Nicola Lombardi

L'orrore secondo Nicola Lombardi 1° parte

Premessa

Per chi non mi conoscesse, mi chiamo Christian Sartirana, di sangue ligure e siculo, ma nato in Piemonte, classe 1983, pubblico narrativa weird dal 2013.
In questi anni di esperienza diretta sul campo ho avuto più volte modo di scontrarmi con molti aspetti alquanto ambigui e scomodi della realtà di questo particolare genere letterario; scontri (e anche incontri, non facciamo i pessimisti) che mi hanno spinto a pormi alcune domande, molte delle quali condivise da tantissimi colleghi, ma che solo di rado ho sentito pronunciare ad alta voce.
Beh, qualche mese fa ho deciso di rimediare ponendole direttamente a uno dei più importanti autori italiani del macabro: Nicola Lombardi, nato a Ferrara nel 1965, scrittore, traduttore e curatore, apprezzato tanto in Italia quanto all’estero. Quella che è cominciata come un’intervista si è presto trasformata in un’approfondita disamina su alcuni di quelli che io reputo gli aspetti cruciali dello scrivere horror e del farlo in Italia. Ho scelto l’autore Nicola Lombardi (come medium che darà intera voce al genere, diciamo…) sia per la sua lunghissima presenza nel campo, sia per il fatto che è uno degli autori italiani di cui conosco meglio l’opera.

C.S

Ciao Nicola e grazie per aver risposto al mio invito. Come ti avevo già accennato in precedenza, questa non sarà la solita intervista. In questa occasione vorrei fare qualcosa di più che mettere in fila una serie di pubblicazioni ed esperienze editoriali.
Mi piacerebbe andare più a fondo e credo che il modo migliore e più eccitante di farlo sia quello di analizzare i tuoi incubi personali e la tua concezione della letteratura dell’Orrore.
Te la senti? Cominciamo subito.
Sono anch’io un autore di storie del macabro e come tale mi sono sempre chiesto la ragione che mi ha spinto a consumare esperienze letterarie destabilizzanti, nonché a inventare, con tanta passione e perizia, contesti in cui la sofferenza, la crudeltà e la perversione umane possano trovare la via più efficace di espressione. Ti poni mai questa domanda?
Se ci pensiamo attentamente è una cosa ben strana e che può condizionare molto l’opinione che il prossimo può farsi di noi, sia come persone che come scrittori. A tal riguardo citerei un’affermazione molto puntuale di un autore che entrambi stimiamo, Ramsey Campbell, che nell’introduzione dell’edizione italiana di un suo vecchio romanzo (La faccia che deve morire, Mondadori Urania 2015) ci regala alcune pagine introduttive, dove analizza in modo piuttosto sincero il suo rapporto con la narrativa dell’orrore.
Campbell attribuisce senza troppi giri di parole la sua passione per il male al fatto di essere cresciuto con una madre schizofrenica e a tutto quello che ne è conseguito, compreso l’assurdo rapporto con il padre. È tanto inquietante quanto toccante la consapevolezza con cui affronta questo tema, forse anche più dei suoi scritti oserei dire. Questa sua frase ad esempio mi ha strappato un sorriso amaro, la cito:
“… credo di essermi preoccupato troppo di presentare me stesso, nelle interviste, come un tranquillo tizio qualunque che casualmente scrive storie dell’orrore. Contrariamente a Steve King io non credo che una persona del genere esista.”
Come la vedi Nicola? Sei più d’accordo con King, oppure con Campbell? Pensi che sia un caso se scriviamo e leggiamo horror, oppure sono i nostri trascorsi infantili, trascorsi traumatici, a ingabbiarci in questa rete di incubi che si autoalimenta?
Se dovessi far rispondere a qualche tuo personaggio (tipo il prete de Il letto rosso, Independent Legions 2018) direi che sei sicuramente girato dal lato di Campbell, ma forse mi sbaglio…
Allora, che mi dici?

N.L.

