massa” il vecchio strizzò le palpebre, osservando il faro che baluginava a largo.
Lo scrittore distolse l’attenzione dal taccuino, e penetrò nella zona d’ombra adiacente al fascio di luce vomitato da un lampione.
“Tenga” disse, porgendo all’altro una boccetta metallizzata “ma veda di proseguire.”
Il pescatore lo squadrò, stupefatto. Poi, distese l’indice in segno di ammonizione. “Mi hai preso per un alcolizzato?”
Il giovane scoppiò in una risata. “Guarda troppa televisione, signore. C’è dell’acqua dentro…”
L’altro gli strappò dalla mano il contenitore e se lo portò alla bocca. Bevve con avidità, dopo si pulì le labbra con il dorso della mano. Gli occhi semichiusi, quasi da sfida. La lingua impastata, ma pronta di nuovo per comporre parole.
“Televisione? Beh, lasciamo perdere… Fu una decade lunga e dolorosa. Mentre lo Stato si avviava verso la grande guerra, i pesci – a poco a poco – scomparvero. Ma non furono gli unici a dissolversi. La disperazione, del resto, incoraggia l’incoscienza e spinge dove solo i saggi dovrebbero inoltrarsi. Così, diversi pescatori non fecero più rientro nelle loro case. Svanirono nel nulla con le loro imbarcazioni, quasi fossero stati dei tributi versati dalla razza umana a chissà quale divinità marina” al vecchio sfuggì una risata isterica.
“Molti persero la speranza e si dedicarono ad altre professioni. Le famiglie iniziarono a nutrirsi con i prodotti provenienti dalle campagne. Il pesce fu considerato un alimento prelibato, di cui si poteva fare a meno. Si giunse, persino, a ignorare il problema dell’assenza della fauna marina: c’era altro a cui pensare.
“Questo però non fu sufficiente a farci stare a casa o a farci cambiare lavoro. Un vero pescatore ha il mestiere nel sangue. È un sigillo con cui nasce e che nessuno può più togliergli.
“Io, mio cognato e suo figlio tredicenne non facemmo eccezione alla regola. Salpammo dalla costa incuranti del pericolo, spingendosi in direzione di aree vergini. Nutrivamo la speranza di ritornare con un carico tale da rendere felici i nostri cari. Remammo con vigore, superando le secche e domando i cavalloni.
“Pian pianino, vedemmo la terra assottigliarsi a oriente; sempre più piccola, sempre più lontana. “Butta le reti!” mi gridò mio cognato. Era un tipo burbero, per cui gli obbedii senza storie. Afferrai la cima della rete e mi apprestai a calarla in mare. Fu allora che avvertii qualcosa di insolito.”
“Insolito?” domandò lo scrittore, battendo la penna sul taccuino.
“Lo puoi dire forte, figliolo!” ruggì l’altro. “Ho ancora nelle narici l’odore dolciastro e stucchevole che galleggiava nell’etere. Un aroma simile al tanfo di un mattatoio. Uhm… scommetto che non hai mai sentito il puzzo di un mattatoio, giusto?”
“Beh, non significa che io non lo possa immaginare” rispose il giovane.
Il vecchio piegò le labbra in una forbice compiaciuta. “Immaginare… è la via apparentemente più salutare per sottrarsi dalla realtà. Bada, ragazzo, dico apparentemente. Il rischio è di rimanere confinati in un mondo privo di regole e di non distinguere più quale sia la dimensione così detta reale.”
“Si, certo. Può procedere adesso?” protestò, annoiato, lo scrittore.
Il vecchio scrutò di nuovo il Tirreno. La luna adesso disegnava un corridoio argentato sulle acque, facendole cangiare alla stregua di diamanti. Bevve un altro sorso dalla borraccia, quindi riprese la narrazione.
