Una notte del 31 ottobre di Davide Stocovaz

Una notte del 31 ottobre di Davide StocovazAppena aprii gli occhi, mi trovai avvolto da un’oscurità impalpabile.
Non avevo memoria di quanto avessi dormito, né del luogo nel quale mi trovavo. Provai a muovere un braccio. Lo sentii urtare contro una superficie dura, liscia. Alzai anche l’altro, poggiandolo a quello che sembrava essere il soffitto di una minuscola stanza.
Anelavo la luce del sole, così vivida nei miei ricordi. Desideravo respirare aria fresca, sentirla entrare nel naso e scendere fino ai polmoni. Alzai entrambe le braccia. I palmi delle mani poggiati sulla superficie sopra la testa. Spinsi con tutte le mie energie. Non accadde nulla. Mi sentii soffocare. L’aria, all’interno dello stanzino, era irrespirabile; un odore acre, pungente, mi intasava le narici fin dal mio risveglio. Dovevo assolutamente uscire da lì, o sarei impazzito. Allungai nuovamente le braccia verso l’alto. Strinsi i denti. Raccolsi ogni briciolo di forza. Spinsi ancora. Sentii il soffitto gonfiarsi e piegarsi sotto le mani. Uno scricchiolio legnoso mi indicò che stavo raggiungendo il mio scopo. Con un ultimo, sovrumano sforzo, alzai il busto, spinsi ancora. Lo sentii cedere e spalancarsi. Una valanga umida e compatta mi travolse, spezzandomi il respiro. Trattenni il fiato, agitai braccia e gambe spingendomi verso l’alto. Mi trovai a nuotare nel cuore di quella strana valanga dal fresco odore pungente. Chiusi gli occhi, muovendomi alla cieca. Annaspai per un tempo che mi sembrò eterno, finché urtai con le dita una nuova superficie; più dura e fredda della precedente. Dovevo sollevarla il prima possibile. Provai a forzare quel secondo soffitto. Piegai le ginocchia, sollevai il busto, e lo tentai ripetutamente, spingendolo verso l’alto. Lo sentii smuoversi appena. Forse qualche centimetro. Lasciai la presa, recuperai le energie e, dopo qualche secondo, lo attaccai di nuovo. Con uno sforzo supremo, stringendo i denti a tal punto che iniziarono a dolermi, riuscii a scostare il soffitto, spingendolo a lato. L’aria fredda e briosa della notte mi colpì le narici con una folata. Fui subito pervaso dall’estasi più pura che abbia mai conosciuto. Trattenni il respiro e mi infilai nella fessura appena creata. Uscii all’esterno alzandomi contro il cielo punteggiato di stelle. La luna rifulgeva tra gli alberi scheletrici. Mi guardai attorno, aspettando di ritrovarmi su un qualche tipo di tetto, a osservare la città dall’alto. Invece davanti a me si stendeva una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch’esse di marmo.
Semincosciente, avanzai verso un cancello. Lo aprii. Barcollando, m’incamminai lungo un sentiero bianco, di ghiaia. Non sapevo, e non mi interessava saperlo, se ciò che stavo vivendo fosse un sogno, una magia oppure se fosse tutto frutto di una sorta di pazzia. Non aveva importanza per me, deciso com’ero a contemplare a ogni costo lo splendore e la gioia della vita. Passai sotto un arco che delimitava quella estensione di lapidi e colonne. Mi ritrovai così a vagare in aperta campagna, incespicando a ogni metro compiuto. Talvolta seguivo la strada resa visibile dai barbaglii lunari, a tratti me ne allontanavo, seguendo una strana ispirazione. Attraversai prati nei quali si alzavano ruderi scheletrici che testimoniavano l’antica presenza di una strada abbandonata.
Dovevano essere certamente trascorse più di due ore quando raggiunsi una casa, dalle finestre illuminate. Da esse si udiva provenire l’eco di una baldoria. Una festa. Con tanto di musica rock.
Mi accostai a una finestra e guardai dentro: una compagnia di giovani, curiosamente abbigliati da fantasmi, streghe e mostri, si divertivano e parlavano tra di loro. Qualcuno ballava su quella che era una pista da ballo improvvisata.
Mi allontanai dalla finestra, raggiunsi la porta. Era aperta. Compiuto un passo, si verificò immediatamente qualcosa di inspiegabile. Tutti gli occhi dei presenti si girarono verso di me. La musica scemò di colpo e un silenzio abissale calò sulla festa.
La prima a gridare dal terrore fu una ragazza vestita da strega, che si lanciò attraverso la stanza svanendo in un’altra. Seguirono altre grida di panico, di orrore, sia maschili che femminili.
Ogni gola emetteva un grido orribile. Ne seguì un fuggi fuggi generale. Molti si tenevano gli occhi coperti dalle mani, correndo alla cieca. Alcuni spalancarono le finestre e si gettarono oltre a esse fuggendo urlanti nella notte.
Rimasi solo. Ma non del tutto. Qualcos’altro era rimasto nella stanza, assieme a me. Lo intravidi da lontano muovere qualche passo incerto nella mia direzione. Curioso, mi avvicinai a mia volta.
Quando fui abbastanza vicino da poterne distinguere chiaramente le fattezze, un ululato sovrumano mi scaturì dalla bocca. Quella cosa era tutto ciò che di più mostruoso, abnorme e ripugnante i miei occhi avessero mai visto. Era il ritratto perfetto della decomposizione: una carnagione pallida, a tratti verdastra; capelli sporchi gettati alla rinfusa sulla testa; labbra violacee; orbite vitree e ritirate che pronunciavano uno sguardo vacuo, innaturale; le ossa delle spalle affioravano dalle vesti lacere e lerce di terriccio; persino una parte della cassa toracica era esposta e affiorava dai tessuti come una gabbia fatta di ossa.
Arretrai vacillando di un passo. Provai a sollevare una mano per non vedere ancora quell’immagine disgustosa, inguardabile, ma i miei nervi erano così storditi che il braccio non riuscì a obbedire alla mia volontà. Il tentativo di movimento, però, fu sufficiente a farmi perdere l’equilibrio. Avanzai di alcuni passi per non cadere, e la mia mano incontrò la sua. Le nostre dita si fusero assieme, con mio grande raccapriccio.
Urlai. L’urlo più disumano e acuto che le mie labbra abbiano mai emesso.
Poi tutto mi fu chiaro. Semplice e orribile.
Quel mostro, causa del panico generale, era rinchiuso in una cornice dorata. Avevo proteso le dita. Avevo toccato la dura e fredda superficie di uno specchio.

Davide StocovazL’AUTORE
Davide Stocovaz nasce a Trieste nel 1985.
Terminati gli studi partecipa alla realizzazione di film e documentari.
Nel 2010 vince il Primo Premio per la Sceneggiatura Mattador, dedicato a Matteo Caenazzo, con lo script Istinti.
Nel 2014 il suo racconto L’ultima Sinfonia viene pubblicato nella raccolta Morte a 666 giri curata dalla Dunwich Edizioni.

Nel 2016 viene pubblicato il suo primo romanzo: Zanne nelle Tenebre (Editrice GDS)
Nel 2017 viene pubblicato il romanzo dal titolo Abissi (Elison Publishing).
Nello stesso anno esce la raccolta di racconti La Voce e altri racconti (Franco Puzzo Editore).
Nel 2019 esce il racconto Tra due fuochi (La Sirena Edizioni)

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