Nicola Lombardi
Nicola Lombardi

Dunque, se mi poni di fronte a questi due modelli posso risponderti che sono più propenso a collocarmi in una posizione intermedia. Non mi convince granché la proposta del “tranquillo tizio qualunque” applicata a King (che mi parrebbe più che altro una simpatica posa al servizio di un’analisi affrettata e superficiale). Del resto, volendo considerare invece le esperienze e i traumi che hanno segnato l’infanzia di un gigante della letteratura dell’angoscia come Campbell, è innegabile che ciò abbia segnato in buona misura lo sviluppo della sua immaginazione in una determinata direzione; ma viene da domandarsi: “Se non avesse attraversato certe esperienze, sarebbe diventato comunque l’autore che tutti conosciamo?” Io sono per una risposta positiva, dal momento che è mia convinzione che certe inclinazioni dello spirito siano totalmente slegate e autonome rispetto a condizioni o situazioni oggettive, le quali al limite possono intensificarle, ma non generarle.
In quanto a me, posso dirti di non aver mai subito traumi (coscienti) a cui poter ascrivere questa mia propensione, che vivo fin dall’infanzia come una naturalissima sfaccettatura della mia personalità. La passione per il “lato oscuro” delle cose e l’attrazione che l’ombra ha sempre esercitato su di me sono fattori imprescindibili per i quali non ho mai cercato spiegazione, né tantomeno giustificazione.
Nel mio romanzo Madre nera, decisamente autoreferente, per esempio, mi sono esercitato a immaginare un trauma che possa essere considerato fattore scatenante per tutta una serie di scelte in grado di segnare intere vite, quella del personaggio protagonista come quelle dei comprimari, nel bene o nel male. Ma, ripeto, si tratta solo di un esercizio creativo, un modo per fornire una risposta che risposta non è, in quanto non c’è in effetti alcuna vera domanda.
L’Orrore, e ancor di più la Paura che da esso deriva, sono a mio avviso i principali perni sui quali ruota la sfera dell’esistenza, o almeno quelli i cui costanti cigolii ho sempre avvertito e vissuto come irresistibili canti di sirena. Ho smesso ormai da tempo di chiedermi il perché, limitandomi a seguire una corrente interiore che mi porta a raccontare in mille modi l’inquietudine insita nella consapevolezza stessa di esistere. E non si tratta certo del bisogno di esorcizzare le proprie paure, ma semplicemente di dar loro nomi e volti in modo da poterle plasmare, trasmettere e condividere, coltivandole come un bene prezioso.
Vorrei però liberare il campo da un fraintendimento comune, quello per cui si tende a sovrapporre il concetto di Orrore con quello del Male (idea, quest’ultima, che io rifuggo con tutto me stesso). Il Male genera Orrore, questo sì; ma non è necessariamente vero il contrario. Personalmente, detesto la malvagità, le perversioni, la crudeltà, in tutte le loro forme; il fatto che io – in quanto autore da sempre votato all’horror come genere narrativo – mi ritrovi ad attingere a tali dimensioni per modellare le mie paure non implica in alcun modo che io le approvi o che ne sia affascinato. Allacciandomi a una tua considerazione, sappi che mai e poi mai lascerei che un personaggio quale il don Marzio de Il letto rosso risponda al posto mio, in quanto lo considero un relitto umano folle e degenerato col quale sento di non aver proprio nulla da spartire.Il letto rosso Per me, immaginare e raccontare l’Orrore rappresenta un’attività da mantenere rigorosamente limitata alla dimensione intellettuale, mentre sul piano umano mi mantengo saldamente ancorato a un mio più che collaudato equilibrio interiore.
Tornando a una delle tue domande, quindi, ritengo infondata la preoccupazione che il prossimo possa farsi di me una certa opinione come persona sulla base delle cose che creo; e chi lo facesse, senza conoscermi, prenderebbe un enorme granchio. Sono un padre di famiglia, seguo come meglio posso i dettami della mia fede cattolica, cerco di non far troppi danni insegnando il catechismo la domenica, per cui mi ritengo più che autorizzato a rispedire al mittente, in quanto infondato, qualunque giudizio umano o morale possa essere espresso prendendo come riferimento i parti della mia fantasia. Lascio comunque a chi è più ferrato in psicanalisi il compito di tracciare schemi e trarre conclusioni; io mi limito a mantenermi sull’orlo del precipizio (ricordi il finale di Madre nera?), consapevole di non volermi né abbandonare all’abisso ma neppure tirarmi indietro. Posizione scomoda? Forse. Però io mi ci ritrovo bene: è un punto d’osservazione che trovo assolutamente congeniale.