“Facemmo in tempo a scorgere un’area più chiara del resto. Una sorta di macchia che spiccava nell’azzurro. Era in direzione di essa che ci conduceva la corrente. In un attimo, le nuvole – sospinte da un libeccio levatosi dal nulla – oscurarono il firmamento. Le onde si incresparono in una spuma biancastra. In un turbine di bollicine, la superficie divenne lavagna e iniziò a sbattere sulla prua; nel modo in cui un flagellatore si appresta a saggiare le carni della vittima. In un battito di ciglia, il sole fu spazzato via.
“Scese la notte. Non quella che conosci tu; ma una notte fuori luogo, priva di astri e di luna. Sentivamo la barca scivolare via, mentre ci tenevamo l’uno con l’altro per non esser sbalzati nell’ignoto.
““Un vortice…un vortice!” urlava mio cognato. Ma si sbagliava. Eravamo ciechi, in balia di sibili che ci echeggiavano intorno.
“Vedemmo sorgere dagli abissi un disco fosforescente. Risaliva da lontano, molto lontano, e ascendeva là dove sarebbe dovuto esservi il cielo. La sua era una luce fredda, malata. Di tonalità azzurrognola, iniziò a smascherare ciò in cui ci trovavamo a navigare.
“L’astro straniero saliva e saliva ancora. Sono sicuro che stesse ridendo di noi, osservando la nostra sorpresa per un mondo che non avremmo potuto concepire. Il mare intanto mugghiava. Il suo era un ruggito che penetrava nelle ossa e slabbrava i nervi.
“Lentamente, iniziammo a scorgere nel buio. Dapprima notammo le acque. Si erano trasformate di un grigio tale da sembrare cenere liquida. In seguito, scorgemmo un qualcosa che vi emergeva; in obliquo, rispetto alla nostra prospettiva. Lacerava la penombra, irradiando un’aurea gassosa. Infine, divenne nitido e ci rendemmo conto che ve ne erano altri.
“Ci trovammo accerchiati dalle colonne di una città dimenticata. Monoliti di pietra che fuoriuscivano da uno specchio oleoso; cupo e impenetrabile. Sulla pietra levigata delle costruzioni si attorcigliavano spire di alghe di un verde putrido. Erano marce, perché esalavano un odore rancido di pesce avariato.
“Restammo infatuati da uno spettacolo così insolito, quanto desolato. Ma non era che l’inizio. A mano a mano che l’astro conquistava il cielo, una serie di palazzi si materializzarono al nostro cospetto.
“Strutture di un’eleganza accecante, frutto del genio di esseri vissuti in un’epoca perduta. Templi, eretti con chissà quale lega, emergevano dal Tirreno. Scalinate consunte, sfuggite dalle profondità, conducevano verso portali d’oro zecchino.
“Rimasi colpito dagli strani rilievi che ornavano le mura degli edifici, e dai rosoni che impreziosivano gli stabili più maestosi. Erano realizzati con cristalli che cangiavano, a seconda dell’inclinazione dell’osservatore, riproducendo forme di creature indefinibili.”
“Si sforzi di descriverle” intervenne il giovane.
Il vecchio fece un cenno col capo. Mise una mano nei pantaloni e sfilò una medaglia unita a una catena. Una volta estratta, distese il braccio e la lasciò ciondolare.
Incerto sul da fare, lo scrittore si passò la lingua sulle labbra.
“Su, ragazzo. Vuoi restare lì impalato tutta la notte?”
Il giovane sospirò, quindi afferrò la catena.
“Beh?”
“Guarda bene, troverai lo spunto per la descrizione che ti interessa… sempre che tu riesca a tradurla in parole” farfugliò il pescatore.
Lo scrittore osservò ciò che aveva nel palmo. Era un oggetto discoidale, forse d’oro. In rilievo, vi era scolpita una creatura avvolta da sette ramificazioni protese a mo’ di tentacoli su una figura centrale. Non era una piovra, perché il tutto si sviluppava da una specie di fusto umano. Difficile dirlo con certezza, si poteva tuttavia intravedere una sorta di pinna uncinata che spuntava dal dorso. Ma era davvero una pinna o piuttosto una croce spezzata? La risposta era tutt’altro che di pronta soluzione.
“L’ha trovata in quel luogo?” azzardò il giovane.
“A parte la catenina, si. Quel simbolo era dappertutto, ma la cosa più macabra fu dove rinvenimmo l’amuleto.”
“Bene, prosegua allora. Sono tutto orecchie.”
“La barca scivolava intrepida, senza che noi la sostenessimo con i remi. Costeggiava pareti millenarie, progredendo in un corridoio di brodaglia stagnante. Era come risucchiata verso il centro dell’agglomerato edilizio. Lungo il tragitto incrociammo imbarcazioni di vario tipo. La maggior parte erano sventrate e i resti galleggiavano alla deriva. Altre erano integre, ma con poco o niente in coperta.
“Mio cognato cominciò a bestemmiare, mentre mio nipote piangeva. Tuttavia, si sarebbe dovuto far qualcosa. Imbracciai un arpione e attesi che la corrente ci affiancasse a qualche relitto. Non dovetti aspettare molto.
“Superata una patina di muschio, riuscii a spingere verso di noi una piccola barca di legno. All’interno, c’era un corpo prono. La speranza di trovare un sopravvissuto svanì subito. Non appena lo voltai, mi trovai di fronte un volto che avrebbe funestato per mesi le mie notti. Un teschio rivestito da una pelle coriacea, disposta su membra ormai spolpate di carne e di muscoli. Era mummificato!
“Mio nipote iniziò a urlare. Peggio di lui fece mio cognato: si strappò il crocefisso dal collo e lo lanciò in mare, urlando eresie che non mi sarei mai atteso neppure da un ubriaco.
“Per fortuna, in quel pandemonio, riuscii a mantenere la lucidità opportuna per scorgere un leggero luccichio tra le dita scheletriche del cadavere. Avvolto da una pellicola squamosa, rinvenni la medaglia che ora hai….”
Un rumore metallico coprì la voce del pescatore. L’amuleto era caduto sul piastrellato.
Il vecchio dette sfogo alla sua risata cavernosa. “Ma non sei quello che vorrebbe aprire certe porte?”
“Mi è scivolato, che crede?”
“Certo… certo…” gracchiò l’altro, ingozzando l’ultimo sorso dalla borraccia.
“Comunque, non appena presi la medaglia, delle strane cantilene principiarono a gorgheggiare dagli abissi. Più che cantilene, erano melodie che incantavano i sensi. La loro intensità raggiunse l’apice quando l’astro interruppe la sua ascesa. Era perpendicolare alle nostre teste, alto come il sole a mezzogiorno. Le acque iniziarono a gorgogliare. Sembravano in ebollizione, finché una schiuma fangosa spazzò via dalla superficie la mucillagine.
“La cantilena divenne più chiara. Era un coro che si ripeteva di continuo, componendo frasi costituite da vocaboli alieni.”
“Alieni? In che senso?”
“Impronunziabili da corde vocali umane. Martellavano le orecchie, eppure inducevano in uno stato di catalessi. Strani esseri serpentiformi iniziarono a nuotare sotto il pelo dell’acqua. Era impossibile ammirarli nel dettaglio, perché il mare era torbido. Ricordo solo i loro ventri color panna e i dorsi scuri.
“Il terrore si cibò della mia ragione. Temetti che un tentacolo fuoriuscisse dall’inferno e ci portasse giù con sé, nelle fauci del demonio.
“Lo ammetto, feci un gesto deplorevole. Ormai, a distanza di anni e sempre più vicino alla morte, posso confermarlo. Ghermii l’impermeabile di mio nipote e lo spinsi di sotto. Suo padre non se ne accorse neppure. Era sdraiato a prua, perduto in un lago di lacrime: le palpebre chiuse, le mani sulle orecchie.