C.S.

Una cosa che mi ha sempre incuriosito è la tua fede cattolica. Una volta, adesso non ricordo in quale raccolta, avevo scovato un autore weird che era un prete. Ho sorriso e ho pensato che non mi sarebbe dispiaciuto vivere di campagna e scrittura in qualche monastero sperduto.
Come riesci a conciliare due passioni (definisco passione anche la fede) così opposte? È un po’ come un ambientalista appassionato di rally, o esagero? Certo, una volta ho letto (credo in un saggio sulla famosa caccia alle streghe di Salem) che quella cristiana è una delle religioni che attribuisce più importanza alla figura del Diavolo e spesso, in molti credenti, ho notato (che poi è il perno su cui poggiano molti romanzi weird) una maggiore attitudine nel cercare il Peccato che la Salvezza.
A proposito… tu credi nell’esistenza delle entità diaboliche, o le reputi mere rappresentazioni delle paure umane?

N.L.

La cisternaQuello di dover conciliare la fede con la mia passione per il genere horror non è mai stato un problema, per me. Religione e Mistero vanno di pari passo, il sovrannaturale è connaturato in qualsiasi credo ultraterreno, che per sua natura lega l’immanente al trascendente. Tra l’altro, il genere horror – almeno nella sua struttura più classica, tradizionale – ha presentato spesso valenze morali, così come del resto le favole, individuando, additando e rappresentando il Male per poi sconfiggerlo, punendo coloro che se ne sono macchiati. Certo, nel corso del Novecento il genere ha imboccato poi altri sentieri, adattandosi ai mutati costumi e culture, spolverandosi di dosso certe patine morali (o moraleggianti), per cui non è più così immediato riconoscere la posizione dell’autore rispetto al contenuto e agli intenti delle proprie opere.
Tornando a me, nello specifico, se nel mio immaginario non c’è posto per il lieto fine non è perché io voglia esaltare l’Orrore sentendomene parte, anzi: nelle mie storie io sto sempre con le vittime, è in loro che mi identifico quando racconto, e in quanto uomo ne comprendo e condivido i limiti di fronte alla soverchiante forza dell’Ignoto. A questo proposito, ci tengo a sottolineare che il vero protagonista dei miei romanzi e racconti non è il Male, bensì la Paura. È questo il sentimento e l’emozione che ha formato da sempre la mia fantasia, e ogni mia storia non è che un piccolo passo lungo un cammino di ricerca che non mi condurrà da nessuna parte, forse, ma che ho sempre avvertito come ineludibile e affascinante percorso di vita, fin da bambino.
Un tema così ampio spalanca le porte al pericolo di divagare, per cui riporto la mia risposta entro i binari iniziali e pongo una domanda a me stesso: nei miei scritti è presente Dio, come lo è nel mio quotidiano? In realtà, la sua presenza o assenza è semplicemente indecidibile. Il fatto è che – avendo io scelto di non ricorrere a soluzioni narrative che implichino rimandi a un’idea di intervento divino – l’ho reso muto: mi ha sempre atterrito l’idea di un Dio che tace – secondo una logica per forza di cose inconoscibile all’uomo – e quindi ho adottato questa linea per creare storie d’orrore nelle quali assoluzione e redenzione non possano che venire, paradossalmente, dall’uomo stesso, per quel che valgono. Certo, mi rendo conto che in questo mio atteggiamento è possibile rintracciare contraddizioni, dubbi, insicurezze che in teoria non dovrebbero rientrare nell’ottica di chi ha fede; ma uomo e scrittore (e artista in generale) non devono necessariamente andare d’accordo, potendo rivendicare ciascuno la propria individualità operando tranquillamente per compartimenti stagni. Questo è il mio caso.
In quanto al Diavolo e ad altre entità diaboliche intese come forze “altre” rispetto all’uomo… Sì, ci credo, decisamente. E mi fanno una paura del diavolo, se mi passi la facile battuta. Per il credente il Diavolo esiste, non è semplicemente un simbolo. È parte imprescindibile della dicotomia in cui siamo immersi, dilacerati fra le pulsioni al Bene e al Male, in una condizione congenitamente schizoide che vede l’uomo chiamato costantemente a compiere delle scelte, più o meno coscienti. Condizione etica e morale che naturalmente è condivisa da tutti, anche secondo un’ottica laica che prescinda da qualsiasi fede. Poi, lascio a chi di dovere qualsiasi approfondimento teologico.