Sperai che quel gesto potesse placare l’ira delle bestie che ci stavano pregustando; già, sperai…”
Il vecchio si interruppe. “Hai ancora da bere, ragazzo?” chiese, distogliendo gli occhi dalle tenebre che celavano il mare.
Il giovane non lo sentì. Era con la mente immersa nel fondale marino. Stimolato dal racconto del vecchio, si vedeva seduto nella melma; massaggiato dalle correnti del baratro e circondato da pesci delle specie più disparate. C’era una grande pace là sotto, unita a una sensazione di completezza. Aveva la convinzione di essere a conoscenza di tutti i segreti dell’esistenza: niente per lui era inesplicabile.
Sopra a sé non vi erano pesci, ma creature tentacolari intente a serpeggiare fra le strutture ciclopiche. Le pareti si innalzavano sino a fendere la pellicola sfuocata che separava il mondo dell’acqua da quello dell’aria. Non aveva paura dei mostri, perché erano un lato di una stessa medaglia: una proiezione di un insieme più vasto di cui ora anche lui ne era parte integrante. E là, adagiata sulla pellicola, l’oscura sagoma di una barchetta. Un agnello sacrificale posto sull’altare di un Dio da adulare, ma troppo spesso accantonato nei luoghi più reconditi del creato.
“Ehi…Ehi…” gridò il vecchio, strattonando il braccio del suo compagno. “Hai ancora da bere?”
“Da bere? No…” scrollò il capo l’altro. Il volto paonazzo, le pupille dilatate. “Vada avanti, la prego” aggiunse, senza più prendere appunti.
Il pescatore tossì, massaggiandosi il pomo d’adamo.
“Urlava come un indiavolato, mio nipote. L’acqua gli cingeva la gola e, delle volte, lo sovrastava. Poi, lo vidi emergere per metà. Pareva fluttuare. Gli occhi spalancati, la bocca contratta alla massima estensione; ma muta. Trascorse un pugno di secondi, che mi parvero ore. Dopo, un fiotto di sangue gli zampillò sul mento. Anziché dibattersi, iniziò a ridere a crepapelle. Percepii il suono delle ossa che si spezzavano, mentre lui rideva sempre più forte. Quindi lo vidi discendere nell’occulto, in una gora di sangue. Fu la svolta cruciale. Corpi squamati iniziarono a perforare la superficie per immergersi di nuovo. Erano affusolati, simili ad anaconde.
“Credetti che il mio cuore non avrebbe retto all’orrore. ‘È la fine’, pensai. D’un tratto, vidi i palazzi tremare. I calcinacci si staccarono dalle mura, scavando profonde crepe. Le acque colarono a picco, risucchiate da quella che poteva essere solo una voragine apertasi nella crosta terrestre. La barca si inclinò e scese giù, per poi sollevarsi in aria d’un colpo.
“Davanti a me, si stava levando una creatura mastodontica. Il suo raglio mi tolse l’udito: era un urlo di rabbia. Riuscii appena a intravedere le scaglie della pelle che ricoprivano il cranio. Velate da una vegetazione parassita, erano tanto spugnose da vomitare una pioggia fangosa di colore amaranto. Non posso aggiungere altro, perché persi i sensi stringendo tra le dita l’amuleto che ti ho mostrato.
“Il resto è storia nota…”
“Fu recuperato da una motovedetta, a diverse miglia dalla costa e a più di due giorni dalla scomparsa.”
Il vecchio assentì col capo.
“Sulla barca furono rinvenute macchie di sangue” proseguì il giovane. “Ma di suo cognato e di suo nipote nessuna traccia. Né un vestito, né un capello. Niente di niente, svaniti nel nulla. Fu accusato di omicidio volontario, ma le prove non furono sufficienti a condannarla.”
Il vecchio socchiuse le palpebre. Aveva gli occhi lucidi, anche se non si comprendeva se per la commozione o per l’eccitazione.