C.S.

Consideri scrivere un atto più egoistico o altruistico? A questo allaccio anche un’altra domanda: Trovi che la letteratura abbia una finalità, oltre quella di intrattenere? E se così fosse, per te quale sarebbe la finalità della letteratura dell’Orrore e della tua in particolare? Cosa vuoi offrire ai tuoi lettori? Vuoi offrire qualcosa o non t’interessa?

N.L.

Madre neraRitengo che lo scrivere possieda caratteristiche sia egoistiche che altruistiche: si scrive perché gli altri ci leggano, quindi si offre qualcosa e nel contempo si appaga il proprio ego, qualora il prodotto possa vantare qualche qualità. Il fine primario della letteratura (o meglio, nel nostro caso, della narrativa) è senz’altro quello di intrattenere. Io scrivo perché desidero trasmettere qualcosa di me, delle mie idee, delle mie paure; e perché il processo funzioni è necessario avere dei lettori, i quali si avvicineranno ai miei scritti solo se avranno lo stimolo e la curiosità, e continueranno a farlo solo se le loro aspettative di intrattenimento non verranno deluse.
Poi, naturalmente, esistono intere biblioteche di studi sul senso della letteratura e sul suo potenziale sociale, psicologico, didattico, eversivo, morale… Ma quando io leggo voglio essere in prima battuta intrattenuto; tutto ciò che ne ricaverò in più sarà un plusvalore di cui renderò merito all’autore.
Come già accennato, la storia della Letteratura dell’Orrore è costellata da una massiccia produzione venata da intenti palesemente morali, raggiunti attraverso la messa in scena del Male, della Tenebra, del Peccato, palco sul quale gli attori poi soccombono o si salvano a seconda delle azioni commesse o delle scelte compiute. Oggi, comunque, questa impalcatura si è sgretolata lasciando spazio a nuove architetture narrative nelle quali trovano sfogo – sia da parte dell’autore che del lettore – le più variegate pulsioni: dal disagio esistenziale alle fobie sociali, dalle psicopatologie a ogni genere di repressione, dal rifiuto del quotidiano al desiderio di radicali evasioni intellettuali…
In quanto a me, che ricorro alla narrativa e alla scrittura come mezzi e non come fini, posso dirti che racconto per condividere le paurose fantasie che fanno da sempre parte di me, e alle quali non posso che essere grato. Quella della condivisione è quindi la molla principale che mi spinge a dare volti e strutture alle mie paure (che non intendo affatto “esorcizzare”). Mi chiedi quindi cosa intendo offrire al lettore? Soprattutto intrattenimento, instillandogli magari qualche immagine che possa in qualche modo turbarlo. Sai qual è il complimento più appagante che abbia mai ricevuto? “Dopo aver letto un tuo racconto non sono riuscito a chiudere occhio!” Trovi un pizzico di sano sadismo, in questo? Forse sì. Ma fa parte del gioco.

C.S.