“Sostenne di esser finito in una tormenta, ma la guardia costiera smentì la possibilità di una tale ricostruzione. In tutta la costa toscana, nel giorno della vostra scomparsa, non vi era stata alcuna tempesta…”
“Proprio così dissero” lo interruppe il vecchio. “Nessuna tempesta, però il fatto che fossimo scomparsi dal braccio di mare interessato è rimasto per loro un nodo tuttora da sciogliere.”
“Perché non raccontò la vicenda che mi ha narrato?”
Il vecchio arricciò le labbra, quindi si guardò le mani.
“Per due motivi” proseguì mettendo in mostra il pollice e l’indice. “In primo luogo, nessuno mi avrebbe creduto. Probabilmente, si sarebbero convinti che avessi da nascondere qualcosa. Per non parlare della speculazione che ne sarebbe derivata. Senza dubbio, mi avrebbero messo in croce per questo. In seconda battuta, ebbi paura. Non tanto di quello che mi sarebbe potuto succedere, ma di me stesso. Ero davvero sicuro che vi fosse un portale sospeso tra la realtà e un altro mondo? O forse avrei dovuto cercare tale confine nel mio cervello? In altre parole, ero davvero sicuro di essermi imbattuto in qualcosa di tangibile piuttosto che in una via di fuga elaborata dalla mia coscienza?”
“Via di fuga… mi sta dicendo che forse potrebbe esser stato lei a uccidere i…”
“Considerazioni, amico mio… ipotesi che una mente razionale dovrebbe porsi. Del resto, è la ragione a dettare le regole nel mondo; almeno è ciò che dicono i saggi”
“E l’amuleto?”
Il vecchio scrutò il giovane, dopo si voltò verso il mare. Pareva osservare un punto determinato, avviluppato dall’ombra. Forse il faro, che ammiccava sullo sfondo – sotto il riflesso lunare.
“Ogni uomo, finché non ha un incontro con l’imponderabile, crede che questo sia una metafora. Pensa di essere intoccabile, certo delle sicurezze che la quotidianità gli offre. Ma è quando l’inspiegabile irrompe nella ragione che qualcosa si spezza. Le certezze si sgretolano, come castelli di sabbia, la paura cresce in fondo all’animo. Ed è solo allora che ci preoccupiamo di ciò che i nostri sensi non possono affrontare. In quegli esatti istanti, veniamo ingoiati da un humus occulto che non ci siamo preparati a metabolizzare. Talvolta, le illusioni e la pazzia sono le uniche vie d’uscita dal labirinto di sostanza in cui veniamo sbalzati. Preconcetti e forme non trovano più spazio in questa nuova dimensione.
“L’amuleto, ragazzo mio, è una prova che – là fuori – c’è un qualcosa di cui ignoriamo l’esistenza; qualcosa che vuol interagire con noi e comunicarci messaggi, forse addirittura premonitori, che non siamo in grado di comprendere.”
“Oppure fa parte di una concatenazione di eventi, filtrati da occhi e recepiti da cellule cerebrali. Una questione di filtri, per dirla con sue parole” rispose il giovane, chiudendo il block notes.
Il pescatore dondolò la folta chioma bianca, infine fece schioccare la lingua.
“Ragazzo mio, ogni buona storia ha più di una chiave di lettura e quella da te prospettata ne è una. Spetta al cuore di chi ascolta interpretare il senso degli avvenimenti.”
“Penso che possa bastare” concluse il giovane, porgendo la mano all’altro. “Verificherei la sua storia di persona, ma… sa com’è, ho la nausea del mare. Per cui, non mi dirigerò oltre il faro; e poi preferisco dormire sonni tranquilli, in mezzo ai palazzi illuminati dal sole.”
I due si salutarono e si inoltrarono nella notte.
“Ehi, ragazzo, la borraccia?” urlò, infine, il vecchio.
“La tenga per la prossima volta… chissà che non trovi il coraggio per aprire quella porta…” gli rispose il giovane.
Il vecchio scosse la testa, certo che tale eventualità non si sarebbe mai verificata. D’altronde, è più facile trincerarsi in una visione consolidata, anziché imbarcarsi alla ricerca di una verità scomoda.

Matteo ManciniLʼAUTORE
Matteo Mancini nasce a Pisa nel 1981 e vive a Tirrenia (Pi), nel palazzo pertinenza dei vecchi studi cinematografici Pisorno. Laureato in legge con una tesi sulla repressione penale del doping, scrive narrativa da undici primavere. È stato premiato, nel corso degli anni, da Carlo Lucarelli (Strategia della Tensione. 2007), Edoardo Montolli (Cronaca Nera, 2008), Biagio Proietti (Giallolatino, 2009), nonché segnalato da Gianfranco De Turris, dal Premio Urania Giovanni De Matteo e da Andrea Vaccaro. È stato pubblicato in oltre cinquanta antologie e anche in monografie cinematografiche varie (cinema di Ciccio & Franco, volume su Bruno Mattei e un volume ufficiale incentrato sull’attrice, ex Miss Italia, Daniela Giordano), con vittorie e piazzamenti in concorsi di quasi tutti i generi (gli manca il comico). È stato pubblicato, tra gli altri, da Delos Book, Nasf, Edizioni Ferrara, Historica Edizioni, Giovane Holden, Del Bucchia Editore, Il Foglio Letterario, Gds Edizioni, Eds, oltre che sulla rivista sci-fi Next e su Cronaca Vera.
Ha pubblicato inoltre le antologie La Lunga Ascesa dal Mare delle Tenebre (2010) e Sulle Rive del Crepuscolo (2011) con Gds Edizioni, oltre il saggio, diviso in quattro volumi, Spaghetti Western (2012-19) con le Edizioni Il Foglio, e il volume sportivo I Re Senza Corona della Formula 1 (2017) sempre con il Foglio. Curatore di tre antologie collettive, pubblicate da Gds e Il Foglio, è un grande appassionato di narrativa fantastica tanto da aver curato la prefazione del saggio Com’era Weird la mia Valle (2018) edito da Milena Edizioni e scritto dal duo Lastrucci e Barone Lumaga. Ha diretto un mediometraggio fantastico terminato nel 2016 intitolato Z3D, oltre ad aver scritto la sceneggiatura di un cortometraggio giallo intitolato Non Urlare diretto da Francesco Bernardini e selezionato al FI-PI-LI Horror Festival edizione 2017.
Ritornato alla narrativa nel 2017 e nel 2018 ha ottenuto sette pubblicazioni (su nove partecipazioni a concorsi), con menzioni al Premio Hypnos e a L’Orrore di Lovecraft edito dal Circolo Culturale Esescifi, concorso quest’ultimo in cui ha conquistato la seconda moneta.
Grande cultore anche di cavalli, settore corse in ostacoli, è stato il primo in Italia ad aprire, nel 2015, un blog (ippicaostacoli.blogspot.com) interamente dedicato al movimento italiano con presentazione corse, pronostici, statistiche, riassunti stagionali, schede di caratura (per i contenuti) internazionale incentrate sulla genetica e alla carriera dei cavalli vincitori dei più importanti gran premi nazionali. In questa veste ha visto pubblicare, pur se non accreditato, una propria foto sul principale giornale di settore, Trotto & Turf, in un numero del marzo del 2018 e ha pubblicato un articolo sulla stagione in ostacoli pisana sul mensile di informazione e cultura ippica Il Paese dei Cavalli del marzo 2015. Possiede inoltre un ulteriore blog, giurista81.blogspot.com, dove recensisce tutto ciò che legge (circa quaranta libri l’anno). Attualmente sta meditando di preparare una nuova antologia con all’interno il meglio della sua produzione fantastica.

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