Okay, adesso passiamo a qualcosa di più materialistico. Parliamo di numeri, come la cifra bassissima di lettori che consumano horror. Io nuoto in questo acquario di autori da meno di dieci anni, ma credo di aver individuato abbastanza chiaramente alcune delle sue dinamiche principali. Gran parte dei lettori di horror (diciamo pure un 8,5-9 su 10) sono autori o aspiranti tali. Il pubblico di massa non ci caga di striscio e le risposte che sento dare a questa tendenza (in ligottiani stati su Facebook) virano in larga parte verso un lamento generale del tipo: la gente non legge e se lo fa legge perlopiù cazzate. Ti ci ritrovi?
Anch’io ho coltivato per un certo periodo idee simili: ti sbatti tanto per scrivere qualcosa di buono (buono per te, almeno) poi lo pubblichi e il giorno dopo lo vedi sprofondare nel nulla, mentre altre cose per te poco originali e ripetitive (e spesso lo sono davvero) hanno tutta l’attenzione del pubblico. Fa girare le palle, è normale. Tuttavia, da quando mi sono affacciato al mondo delle fiere e ho spesso a che fare con la gente, i terrificanti lettori “normali” devo ammettere che li ho trovati molto più curiosi e ben disposti di quanto si racconti in giro. Hanno voglia di conoscere l’horror italiano, ma non sanno nulla della sua esistenza.
Le cause di questo “grosso guaio” vanno sicuramente ricercate nelle regole criminali della distribuzione, nonché nel fatto che ai grossi editori del nostro genere importa poco (anche perché la sua moda è finita da un pezzo e chissà quando tornerà). A volte, però, ho come la sensazione che l’ambiente degli autori che rappresentano l’horror in Italia, pur pretendendo che la gente si avvicini a esso, non sembra minimamente disposto a fare un passo in più verso il pubblico, a farsi capire, nei suoi valori e nei suoi significati.
Immagina un autore seduto al suo stand e il potenziale lettore di turno che gli passa davanti e da una rapida occhiata ai titoli. L’autore non spiccica una parola per attirare la sua attenzione e dopo un po’ il potenziale lettore si allontana, e il nostro autore, deluso, incazzato, sfiduciato, se ne torna nel suo eremo d’ombre a cagare incubi, in solitudine… Io la vedo un po’ così. È verosimile?
Se così fosse, magari questa immagine di autori solitari e maledetti che vivono solo per il piacere di mettere insieme le loro storie (che scrivono per soddisfare solamente il loro ego), non è un gran toccasana per il mercato dell’editoria. Li allontana dal brutto dell’editoria, ma li isola anche dal bello: come i lettori.
Insomma, se non ci conoscono è colpa nostra.
Che ne dici? Dicci la tua.

N.L.

Dunque, vediamo un po’ di districarci in questa messe di suggestioni.
Che in Italia si scriva o si pubblichi più di quanto si legga è un dato di fatto, oggettivamente sostenuto da dati di mercato. Se in questo quadro poi vogliamo farci del male ed estrapolare i numeri che ruotano attorno al genere horror, allora è inevitabile che il grigio velo dello sconforto cali su di noi.
Del resto, che le major editoriali nostrane rifuggano dall’esplorare nuovi orizzonti della narrativa orrorifica, preferendo di gran lunga muoversi entro la comfort zone dei perenni classici, è un altro fattore non trascurabile a giustificazione del fatto che l’horror letterario non abbia una divulgazione di massa.
Tanti editori minori ci provano o ci hanno provato, tante collane sono nate e morte prematuramente, svariate realtà editoriali partite con una precisa impronta horror hanno poi dovuto, gioco forza, aprire ad altri generi, o rivolgersi ad altri mercati. Di chi è la colpa? Degli editori, degli autori, dei lettori? Se ne sono sentite di tutti i colori, a questo proposito; e ogni presa di posizione mette in campo inevitabilmente argomenti forti e altri più deboli e discutibili, come in ogni sana disputa.
Nel tempo, io ho maturato una mia personale convinzione, ovvero che narrativa horror e consenso di massa siano due concetti davvero poco conciliabili. Per sua natura, l’horror (editorialmente parlando) non è un genere come gli altri, nel senso che rappresenta una tipologia di intrattenimento impegnativa, e non vedo come si possa pretendere di estenderla oltre l’alveo del suo potenziale e comprovato bacino di fruizione. Certo, esistono i fenomeni, ma quelli non fanno media; sono picchi che tuttalpiù richiamano una momentanea attenzione (quella che tu definisci “moda”, e che statisticamente segue un flusso di alti e bassi più o meno quinquennali), ma non hanno una significativa influenza su quello che è l’andamento standard del mercato, nel medio e lungo termine.
Il fatto è che l’horror (e ribadisco ‘horror letterario’, poiché quello ludico e cinematografico segue altri criteri) richiede una particolare inclinazione di gusto, di sensibilità, di predisposizione, se vogliamo. Perché, da lettore generalista, dovrei mai impegnarmi per espormi a suggestioni dichiaratamente volte a provocarmi paura, o disgusto, o inquietudine, a farmi avere incubi o a togliermi il sonno? Perché in definitiva è questo che si propone, il genere horror, al di là di qualunque legittima lettura allegorica gli si possa o voglia attribuire. Per cui non mi meraviglio più, se i numeri sono quelli che sono. C’è proprio una componente congenita al genere che innesca una sorta di autoselezione, di affinità elettiva, tra prodotto e utente; e non mi riferisco all’utente casuale, quello che si avvicina per curiosità più che per reale bisogno: parlo dei lettori sostenitori, dello zoccolo duro, di quelli che vanno alla ricerca… e che a quanto pare non sono numericamente sufficienti a sostenere e giustificare abbastanza a lungo proposte editoriali di ampia distribuzione. Poi, è ovvio, l’analisi si può approfondire mettendo sul tavolo tutte le possibili variabili, vale a dire la qualità dei prodotti, il loro costo, la promozione…
A proposito di promozione, mi riallaccio alla tua domanda. Io frequento molto raramente le fiere editoriali (per pigrizia, più che altro), per cui non ho gran voce in capitolo. Ho amici che si muovono nell’ambiente con grande disinvoltura ed efficacia, e invidio chi possiede certe qualità comunicative; io sono sempre stato un pessimo venditore di me stesso, per cui non riesco a indentificarmi nella tipologia di autore da te proposto, quello che sta seduto dietro un banchetto in attesa del potenziale cliente, ma che poi non si ritrova gli strumenti per relazionarsi in maniera produttiva. Riconosco che è una delle mie carenze, ma non possiedo doti da autopromotore; chi le ha fa bene a sfruttarle, perché poi qualcosa si porta sempre a casa, anche a livello di immagine.
In riferimento poi all’idea degli “autori solitari e maledetti che scrivono per loro stessi”, tendenzialmente opererei un distinguo fra chi lo è davvero, e chi invece si atteggia a tale. Ci sono grandi autori che – avendo alle spalle un vissuto di sofferenza, traumi o altre esperienze segnanti – non possono fare altro che attingere al buio della propria anima per tirare fuori, anche a finalità terapeutiche, tutto ciò che sentono il bisogno di portare in superficie. Come distinguere le due categorie? Conoscere l’entroterra bio-esistenziale dell’autore aiuta senz’altro a valutare la sua opera, però non è né necessario, né richiesto. Quindi, io spesso mi accontento di godermi o meno la lettura, senza pormi troppi problemi circa la sincerità che vi sta dietro: se mi trasmette qualcosa, tanto mi basta.
In quanto a quei lettori che tu chiami “normali”, invece, il fatto che “hanno voglia di conoscere l’horror italiano, ma non sanno nulla della sua esistenza” mi lascia un po’ interdetto. Oggi la rete offre informazioni a valanga, su qualunque argomento. Non saper nulla dell’esistenza di un horror italiano suona un po’ come sinonimo di superficialità, di pigrizia, e sostanzialmente di un interesse all’acqua di rose. Fatico a giustificarli. Ma forse io sono troppo di parte.
Riepilogando, ritengo che l’horror letterario nostrano faccia già molto per mettersi in vetrina, ma che per sua costituzione, a prescindere dalla qualità, non possa sdoganarsi più di tanto presso il grande pubblico, quello che permetterebbe di mettere in moto un significativo meccanismo editoriale di produzione/vendita.
Quando parli di “pubblico di massa”, la vedo come un’utopia, una chimera. Te lo immagini uno scenario di mercato in cui nomi come Arona, Nerozzi, Vergnani o Di Orazio, solo per citarne alcuni, stanno impilati nelle vetrine Mondadori o Feltrinelli accanto a Bruno Vespa o Fabrizio Corona, oppure compaiono nelle classifiche dei bestseller de La Repubblica? Venti o trent’anni fa avrei anche potuto considerare ciniche o pessimistiche certe conclusioni; oggi le ritengo del tutto realistiche.
Chi scrive horror deve esserne consapevole, oggi, in Italia. Se vuoi aprirti al grande pubblico, se addirittura vuoi campare con la scrittura di genere, scrivi gialli, thriller, erotici, fantasy… A meno che tu non raggiunga popolarità mediatica per altre ragioni, allora puoi scrivere e pubblicare tutto quello che vuoi: nelle librerie, gli scaffali dedicati a simpaticissimi youtuber-blogger-influencer sono ben affollati. Ma qui stiamo parlando di libri veri, no?

Arrivederci a domani per la seconda parte dell’intervista. L’immagine d’apertura appartiene a Dunwich Edizioni.

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